Ordinamento penitenziario: il nuovo volto alla luce delle recenti evoluzioni giurisprudenziali

Numerose pronunce delle Alte Corti italiane Corte Costituzionale e Cassazione ed europee Corte EDU hanno ridisegnato i pilastri dell’ordinamento penitenziario italiano, attraverso l’eliminazione di incongrui momenti di rigidità della pena che si ponevano in aperto contrasto con finalità rieducativa della pena disseminati all’interno della legge n. 354/1975 e la valorizzazione dei diritti del detenuto.

Rimozione delle le presunzioni assolute di pericolosità. Ciò è avvenuto attraverso l’eliminazione da parte della Consulta e della Corte di Strasburgo, anche con pronunce oggetto di ingiustificate critiche mediatiche di automatismi di preclusione assoluta di accesso ai benefici penitenziari attraverso il superamento dell’endiadi collaborazione=rieducazione e del riconoscimento a tutti i detenuti del diritto alla speranza di uscire, anche progressivamente, dal carcere se si è compiuto un certo tipo di trattamento risocializzante . La tutela dei diritti quale precondizione per realizzare la funzione rieducativa della pena. La Suprema Corte, dal canto suo, ha continuato nel suo ampliamento dei diritti del detenuto e delle garanzie giurisdizionali affinché gli stessi possano trovare piena esplicazione anche e soprattutto all’interno delle mura del carcere. E l’esercizio effettivo dei diritti inviolabili del recluso è una precondizione necessaria per realizzare l’offerta di qualsivoglia progetto rieducativo al condannato. L’avv. Minnella, nel presente speciale, ripercorre le pronunce più significative in materia dell’ultimo anno, quali espressione di altrettante tappe di questo nuovo volto del diritto penitenziario, più attento alla dignità umana del recluso e al finalismo rieducativo e più aderente alla Costituzione e alla CEDU, cercando così di rimettere la pena in cammino verso la giusta rotta costituzionale.

Ergastolo ostativo la sentenza Viola n. 2 della Corte EDU. Con sentenza del 13 giugno 2019 la Corte EDU, Prima sezione, chiamata a pronunciarsi per la prima volta sulla compatibilità convenzionale del c.d. ergastolo ostativo previsto dall’ordinamento italiano artt. 22 c.p., 4- bis e 58- ter ord. pen. , ha riscontrato la violazione dell’art. 3 della CEDU. In particolare, la Corte ha affermato che, per effetto del regime applicabile alla pena inflitta al ricorrente Marcello Viola, le sue possibilità di liberazione risultano eccessivamente limitate la pena dell’ergastolo ostativo italiana, risolvendosi in una pena de iure e de facto irriducibile” cioè perpetuamente immodificabile integra un trattamento contrario alla dignità della persona e al senso di umanità, desumibile dall’art. 3 CEDU ma immanente all’intero sistema convenzionale. Censurata la legittimità convenzionale della collaborazione quale indice di avvenuto ravvedimento. I giudici di Strasburgo hanno puntato il dito contro il meccanismo della collaborazione della giustizia quale condicio sine qua non per accedere alle misure alternative alla detenzione, sottolineandone viceversa che, da un lato, la scelta di non collaborare anche da chi, come nel caso di specie, aveva compiuto un avviato percorso rieducativo , può essere legata ai rischi per la incolumità propria e di quella dei suoi cari e, dall’altro, all’opposto, può essere il frutto di una scelta opportunistica ma non sintomatica di risocializzazione. La presunzione assoluta di pericolosità per chi non collabora è contro la CEDU. Per la Corte europea una presunzione legale di pericolosità può essere giustificata quando non è assoluta ma si presta ad essere contraddetta dalla prova contraria. Invece, l’ergastolo perpetuo e irriducibile, fondato su una presunzione assoluta nascente dall’assenza di collaborazione con la giustizia integra una pena non riducibile quindi, una pena senza speranza non potendo essere riesaminata nel merito – come invece si auspica da Strasburgo in una prospettiva de iure condendo, visto che trattati di un problema strutturale e che pendono numerosi altri ricorsi dinanzi alla Corte europea e quindi l’Italia dovrà necessariamente intervenire – sulla base di altri elementi che possano provare il ravvedimento e la progressione trattamentale del condannato. Sentenza Viola definitiva. L’8 ottobre 2019 la Corte EDU ha respinto la richiesta di referral alla Grande Charme avanzata dal Governo italiano, ai sensi dell’art. 43 della CEDU, rendendo così definitiva la sentenza del caso Viola n. 2 contro Italia e imponendo allo Stato italiano di porre in essere le misure necessarie per far fronte alla violazione convenzionale dell’ergastolo ostativo. Reati ostativi e permessi premi la Corte costituzionale trasforma da assoluta a relativa la presunzione di accesso del beneficio ai condannati 4-bis. Ponendosi sulla stessa lunghezza d’onda di Strasburgo, la Corta costituzionale, nella sentenza n. 253/2019 deliberata il 23 ottobre 2019 e depositata il 4 dicembre 2019 , ha dichiarato costituzionalmente illegittimo in parte qua l’art. 4- bis ord. pen., per contrasto con i principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena articoli 3 e 27 Cost. , nella parte in cui non prevede che possano essere concessi a tutti” i detenuti 4- bis i permessi premio laddove non collaborino con la giustizia. La stessa Consulta riconosce il trade d’union con la sentenza Viola della Corte di Strasburgo, nelle parti espressamente dedicate alla collaborazione con la giustizia, ove viene sottoposta a critica una disposizione che assume iuris et de iure la permanenza di collegamenti con associazioni criminali del non collaborante ed eleva aprioristicamente la collaborazione al rango di sintomo eloquente di abbandono della scelta di vita originaria, quando in realtà essa potrebbe essere dovuta a molte altre ragioni, non sempre commendevoli. Anche dalla Consulta bandite le presunzioni assolute di pericolosità. In un’ottica di corretto bilanciamento di contrapposti valori costituzionali la rieducazione del condannato da un lato e la tutela della sicurezza pubblica dall’altro , la perdurante pericolosità di certi condannati deve essere reale e non presunta. Ed è quello che ha ribadito la Corte costituzionale, eliminando anche tale altro automatismo la presunzione di perdurante pericolosità resta nell’ordinamento, ma è suscettibile di prova contraria. La dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 4-bis ci dice chiaramente che il sacrificio al principio costituzionale per cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato non può essere bilanciato da un valore che rimanga allo stato ipotetico. La Cassazione recepisce il dictum della Consulta. La Suprema Corte Sez. I, 30 dicembre 2019, n. 52139 , in applicazione del dictum della sentenza 253/2019 della Corte costituzionale, ha annullato la decisione del tribunale di sorveglianza che aveva negato in automatico al detenuto il permesso premio perché non aveva collaborato. Detenuti minorenni illegittime le preclusioni assolute di accesso ai benefici penitenziari. Stesso filo conduttore per la sentenza n. 263/2019 deliberata il 5 novembre e depositata il 6 dicembre che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 comma 3 d.l. n. 121/2018, recante la disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni – secondo la quale fermo quanto previsto all’articolo 1, comma 1, ai fini della concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio e per l’assegnazione al lavoro esterno si applica l’articolo 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni – è stata dichiarata costituzionalmente illegittima nella sua interezza. I giudici delle leggi ribadiscono che cozzano con il finalismo rieducativo della pena le preclusioni assolute” di accesso ai benefici penitenziari a fortiori per i condannati minorenni , ossia alle misure penali di comunità e ai permessi premio e al lavoro all’esterno, che non lasciamo margini al condannato per confutarle, anche qualora abbia seguito un tracciato risocializzante. Di conseguenza, i detenuti minorenni e i giovani adulti, condannati per uno dei reati ostativi, potranno accedere ai benefici penitenziari misure penali di comunità, permessi premio e lavoro esterno anche se, dopo la condanna, non hanno collaborato con la giustizia.

