Doppio binario sanzionatorio in materia tributaria

Ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte EDU e sue ricadute nell’ordinamento italiano.

Sono numerosi i procedimenti penali instaurati per fatti di omesso pagamento dell’IVA ex articolo 10-ter d.lgs. numero 74/2000 , in relazione ai quali, tuttavia, si è già concluso il procedimento di accertamento dell’illecito tributario ai sensi dell’articolo 13, comma 1, d.lgs. numero 471/1997 , all’esito del quale l’amministrazione finanziaria dello Stato, oltre a liquidare il debito erariale non versato, irroga una sanzione amministrativa pari al 30% dell’imposta evasa c.d. ‘sovrattassa’ . Oppure ai processi per il delitto previsto dall’articolo 5, comma 1, del d.lgs. numero 74/2000 per avere omesso di presentare la dichiarazione relativa all’IRPEF e all’IVA, al fine di evadere tali imposte per un importo superiore alla soglia di punibilità, laddove il medesimo fatto storico abbia già integrato anche gli estremi degli illeciti amministrativi previsti dagli articolo 1, comma 1, quanto all’IRPEF, e dall’articolo 5, comma 1, del medesimo decreto, quanto all’IVA . La sentenza Grande Stevens della Corte EDU, del 4 marzo 2014, ha aperto una breccia nel versante del doppio binario sanzionatorio, con ricadute anche sul versante dell’accertamento degli illeciti in materia tributaria amministrativo e penale , per le possibili conseguenze che la pronuncia europea e, più in generale, la giurisprudenza di Strasburgo sul ne bis in idem che in materia poteva avere. La tematica si interseca imprescindibilmente con l’altra annosa questione che riguarda le Carte fondamentali Costituzione, Convenzione EDU, Trattati UE e la Corti Costituzionale, EDU e di Giustizia UE , con particolare riferimento alla compatibilità del doppio binario in ambito tributario 1 con la CEDU e soprattutto all’applicazione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo nell’ordinamento interno 2 al diritto euro-unitario, in particolare con l’articolo 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che sancisce il principio di ne bis in idem in materia fiscale sulla quale la sentenza 5 aprile 2017, la IV Sezione della Corte di Giustizia UE, nelle cause Orsi e Baldetti, ha posto un primo punto fermo in relazione alla legittimità dell’articolazione normativa del “doppio binario” punitivo nel nostro ordinamento è legittimo sanzionare la società e punire il rappresentante legale per lo stesso fatto . L’annosa questione che sembra essere lontana dalla sua risoluzione definitiva si è arricchita da ultimo di 2 importanti capitoli il revirement in argomento della Corte EDU che, a partite dalla sentenza A e B contro Norvegia 15 novembre 2016, ha mitigato il precedente orientamento sul ne bis in idem attraverso l’introduzione del criterio della «connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta» , e la sentenza della Corte Costituzionale numero 43 depositata il 2 marzo 2018 che, alla luce del mutamento del diritto vivente europeo, ha disposto la restituzione degli atti al giudice a quo il Tribunale di Monza che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 649 c.p.p. «nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei relativi Protocolli».

Ne bis in idem nella giurisprudenza di Strasburgo. Una situazione ormai frequente nelle aule giudiziarie, è ormai da anni quella inerente al “doppio binario sanzionatorio” amministrativo e penale per condotte integranti illeciti e reato fiscale. In materia vi era un “diritto consolidato” della CEDU? La risposta era sicuramente positiva. Si pensi, come ricordato, ai numerosi procedimenti penali instaurati per fatti di omesso pagamento dell’IVA, in relazione ai quali, tuttavia, si era già concluso il procedimento di accertamento dell’illecito tributario, all’esito del quale l’amministrazione finanziaria dello Stato, oltre a liquidare il debito erariale non versato, aveva irrogato una sanzione amministrativa pari al 30% dell’imposta evasa c.d. ‘sovrattassa’ . “Natura penale” delle sanzioni amministrative. Tale ultime sanzioni amministrative tributarie inflitte in via definitiva all’imputato hanno natura penale, ai sensi dell’articolo 7 CEDU, e che l’articolo 4 del Protocollo numero 7 alla Convenzione concernente l’estensione della lista dei diritti civili e politici, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, numero 98 vieta di procedere nuovamente per il medesimo fatto e nei confronti della stessa persona. La giurisprudenza di Strasburgo, già dagli anni Settanta, ha formulato sicuri criteri in base ai quali stabilire i confini della “materia penale” c.d. Engel criteria, dalla decisione Engel e altri contro Paesi Bassi, 8 giugno 1976, che per prima li aveva indicati . Come noto, i criteri Engel al fine di rilevare se si versi in un’ipotesi di “accusa penale” sono 1 la classificazione della violazione in base alla legge nazionale 2 la natura della violazione 3 il grado di severità, afflittività o invasività della sanzione. I primi due criteri sono alternativi, e tuttavia possono essere considerati cumulativamente quando non altrimenti è possibile raggiungere una conclusione certa o affidabile quanto alla natura penale. Giurisprudenza “consolidata” di Strasburgo. In molte decisioni la Corte europea, per riconoscere l’avvenuta violazione della convenzione con riferimento al ne bis in idem, in casi in cui il ricorrente era stato sanzionato amministrativamente per avere falsamente attestato in punto di introiti ai fini dell'imposizione fiscale e successivamente era stato oggetto di procedimento penale per le stesse violazioni e condannato, ha esaminato se le due violazioni amministrativa e penale fossero le stesse, e quindi riconducibili all’idem della regola se l’una o l’altra decisione fosse passata in giudicato se si fosse verificata una duplicazione di procedimenti, quindi realizzando il bis della regola Corte EDU, 20 maggio 2014, Nykänen contro Finlandia, 27 gennaio 2015, Rinas contro Finlandia 10 febbraio 2015, Kiiveri contro Finlandia . Ribadendo che il principio in questione preclude tanto la condanna quanto il giudizio e il rinvio a giudizio, come si deduce inquivocabilmente dalla lettera dell’articolo 4 del Protocollo numero 7, dove alla parola punished si aggiunge quella tried, quanto alle preclusioni. La Grande Stevens. In tale contesto una pronuncia di violazione del ne bis in idem da parte dell’Italia, sia pure in ambito non prettamente tributario, è quella pronunciata sul caso Grande Stevens contro Italia, numero 18640 del 20 marzo 2014 ove la Corte EDU, Seconda Sezione, ha riconosciuto la violazione dell'articolo 6 CEDU e del Protocollo numero 7, articolo 4 in tema di illeciti di abusi di mercato per avere il ricorrente essere stato dapprima giudicato dalla divisione mercati e consulenza economica ufficio Insider Trading della CONSOB che contestò ai ricorrenti la violazione dell'articolo 187-ter punto 1 d.lgs. numero 58/1998, ossia la manipolazione di mercato che punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 20.000 a euro 5.000.000 «chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari» , a cui venne riconosciuta “natura penale” dalla Corte EDU e successivamente era stato denunciato alla procura per la commissione del reato di cui all'articolo 185 punto 1 dello stesso decreto ai sensi di tale disposizione «Chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 20.000 a euro 5.000.000» . La Grande Stevens applicata dalla Corte costituzionale. Nella sentenza numero 68/2017, la Consulta ha applicato il diritto vivente europeo acclarando, ad esempio, la funzione punitiva propria della confisca prevista dall'articolo 187-sexies d.lgs. numero 58/1998 T.U. delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria con conseguente applicabilità dell’articolo 25, comma 2, Cost., in punto di divieto di retroattività. La Corte Costituzionale ha ritenuto che tale garanzia costituzionale concerne non soltanto le pene qualificate come tali dall'ordinamento nazionale, ma anche quelle così qualificabili per effetto dell’articolo 7 CEDU sentenza numero 196/2010 , perché punire a qualsivoglia titolo la persona per un fatto privo di antigiuridicità quando è stato commesso significa violare il cuore dell'affidamento che l'individuo è legittimato a riporre nello Stato sentenza numero 364/1988 quanto all'esercizio della potestà pubblica in forme prive di arbitrarietà e irrazionalità. Nel caso di specie, pertanto, la confisca per equivalente, nonostante sia prevista dalla legge come conseguente a un illecito amministrativo, va considerata una pena , come tale assistita da tutte le garanzie prescritte al riguardo dall'articolo 7 della CEDU. Essa infatti, svolgendo con tratti di significativa afflittività una funzione punitiva, rispondeva positivamente ai criteri enunciati a tal fine dalla consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sentenza 9 febbraio 1995, Welch contro Gran Bretagna . A questo proposito per la Consulta non colgono nel segno le obiezioni sollevate dalla difesa della CONSOB. In primo luogo, è improprio affermare che l'estensione dello statuto costituzionale della