Revoca della misura alternativa e possibilità di detenzione domiciliare ‘speciale’ alla madre per la cura dei figli minori di dieci anni Sempre nella strada della rimozione degli automatismi preclusivi disseminati nella legge sull’ordinamento penitenziario, con sentenza n. 187/2019 deliberata il 22 maggio 2019 e depositata il 18 luglio 2019 , la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, commi 1, 2 e 3, ord. pen., nella parte in cui detti commi, nel loro combinato disposto, prevedono che non possa essere concessa, per la durata di tre anni, la detenzione domiciliare speciale, prevista dall’art. 47- quinquies per le condannate madri con prole fino a dieci anni, dopo l'espiazione di almeno un terzo della pena , nei confronti di chi è stata disposta la revoca di una delle misure indicate nel comma 2 dello stesso art. 58-quater affidamento in prova, detenzione domiciliare e semilibertà . e conseguente possibilità di detenzione domiciliare ‘ordinaria’ ai genitori con prole inferiore a dieci anni. La Consulta ha altresì dichiarato, consequentur, l’illegittimità costituzionale delle stesse disposizioni penitenziarie nella parte in cui, nel loro combinato disposto, prevedono che non possa essere concessa, per la durata di tre anni, la detenzione domiciliare, prevista dall’art. 47- ter , comma 1, lett. a e b ord. pen. donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente b padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole , al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una delle misure indicate al comma 2 dello stesso art. 58 -quater , sempre che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti. La detenzione domiciliare ordinaria” – ha osservato la Corte – non potrebbe infatti essere assoggettata a una disciplina deteriore rispetto a quella applicabile per condannati a pene superiori ai quattro anni, cui si rivolge la disciplina della detenzione domiciliare speciale ex art. 47-quinquies. L’interesse del minore non può essere collegato ad indici presuntivi. La Consulta ha rilevato come, alla base dell’intera giurisprudenza costituzionale relativa, da un lato, alla detenzione domiciliare ordinaria” per esigenza di cura dei minori e, dall’altro, alla detenzione domiciliare speciale, stia il principio per cui affinché l’interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata in concreto e non già collegata ad indici presuntivi che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni sulla scia di quanto già affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 239/2014 . Il divieto non si applica neanche all’affidamento terapeutico. Dal canto suo, anche la Cassazione ha ristretto l’ambito di applicazione del divieto triennale di concessione di misure alternative in caso di revoca, statuendo che il divieto di cui all’art. 58- quater , comma 2, ord. pen. non opera nel caso in cui la revoca stessa abbia riguardato l’affidamento terapeutico Sez. I, 3 gennaio 2020, n. 75 . Ciò perché quest’ultimo è fondato sull’accertato stato di dipendenza del condannato e l’idoneità del programma riabilitativo ai fini della sua risoluzione, per cui assume rilievo la cura dello stato patologico dell’interessato. Caducazione del comma 4 dell’art. 58-quater ord. pen Quest’ultima norma penitenziaria prevede che i condannati per i delitti di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione e sequestro di persona a scopo di estorsione che abbiano cagionato la morte del sequestrato non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati nel comma 1 dell’art. 4-bis se non abbiano effettivamente espiato almeno i due terzi della pena irrogata o, nel caso dell’ergastolo, almeno ventisei anni. Dopo che la sentenza n. 149/2018 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del quarto comma dell’art. 58-quater nella parte in cui si applica va ai condannati all’ergastolo, la Corte costituzionale con la pronuncia n. 229/2019 deliberata il 9 ottobre 2019 e depositata il 9 novembre 2019 ha esteso l’incostituzionalità anche ai condannati a pena detentiva temporanea. Violata la progressione trattamentale e la flessibilità della pena rieducativa. Ad avviso della Consulta, la preclusione temporale posta dalla norma sovverte irragionevolmente la logica gradualistica della finalità rieducativa del condannato, nonché della progressività trattamentale e flessibilità della pena, in spregio al combinato disposto degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost Non solo, con la sentenza in commento, la Corte Costituzionale ha definitivamente eliminato l’irragionevole eccezione in peius che si era venuta a creare, dopo la sentenza n. 149/2018 della stessa Corte, tra i condannati a pena detentiva temporanea e gli ergastolani, in riferimento ai medesimi reati. Per effetto di tale ultima pronuncia, pertanto, la disposizione di cui all’art. 58- quater , comma 4, ord. pen. resta interamente caducata.