pena alle sanzioni che l'ordinamento nazionale qualifica come amministrative ingenera una espansione del diritto penale, da reputare contraria ai principi di legalità dei reati e di sussidiarietà. Questa asserzione si basa sull'erroneo convincimento che l'attribuzione di una garanzia propria della pena implichi l'assegnazione di una certa misura sanzionatoria al campo del diritto penale, con riferimento non soltanto a tale forma di tutela ma anche a qualsiasi altro effetto. Se così fosse, vi sarebbe indubbiamente una frizione con il principio costituzionale di sussidiarietà, il quale continua invece ad assicurare «l'autonomia dell'illecito amministrativo dal diritto penale» sentenza numero 49/2015 . Al contrario, il recepimento della CEDU nell'ordinamento giuridico si muove nel segno dell'incremento delle libertà individuali, e mai del loro detrimento sentenza numero 317 del 2009 , come potrebbe invece accadere nel caso di un definitivo assorbimento dell'illecito amministrativo nell'area di ciò che è penalmente rilevante. Fermo restando l'obbligo, discendente dall’articolo 117, comma 1, Cost., di estendere alla “pena”, ai sensi dell'articolo 7 CEDU, tutte le tutele previste dalla Convenzione, e quelle soltanto sentenza numero 43/2017 , l'illecito continua a rivestire per ogni altro aspetto carattere amministrativo sentenza numero 49/2015 . Le aperture della giurisprudenza di merito. Alcune pronunce seguendo i passaggi della Grande Stevens e applicandoli alla materia tributaria – la precedente inflizione della sanzione amministrativa per il medesimo fatto, e ritenuto che tale sanzione avesse “natura sostanzialmente penale” alla luce dell’articolo 4 Prot. 7 alla CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU – hanno pronunciato sentenza di non doversi procedere ex articolo 529 e 649 c.p.p. per sussistenza di bis in idem Trib. Asti, 10 aprile-7 maggio 2015, numero 717, Giudice Corato . La chiusura della Cassazione. Ma la Suprema Corte era di diverso avviso. Pur ricordando che le norme della Convenzione costituiscono vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali imposti dall’articolo 117 Cost., cui la norma nazionale è tenuta a conformarsi con la conseguenza che una norma contraria alla CEDU, sarà anche contraria alla Costituzione , seguendo la Corte costituzionale numero 49/2015, ritengono che in presenza un contrasto tra norma interna e norma della Convenzione, il Giudice nazionale deve in prima battuta adottare un approccio ermeneutico in modo da interpretare la prima in senso conforme alla seconda. Ove, tuttavia, il conflitto tra norme risulti netto e la strada dell’interpretazione non percorribile, il Giudice non potrà disapplicare la norma interna, la quale è pur sempre cogente, ma dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale per sospetta violazione dell’articolo 117. In breve, tertium non datur o si risolve il contrasto in via interpretativa, o lo si affida alla Consulta. Orbene, Cass. penumero sez. III, numero 25815/2016, ha ritenuto che non vi siano interpretazioni convenzionalmente orientate dell’articolo 649 c.p.p. e che dunque il Giudice non possa in alcun caso farne un’applicazione conforme all’articolo 4 Prot. 7 alla CEDU. Ciò in quanto il principio di ne bis in idem, il quale mira ad evitare la duplicazione dei giudizi e dei provvedimenti per lo stesso fatto, trova vigore solo in materia penale, essendo disciplinato dalle norme sui conflitti positivi di competenza articolo 28 e seguenti c.p.p. , sul divieto di un secondo giudizio articolo 649 c.p.p. e sulle ipotesi di pluralità di sentenze per il medesimo fatto articolo 669 c.p.p. . Tutte queste norme presuppongono la riferibilità dei più procedimenti per il medesimo fatto all’autorità giudiziaria penale. L’assunto della Suprema Corte troverebbe conforto nella mera lettura del testo dell’articolo 649 c.p.p. che garantisce il diritto solo a «l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale», con ciò precludendone l’estensione ai casi in cui il primo giudizio avesse natura extra-penale, come nel caso di specie. I Giudici di merito avrebbero operato un’interpretazione convenzionalmente conforme della norma nazionale, ma ciò ha fatto forzando il dato letterale della stessa, oltreché la portata sistematica del principio. Evidente, a questo punto, la violazione di legge. Diversamente, ritiene la Corte, il Giudice avrebbe dovuto prendere atto di non poter praticare la via ermeneutica, ed in ossequio alle citate “sentenze gemelle” avrebbe dovuto sollevare questione di legittimità costituzionale.

Violazione del principio fondamentale del ne bis in idem? Prima di intraprendere la strada dell’incidente di costituzionalità, un’altra via percorsa prima dai giudici di merito è stata quella di rimettere la questione alla Corte di Giustizia UE, con la procedura del rinvio pregiudiziale ex articolo 267 TFUE, chiedendo di verificare se la norma nazionale l’articolo 649 c.p.p. sia compatibile con la norma della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che sancisce il principio di ne bis in idem articolo 50, CDFUE . L’unica condizione per poter attivare tale procedimento è che la materia che ne forma oggetto rientri nell’ambito del diritto dell’Unione condizione che, in tema di illeciti IVA, deve ritenersi pienamente soddisfatta. La Corte di Lussemburgo, con sentenza della IV Sezione del 5 aprile 2017, nei ricorsi Orsi e Baldetti, non si è pronunciata sul cuore della questione, affrontando solo una questione marginale. In particolare è stato ritenuto legittimo sanzionare amministrativamente la società e punire penalmente il rappresentante legale per lo stesso fatto. La pronuncia della Corte costituisce la risposta ai ricorsi sollevati in via pregiudiziale nell’ambito, al solito di procedimenti penali instaurati per fatti di omesso pagamento dell’IVA in relazione ai quali, tuttavia, si era già concluso il procedimento di accertamento dell’illecito tributario. Proprio in ragione di tale circostanza, il Tribunale decideva di chiamare in causa la Corte di Giustizia competente in quanto la materia dell’IVA rientra nell’ambito di applicazione del diritto UE , affinché si pronunciasse sulla eventuale violazione del principio fondamentale del ne bis in idem, muovendo ovviamente dal presupposto che la sanzione tributaria della ‘sovrattassa’ fosse qualificabile come “materia penale” ai sensi degli Engel criteria del diritto europeo in particolare, la questione pregiudiziale sottoposta ai giudici di Lussemburgo era formulata nel senso di chiarire «se ai sensi degli articoli 4 del protocollo numero 7 alla CEDU e 50 della Carta, sia conforme al diritto dell’Unione la disposizione di cui all’articolo 10 ter del decreto legislativo numero 74/2000 nella parte in cui consente di procedere alla valutazione della responsabilità penale di un soggetto il quale, per lo stesso fatto omissione del versamento dell’IVA , sia già stato destinatario di un accertamento definitivo da parte dell’Amministrazione finanziaria dello Stato, con irrogazione di una sanzione amministrativa». Nel dare risposta negativa al suddetto quesito, che - considerato nella sua formulazione in termini generali - appariva particolarmente complesso, la Corte di Giustizia ha trovato tuttavia ‘gioco facile’, potendo fare leva, in relazione al caso di specie, sulla carenza del fondamentale presupposto per l’applicazione del divieto di bis in idem costituito dalla necessità che debba essere la “stessa persona” ad essere sottoposta ad una “doppia sanzione” per uno “stesso fatto”. Tale requisito trova una chiara conferma nelle Spiegazioni relative alla Carta dei Diritti Fondamentali, che a loro volta riposano su un assunto consolidato nella giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia, da ultimo ribadito anche nella sentenza Fransson del 2013, che costituisce il leading case della giurisprudenza comunitaria in tema di ne bis in idem ed illeciti tributari. Sanzioni indirizzate a persone, fisiche o giuridiche, giuridicamente distinte. A tale riguardo, la Corte rileva allora come nelle vicende oggetto del giudizio a quo il procedimento penale risultasse instaurato contro la persona fisica autrice del reato in quanto rappresentante legale della persona giuridica, ma era contro quest’ultima che era già stata irrogata la sanzione amministrativa a seguito del definitivo accertamento della violazione tributaria per omesso versamento dell’IVA. Tale rilievo è sufficiente per escludere in radice la configurabilità di una violazione del principio di ne bis in idem, anche leggendo il contenuto dell’articolo 50 della Carta dei diritti – conformemente al disposto dell’articolo 52, comma 3, della Carta stessa – alla luce della corrispondente garanzia di cui all’articolo 4 del Protocollo 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo in particolare, la Corte richiama la sentenza della Corte europea del 20 maggio 2014, Pirttimaki c. Finlandia, che aveva espressamente escluso la violazione del principio di ne bis idem nel caso di sanzioni indirizzate a persone, fisiche o giuridiche, giuridicamente distinte. Proprio richiamando la pronuncia della Corte di Giustizia, la Corte di Cassazione ha escluso violazione del principio del ne bis in idem convenzionale nel caso in cui con la sentenza di condanna per reati tributari commessi dall’imputato in qualità di amministratore di una società sia disposta nei confronti dello stesso la confisca di somme di denaro per un valore equivalente al profitto diretto, derivante dagli stessi reati, conseguito dall’ente Sez. II, numero 35156/2017 . Difettava proprio il presupposto della necessità, per la applicazione del divieto di ne bis in idem, che debba essere la “stessa persona” ad essere sottoposta ad una doppia sanzione per uno stesso fatto, in quanto la confisca è stata disposta nei confronti della persona giuridica e, nel caso di esito infruttuoso, totale o parziale, della sua esecuzione sul patrimonio dell’ente, nella forma della confisca di valore sui beni dell’imputato. Tuttavia, la questione centrale della compatibilità del sistema del doppio binario in materia fiscale in ambito euro-unitario laddove le sanzioni amministrative e penali afferiscono allo stesso soggetto non più dirsi chiusa e la Corte UE va sollecitata a pronunciarsi su tale specifico e fondamentale aspetto.