Anche all’ergastolano spetta la riduzione di pena e non solo il risarcimento in forma pecuniaria . Sotto il profilo dei legittimati a richiedere il rimedio risarcitorio legato alla detenzione inumana o degradante contra art. 3 CEDU, la Cassazione penale, sezione I, con sentenza 10 ottobre 2019, n. 41649, ha affermato che, pur essendo stato il detenuto condannato alla pena dell'ergastolo, in caso di revisione della decisione, questi avrebbe visto trasformarsi la condanna in pena temporanea con conseguente sussistenza dell'interesse a ottenere l'invocata riparazione in forma specifica, attraverso la riduzione del numero di giorni espiati. Per cui pure il condannato all'ergastolo anche per fatto ostativo, soprattutto dopo le pronunce della Corte EDU, Viola e Corte cost. n. 253/2019 a favore del quale sia stato riconosciuto il diritto al rimedio riparatorio di cui all'art. 35-ter ord. pen., per aver subito durante la restrizione trattamento contrario al senso di umanità ai sensi dell’art. 3 CEDU, ha sia il diritto alla riduzione di pena in forma specifica nel rapporto di 1 10 , che quello di ottenere il residuale” ristoro patrimoniale nella somma di euro 8,00 per ciascuno dei giorni trascorsi in carcerazione non conforme all'art. 3 CEDU. La scelta spetta al condannato all’ergastolo. La Suprema Corte ha precisato in caso di pena dell'ergastolo spetta al detenuto valutare se richiedere una riparazione economica o in forma specifica, considerando la natura del delitto in esecuzione se ostativo o no , la possibilità di accedere a misure premiali e la durata di pena già espiata. Non occorre verificare siano maturi i presupposti per accedere ai benefici penitenziari. Inoltre, per la Suprema Corte, non occorre verificare se siano attuali le condizioni per accedere a benefici penitenziari o alla liberazione condizionale. Ciò perché non si valuta se la domanda sia o no funzionale al riconoscimento di misure siffatte. Si tratta di accertare l'esistenza del diritto al risarcimento del danno richiesto per violazione dell'art. 3 CEDU e verificare la riconoscibilità del ristoro nella forma specifica anzidetta. L'uso che di esso il detenuto intenderà fare è aspetto che non rientra nell'ambito del sindacato dell'organo giurisdizionale Possibile in generale richiedere il rimedio risarcitorio anche per i periodi pregressi al 2014. Più in generale, per quanto concerne i periodi di detenzione degradante che possono essere oggetto dei rimedi risarcitori, la Cassazione ha ribadito anche – accogliendo il ricorso del detenuto e annullando la decisione di inammissibilità dell’istanza della magistratura di sorveglianza – che il condannato, che si trovi ininterrottamente detenuto al momento di presentazione dell’istanza e lamenti un pregiudizio pregresso derivante dalla propria condizione carceraria anteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 92 del 2014, può richiedere al Magistrato di sorveglianza il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35- ter ord. pen. Sez. I, n. 44543 del 31 ottobre 2019 . Il diritto al rimedio per il detenuto in condizioni disumane e degradanti, di matrice costituzionale e convenzionale, è da ritenere preesistente rispetto alla novella del 2014. La Suprema Corte ribadisce che il D.L. n. 92/2014 e la relativa legge di conversione n. 117/2014, non hanno riconosciuto un diritto soggettivo in precedenza inesistente posto che è l’art. 3 CEDU a riconoscere il diritto del detenuto ad ottenere che l’espiazione della pena non avvenga mediante trattamenti inumani e degradanti fonte resa esecutiva con legge di ratifica 4 agosto 1955, n. 848, che ha esteso e rafforzato la previsione contenuta nell’art. 27 della Costituzione evidenziandosi al contempo . La previsione convenzionale sul divieto di pene degradanti, come interpretata dalla Corte EDU l’art. 35- ter eleva a rango di norma positiva la giurisprudenza europea , si inscrive nel quadro dei principi costituzionali che presiedono al sistema punitivo complessivamente inteso, qualificato dal canone della legalità della pena, dal divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e dal finalismo rieducativo art. 25 Cost., comma 2, e art. 27 Cost., comma 3 in quanto è proprio la finalità rieducativa della pena che risulta essere frustrata in radice da condizioni di vita intramuraria inumane o degradanti. Dal 2014 decorre solo la prescrizione. Le Sezioni Unite penali n. 3775 del 21 dicembre 2017, dep. 2018, Tuttolomondo, hanno però specificato che la prescrizione del diritto leso dalla detenzione inumana e degradante, azionabile dal detenuto ai sensi dell’art. 35-ter, per i pregiudizi subiti anteriormente all’entrata in vigore del d.l. n. 92/2014, decorre dal 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del predetto d.l Il rimedio risarcitorio in esame non era infatti prospettabile prima della entrata in vigore della novella del 2014. E l’assenza di un previgente strumento di tutela, accessibile ed effettivo – idoneo a far cessare la detenzione in condizioni inumane e degradanti, anche mediante forme di compensazione in forma specifica – integra un impedimento all’esercizio del diritto rilevante ai sensi del generale principio di cui all’art. 2935 c.c., in base al quale la prescrizione decorre soltanto dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Prescrizione durata decennale e decorrenza. La Prima sezione di legittimità, sempre con sentenza 31 ottobre 2019, n. 44543, ricorda come le Sezioni Unite civili sentenza 11018/2018 hanno avuto modo di postulare che il diritto ad una somma di denaro pari a otto euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 della CEDU, si prescrive in dieci anni, trattandosi di un indennizzo che ha origine nella violazione di obblighi gravanti ex lege sull’amministrazione penitenziaria. Il termine di prescrizione decorre dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle su indicate condizioni, salvo che per coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima del 28 giugno 2014, rispetto ai quali, se non sono incorsi nelle decadenze previste dal D.L. n. 92 del 2014, art. 2, il termine comincia a decorrere solo da tale data.

Grave infermità psichica sopravvenuta durante la carcerazione e detenzione domiciliare in deroga”. La Corte costituzionale, con sentenza n. 99 del 2019 deliberata il 6 febbraio 2019 e depositata il 19 aprile 2019 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47- ter , comma 1-ter ord. pen. nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter. D’ora in avanti se durante la carcerazione si manifesta una grave malattia di tipo psichiatrico, il giudice potrà disporre che il detenuto venga curato fuori dal carcere e quindi potrà concedergli, anche quando la pena residua è superiore a quattro anni, la misura alternativa della detenzione domiciliare umanitaria”, o in deroga”, così come già accade per le gravi malattie di tipo fisico. Occorre va colmare un vuoto di tutela. La mancanza di qualsiasi alternativa al carcere per chi, durante la detenzione, è colpito da una grave malattia mentale anziché fisica creava anzitutto un vuoto di tutela effettiva del diritto fondamentale alla salute e si sostanziava in un trattamento inumano e degradante quando provoca una sofferenza così grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività della privazione della libertà, determinava un sovrappiù di pena contrario al senso di umanità e tale da pregiudicare ulteriormente la salute del detenuto. Il Giudice valuta la compatibilità con la permanenza in carcere. In particolare, si legge nella sentenza della Consulta, il giudice dovrà valutare se la malattia psichica sopravvenuta sia compatibile con la permanenza in carcere del detenuto oppure richieda il suo trasferimento in luoghi esterni abitazione o luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza con modalità che garantiscano la salute, ma anche la sicurezza. Questa valutazione dovrà quindi tener conto di vari elementi il quadro clinico del detenuto, la sua pericolosità, le sue condizioni sociali e familiari, le strutture e i servizi di cura offerti dal carcere, le esigenze di tutela degli altri detenuti e di tutto il personale che opera nell’istituto penitenziario, la necessità di salvaguardare la sicurezza collettiva. Il 41-bis può essere incompatibile per i detenuti con problemi psichiatrici. Proprio in applicazione della sentenza n. 99/2019 della Corte costituzionale, la Corte di Cassazione, sez. I penale, con la sentenza n. 29488/2019, ha ritenuto che non sono ostativi alla concessione della detenzione domiciliare in deroga o umanitaria l’entità del residuo pena, né il titolo del reato in esecuzione, né l’attuale sottoposizione al regime differenziato di cui all’art. 41- bis ord. pen., ritenendo necessario provvedere ad una nuova valutazione delle esigenze sottese al caso in questione, annullando con rinvio per un nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Roma. Spetta al giudice di sorveglianza modellare la misura alternativa. La Cassazione evidenza anche come in mancanza di un intervento complessivo del legislatore, è il giudice a poter modellare, proprio attraverso il ricorso alla detenzione domiciliare la misura in questione in modo da tutelare, da un lato, la salute psichica del condannato e, dall’altro, la tutela della collettività, proprio perché la collocazione del soggetto portatore della patologia psichica può non individuarsi necessariamente con il domicilio” ma con il luogo più adeguato a contemperare le diverse esigenze coinvolte, con ovvia valutazione caso per caso ed apprezzamento concreto, tanto della gravità della patologia che del livello di pericolosità sociale della persona di cui si discute . La Suprema Corte estende il concetto di stato di salute incompatibile col carcere”. La Suprema Corte, preso atto della pronuncia n. 99/2019 della Corte costituzionale ritiene che, alla luce della novità ordinamentale emersa, inquadrata nell’alveo della sedimentata elaborazione ermeneutica, lo stato di salute - ora anche psichica - incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare l’applicazione della detenzione domiciliare in deroga non è limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita, dovendosi avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento psico-fisico