Con ordinanza del 30 giugno 2016, il Tribunale di Monza, indicando la strada tracciata dalla Consulta nella sentenza numero 49/2015, chiama il giudice delle leggi a pronunciarsi sulla compatibilità a Costituzione del doppio binario in materia tributaria. Il Giudice remittente era stato chiamato a pronunciarsi sulla penale responsabilità di un soggetto, imputato del reato previsto dall’articolo 5, comma 1, d.lgs. numero 74/2000, per avere omesso di presentare la dichiarazione dell’anno 2008 relativa all’imposta sul reddito delle persone fisiche IRPEF e all’imposta sul valore aggiunto IVA , al fine di evadere tali imposte per un importo superiore alla soglia di punibilità. Il medesimo fatto storico integra anche gli estremi degli illeciti amministrativi previsti dagli articolo 1, comma 1, quanto all’IRPEF, e dall’articolo 5, comma 1, del medesimo decreto, quanto all’IVA. A tale titolo l’imputato è già stato destinatario di una sanzione amministrativa pari al 120 per cento di entrambe le imposte evase. La sanzione, conseguente a un avviso di accertamento del 20 febbraio 2003, è stata irrogata in via definitiva. Il Giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 649 c.p.p, per possibile contrasto con l’articolo 117 Cost, in relazione all’articolo 4 del Protocollo numero 7 CEDU, «nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei relativi Protocolli». Procedimenti amministrativo e penale distinti. La normativa vigente postula che per lo stesso fatto debbano svolgersi due procedimenti distinti, l’uno penale e l’altro tributario, e non esclude che uno di essi possa essere avviato o proseguito anche dopo che l’altro si è definitivamente concluso. Difatti, anche quando opera la specialità, l’amministrazione è comunque tenuta a irrogare le sanzioni amministrative, che si prestano così a divenire definitive. Esse restano però ineseguibili, fino a quando il procedimento penale non è stato definito con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto articolo 21, comma 2, del d.lgs. numero 74 del 2000 . In altri termini la sanzione tributaria viene disposta e acquisisce natura definitiva, ma, in virtù del principio di specialità, può essere messa in esecuzione solo se per il medesimo fatto non è stata inflitta una pena. A questo fine è necessario avviare il procedimento penale, quand’anche, come è accaduto nel giudizio a quo, esso sia posteriore alla definizione del procedimento e del contenzioso tributario. La normativa vigente presuppone perciò una fisiologica duplicazione dell’attività sanzionatoria, che dà vita ad un fenomeno di bis in idem processuale è consentito procedere nuovamente per il medesimo fatto già oggetto di un procedimento di altra natura anche se quest’ultimo è già stato definito. La risposta della Corte Costituzionale possibile il bis in idem se le sanzioni sono di diverso genere Per i Giudice delle leggi l’eventualità che il processo penale origini dopo che l’esito del procedimento sanzionatorio amministrativo, vertente sul medesimo fatto, è divenuto definitivo, o viceversa, non comporta alcuna violazione del divieto di bis in idem processuale ricavabile dalla Costituzione nella materia propriamente penale sentenza numero 200/2016 , ma riflette piuttosto l’ampia sfera di reciproca autonomia tra sanzioni amministrative e pene in senso proprio che è tipica dell’ordinamento giuridico nazionale sentenze numero 109 e 43 del 2017 e 49/2015 . Posto che, nei limiti del controllo costituzionale di proporzionalità che vieta risposte sanzionatorie nel complesso palesemente sproporzionate , il legislatore è libero di cumulare sanzioni di genere diverso per il medesimo fatto, la circostanza che esse siano inflitte da autorità differenti e dunque all’esito di procedimenti privi di reciproco coordinamento, non incontra in linea di principio obiezioni di ordine costituzionale, se non per il profilo sollevato dal rimettente nell’odierno giudizio. ma sanzioni aventi entrambe “natura penale”. Attraverso un’accurata ricostruzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, con specifico riferimento alle «sovrattasse tributarie», il rimettente conclude – e su tale punto concorda anche la Corte costituzionale – che la sanzione amministrativa tributaria inflitta in via definitiva all’imputato ha natura penale, ai sensi dell’articolo 7 della CEDU, e che l’articolo 4 del Protocollo numero 7 alla Convenzione vieta di procedere nuovamente per il medesimo fatto e nei confronti della stessa persona. Giurisprudenza consolidata della Corte EDU. Poiché si tratta, come già visto supra, di un diritto consolidato in seno alla Corte di Strasburgo che ha in più di un’occasione – tra cui nella Grande Stevens – rilevato la violazione del ne bis in idem in tali ipotesi. Pertanto, tale diritto consolidato, anche nella riduttiva prospettiva della sentenza numero 49/2015 giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo e, poiché non è possibile un’interpretazione convenzionalmente orientata dell’articolo 649 c.p.p., questo si pone in contrasto con al CEDU attraverso l’interposizione dell’articolo 117 Cost. . Sotto tale profilo, i giudici delle leggi ricordano che il dubbio di legittimità costituzionale è stato correttamente formulato, assumendo a presupposto, in forza della giurisprudenza europea allora in essere, che il ne bis in idem convenzionale opera, nel rapporto tra accertamento tributario e accertamento penale, ogni qual volta sia stato definito uno dei relativi procedimenti. La questione doveva perciò ritenersi rilevante, dato che, in seguito alla definitiva irrogazione di una sanzione convenzionalmente penale, il giudice a quo non avrebbe potuto procedere nel giudizio penale sul medesimo fatto senza affrontare il nodo del divieto imposto dall’articolo 4 del Protocollo numero 7 alla CEDU.

La Terza Sezione della Cassazione e il Tribunale di Teramo sottoponevano alla Consulta due questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 44, comma 2, d.P.R. numero 380/2001 Testo unico in materia edilizia , in riferimento agli articolo 2, 3, 32, 41, 42 e 117, comma 1, Costituzione, nella parte in cui, in forza dell'interpretazione della Corte EDU nella sentenza Varvara Sez. II, 29/10/2013, numero 17475, che ha ravvisato una violazione dell’articolo 7 CEDU e dell'articolo 1 del Protocollo numero 1 nel caso in cui la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e degli immobili realizzati sugli stessi sia stata ordinata dal giudice penale con la sentenza di proscioglimento per estinzione del reato dovuta a prescrizione , tale disposizione «non può applicarsi nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi». La Corte costituzionale ha ritenuto le questioni sono inammissibili perché i rimettenti erroneamente hanno ritenuto di essere obbligati a recepire il principio di diritto che avevano ricavato dalla pronuncia Varvara. In tal modo essi hanno attribuito all’articolo 7 CEDU un significato non immediatamente desumibile da tale disposizione, benché la pronuncia appena citata non fosse, con ogni evidenza, espressione di un’interpretazione consolidata nell'ambito della giurisprudenza europea. Il Giudice nazionale deve applicare la CEDU anche in assenza di casistica specifica. Per i Giudici delle leggi è da respingere l’idea che l'interprete non possa applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo. Al contrario, «l’applicazione e l'interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai Giudici degli Stati membri». Il dovere di questi ultimi di evitare violazioni della CEDU li obbliga ad applicarne le norme, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti della giurisprudenza del giudice europeo sentenze numero 276 e numero 36 del 2016 . Ad esempio, la Corte Costituzionale ha ritenuto non risolutiva la circostanza che la Corte di Strasburgo, con la sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia, abbia applicato l’articolo 7 della CEDU alle sanzioni amministrative