capace di determinare una situazione di esistenza al di sotto di una soglia di dignità da rispettarsi pure nella condizione di restrizione carceraria, dovendo contemplarsi, nella valutazione conclusiva, l’esigenza di non ledere il fondamentale diritto alla salute e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, ex artt. 32 e 27 Cost. Sez. I, 16 dicembre 2019, n. 50682 e n. 37979/2019 . Non basta valutare l’astratta idoneità dei presidi in potenza” a disposizione del detenuto. La Suprema Corte ricorda tutti i paletti che devono essere valutati 1 la valutazione relativa alla compatibilità tra regime detentivo carcerario e condizioni di salute del recluso deve essere effettuata tenendo comparativamente conto delle condizioni complessive di salute e di detenzione e implica un giudizio - non soltanto di astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici in potenza a disposizione del detenuto, a seconda del regime impostogli, ma anche - di effettivo accesso alle cure praticabili e di concreta adeguatezza delle stesse 2 ponderare anche le possibili ripercussioni del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico già in questi termini, Sez. I, n. 37062/2018 . Se il detenuto chiede di sottoporsi a visita con i medici di fiducia, il giudice non può sindacarla. La recente sentenza della Terza sezione della Cassazione penale, del 9 dicembre 2019, n. 49808, ha affermato che il giudice per le indagini preliminari non può respingere la richiesta del detenuto di farsi visitare in carcere, a proprie spese, dai suoi medici di fiducia, accogliendo il ricorso di un indagato sottoposto a carcere cautelare per gravi reati, ribadendo che il giudice non può sindacare in alcun modo la richiesta del detenuto di sottoporsi a visita medica, poiché l’art. 11 ord. pen. trova il suo fondamento nel diritto costituzionale alla salute tale conclusione vale, a fortiori, per il condannato . Diritto di farsi visitare non soggetto a limiti o condizioni. La vicenda sottostante alla pronuncia della Suprema Corte è emblematica di come il diritto di salute del detenuto stenti a far sentire la sua voce all’interno delle mura carcerarie. Infatti, con sentenza del 23 maggio 2019 la Quarta sezione di Cassazione con sentenza n. 27499, aveva annullato con rinvio l’ordinanza del 12 marzo 2019 con la quale il GIP del Tribunale di Roma aveva rigettato l’istanza di un detenuto di autorizzare i suoi medici di fiducia ad entrare nel carcere dove era ristretto per sottoporsi a visita specialistica. Ciò in quanto la norma contenuta nell’art. 11, comma 12, ord. pen. di nuovo conio perché introdotta dall’art. 1 del decr. leg. n. 121/2018 , non è soggetta a limiti e condizioni, dovendo il GIP limitarsi a valutare se l’iniziativa dell’imputato possa incidere negativamente sugli accertamenti processuali in corso. La Suprema Corte aveva ritenuto che il provvedimento impugnato aveva violato la normativa di riferimento laddove opina l’esigenza di sindacare le ragioni dell’effettiva necessità della visita medica esterna e laddove stigmatizza come pretesa” quello che costituisce un vero e proprio diritto del richiedente costituzionalmente garantito. Nuova violazione di legge. Ebbene il GIP, in sede di rinvio incorre nella stessa violazione di legge già contenuta nel provvedimento annullato con sentenza n. 24799/2019, avendo nuovamente ritenuto che l’autorizzazione per gli incontri con i sanitari esterni deve avere una motivazione o ragione, mentre la Suprema Corte ha chiaramente affermato che con l’autorizzazione il giudice non può sindacare in alcun modo l’iniziativa individuale di sottoporsi a visita e cura. Inoltre, la motivazione sulle finalità investigativa viene ritenuta dai giudici di legittimità nella sentenza n. 49808/2019 del tutto apparente in quanto non indica in alcun modo quali siano i concreti elementi in base ai quali si possa affermare che i contatti con i due medici possano far veicolare informazioni all’esterno o avere concreta incidenza negativa sugli accertamenti processuali in corso. Di conseguenza un nuovo rinvio