pecuniarie e interdittive previste in materia di abuso di informazioni privilegiate, senza occuparsi della confisca per equivalente, che non era oggetto di quel contenzioso. L’interprete nazionale è infatti tenuto a sviluppare i principi enunciati sulla base dell’articolo 7 CEDU per decidere se valgano anche con riferimento alla confisca di valore, e, come si è visto, la risposta al quesito deve essere affermativa sentenza numero 68/2017 . Alla Corte di Strasburgo l’ultima parola interpretativa delle norme CEDU. La Consulta ricorda che le disposizioni della CEDU e dei suoi protocolli addizionali vivono nel significato loro attribuito dalla giurisprudenza della Corte EDU sentenze gemelle 348 e 349 del 2007 , e che alla Corte di Strasburgo compete di pronunciare la «parola ultima» sentenza numero 349 del 2007 in ordine a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, secondo quanto le parti contraenti hanno stabilito in forza dell'articolo 32 della CEDU. Si tratta di una «funzione interpretativa eminente» sentenza numero 348 del 2007 , con la quale si assicura che, all'esito di un confronto ermeneutico, tale da coinvolgere nel modo più ampio possibile la comunità degli interpreti, sia ricavata dalla disposizione convenzionale una norma idonea a garantire la certezza del diritto e l'uniformità presso gli Stati aderenti di un livello minimo di tutela dei diritti dell'uomo. Il Giudice nazionale ha autonomia interpretativa delle norme CEDU. Tuttavia, per la Consulta sarebbe errato ritenere che la CEDU abbia reso gli operatori giuridici nazionali, e in primo luogo i giudici comuni, passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale, quali che siano le condizioni che lo hanno determinato. In tale attività interpretativa, che gli compete istituzionalmente ai sensi dell’articolo 101, comma 2, Cost., il Giudice comune incontra il solo limite costituito dalla presenza di una normativa nazionale di contenuto contrario alla CEDU. In tale caso, la disposizione interna va impugnata innanzi a questa Corte per violazione dell’articolo 117, comma1, Cost., ove non sia in alcun modo interpretabile in senso convenzionalmente orientato sentenze numero 239/2009, numero 49/2015 e 68/2017 . Il Giudice nazionale è vincolato all’interpretazione della Corte EDU solo se “diritto consolidato”. È, pertanto, solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo. Del resto, tale asserzione non solo si accorda con i principi costituzionali, aprendo la via al confronto costruttivo tra giudici nazionali e Corte EDU sul senso da attribuire ai diritti dell'uomo, ma si rivela confacente rispetto alle modalità organizzative del giudice di Strasburgo. Esso infatti si articola per sezioni, ammette l'opinione dissenziente, ingloba un meccanismo idoneo a risolvere un contrasto interno di giurisprudenza, attraverso la rimessione alla Grande Camera. Solo nel caso in cui si trovi in presenza di un diritto consolidato o di una sentenza pilota , il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua disposizione», ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all'incidente di legittimità costituzionale sentenza numero 80 del 2011 . Quest'ultimo assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale norma interposta il risultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza europea, dalla quale questa Corte ha infatti ripetutamente affermato di non poter «prescindere» ex plurimis, sentenza numero 303/2011 , salva l'eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione sentenza numero 264 del 2012 , di stretta competenza della Consulta. Mentre, nel caso in cui sia il giudice comune ad interrogarsi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione, va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un diritto consolidato , è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della CEDU, così prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione della questione di legittimità costituzionale.