Per saggiare gli scenari futuri del diritto penitenziario, occorre rilevare le altre importanti questioni sono state portate dinanzi alla Corte costituzionale, a testimonianza che il percorso di adesione dell’esecuzione della pena ai principi costituzionali è in continua evoluzione e ben lunghi dall’essersi concluso. Spazzacorrotti ampliamento dei reati ostativi e mancanza di normativa transitoria. La Suprema Corte, Prima sezione penale, con ordinanza n. 31853/2019, ha sollevato questione di legittimità, con riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell’art. 1, comma 6, lett. b della legge n. 3/2019, nella parte in cui inserisce all’art. 4- bis , comma 1, ord. penit in riferimento al delitto di peculato. Quindi con riferimento ad una delle fattispecie di reato, lesive del bene giuridico della pubblica amministrazione, oggetto di implementazione del 4- bis . La stessa pronuncia della Suprema Corte, a differenza di altre sollevate dalla Magistratura di sorveglianza e dai giudici dell’esecuzione, ha escluso la fondatezza dell’incidente di costituzionalità sotto il versante del diritto intertemporale, continuando a sostenere la natura processuale e non sostanziale delle disposizioni concernenti l’esecuzione della pena, con conseguente applicazione, in ossequio al tempus regit actum, della norma processuale vigente al momento in cui si compie lo specifico atto. L’udienza pubblica dinanzi alla Consulta è fissata per il 10 febbraio 2020. 41-bis e impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità. La stessa prima sezione penale di legittimità, con due ordinanze del 23 ottobre 2019, nn. 43436/43437, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 41-bis comma 2-quater, lettera f ord. pen., con riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità. Si ricorda che la Consulta, con sentenza del 12 ottobre 2018, n. 186 ha già censurato la norma nella parte in cui impone che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità per i detenuti in regime differenziato di cuocere cibi. Quest’ultimo divieto è stato ritenuto privo di ragionevole giustificazione, incongruo e inutile alla luce degli obbiettivi cui tendono le misure restrittive autorizzate dalla disposizione in questione. Troppo breve il termine per impugnare il provvedimento in materia di permesso premio? La Prima sezione della Suprema Corte, con ordinanza depositata il 15 novembre 2019, n. 45976, ha dichiarato non è manifestamente infondata dell’art. 30-bis, comma 3, ord. pen. nella parte in cui prevede che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del Magistrato di Sorveglianza, in tema di permesso premio è pari a sole 24 ore ciò pur nella specificità e celerità che caratterizzano il beneficio penitenziario, e che portano, per esempio, ad escludere la sospensione feriale del termine per impugnare, come sancito dalla coeva decisione n. 45736 dell’11 novembre 2019, emessa sempre dalla Prima sezione . Incostituzionale l’esclusione della detenzione domiciliare ordinaria ai condannati per reati ostativi? Con ordinanza n. 9126/2019, la Cassazione penale sempre Sez. I è stata portato davanti alla Consulta il dubbio di legittimità costituzionale, dell’art. 47- ter , comma 1-bis, ord. pen. nella parte in cui prevede che tale disposizione non si applica ai condannati per reati di cui all’art. 4-bis della medesima legge. Come si legge nel provvedimento di rimessione, si coglie appieno l’irragionevolezza intrinseca della disposizione censurata in relazione al valore della responsabilità penale personale e alla necessaria finalità rieducativa della pena. Irragionevolezza intrinseca non sfuggita, peraltro, in sede di attuazione della delega contenuta nella legge n. 103/2017, nella parte relativa alle modifiche all’ordinamento penitenziario, se è vero che nello schema originario del conseguente decreto legislativo poi abbandonato era prevista la soppressione della disposizione censurata. Ancora una volta, in contumacia del legislatore, frenato da spinte verso una mal celata e confusionaria visione certezza della pena=pena immutabile, legata al far marcire in carcere il condannato, spetterà alla Consulta rimettere la pena nella sua rotta costituzionale.