Com’è noto, il 15 novembre 2016 la Corte EDU, con la sentenza Grande Camera, A e B contro Norvegia, ha operato un revirement, sia pure parziale, rispetto al proprio precedente orientamento in tema di bis in idem mitigando il precedente orientamento attraverso l’introduzione del criterio della «connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta». Segnatamente, il doppio binario è accettabile qualora sia dimostrata la “connessione sostanziale” tra i due procedimenti, dovendo essi perseguire scopi complementari, mostrarsi prevedibili ex ante all’autore della condotta, evitare, per quanto possibile, ogni duplicazione nel raccoglimento e nella valutazione delle prove, ed infine dovendo l’una sanzione, nell’atto di essere determinata ed eseguita, tenere conto dell’altra. Per un pieno rispetto della Convenzione è anche necessaria la “connessione temporale” fra i due giudizi. Ciò non significa che debbano strettamente essere simultanei, bastando una semplice vicinanza cronologica. Il descritto orientamento europeo, peraltro ribadito dalla successiva pronuncia della Prima Sezione del 18 maggio 2017, Jóhannesson e altri contro Islanda è stato subito recepito nella giurisprudenza nazionale, in particolare dalla recente sentenza della Cassazione penale, Sezione Terza, numero 6993 del 14 febbraio 2018, che ha escluso la violazione dell’articolo 4 del Protocollo numero 7 sussistendo una stretta connessione temporale in quanto il procedimento per i reati tributari e gli avvisi di accertamento differivano di pochi mesi. Alla luce della modifica dell’orientamento giurisprudenziale consolidato della Corte EDU, il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto «sufficiently closely connected in substance and in time» , attribuendo a questo requisito tratti del tutto nuovi rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza. Come ricorda la Corte Costituzionale, nella sentenza del 2 marzo 2018, numero 43 Presidente e Redattore Lattanzi , il carattere innovativo che la regola della sentenza A e B contro Norvegia ha impresso in ambito convenzionale al divieto di bis in idem, rispetto al quadro esistente al tempo dell’ordinanza di rimessione. In sintesi può dirsi che si è passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un’unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all’entità della pena in senso convenzionale complessivamente irrogata. Questa svolta giurisprudenziale – da considerarsi come “nuovo diritto consolidato” tenuto conto della portata della decisione della Grande Camera, ossia una delle ipotesi che la stessa Corte costituzionale nella sentenza numero 49/2015 aveva considerato come tale è potenzialmente produttiva di effetti con riguardo al rapporto tra procedimento tributario e procedimento penale. In precedenza, come si è visto, l’autonomia dell’uno rispetto all’altro escludeva in radice che essi potessero sottrarsi al divieto di bis in idem. Oggi, pur dovendosi prendere in considerazione il loro grado di coordinamento probatorio, al fine di ravvisare il legame materiale, vi è la possibilità che in concreto gli stessi siano ritenuti sufficientemente connessi, in modo da far escludere l’applicazione del divieto di bis in idem, come testimonia la stessa sentenza A e B contro Norvegia, che proprio a tali procedimenti si riferisce. Naturalmente la decisione non può che passare da un giudizio casistico, affidato all’autorità che procede. Infatti, sebbene possa affermarsi in termini astratti che la configurazione normativa dei procedimenti è in grado per alcuni aspetti di integrare una “close connection”, vi sono altri aspetti che restano necessariamente consegnati alla peculiare dinamica con cui le vicende procedimentali si sono atteggiate nel caso concreto. Il mutamento del significato della normativa interposta, sopravvenuto all’ordinanza di rimessione per effetto di una pronuncia della grande camera della Corte di Strasburgo che esprime il diritto vivente europeo, comporta la restituzione degli atti al giudice a quo, ai fini di una nuova valutazione sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale ordinanza numero 150/2012 . Se, infatti, il giudice a quo ritenesse che il giudizio penale è legato temporalmente e materialmente al procedimento tributario al punto da non costituire un bis in idem convenzionale, non vi sarebbe necessità ai fini del giudizio principale di introdurre nell’ordinamento, incidendo sull’articolo 649 c.p.p., alcuna regola che imponga di non procedere nuovamente per il medesimo fatto. La Corte Costituzionale sottolinea che la nuova regola della sentenza A e B contro Norvegia rende meno probabile l’applicazione del divieto convenzionale di bis in idem alle ipotesi di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per il medesimo fatto, ma non è affatto da escludere che tale applicazione si imponga di nuovo, sia nell’ambito degli illeciti tributari, sia in altri settori dell’ordinamento, ogni qual volta sia venuto a mancare l’adeguato legame temporale e materiale, a causa di un ostacolo normativo o del modo in cui si sono svolte le vicende procedimentali.

Il parziale mutamento di rotta giurisprudenziale della Corte EDU ha ritardato il percorso di recepimento del ne bis in idem convenzionale altrimenti la sentenza numero 43/2018 avrebbe verosimilmente accolto la questione e dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 649 c.p.p. . Tuttavia, alcuni punti risultano fermi e immutati 1 le sanzioni amministrative tributarie hanno natura sostanzialmente penale 2 costituisce nuovo diritto consolidato della CEDU quello per cui il ne bis in idem presuppone che non vi sia «connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta» 3 la normativa italiana del ne bis in idem anche in materia tributaria si pone in contrasto con la CEDU se i procedimenti tributario e penale non sono avvinti da «sufficiently closely connected in substance and in time». Quali sono i rimedi per dare esecuzione alla CEDU laddove questa si ponga in contrasto con la normativa interna del ne bis in idem ed arrivare in questi ultimi casi ove manca tra i due procedimenti la connessione sostanziale e temporale che si possa arrivare ad infliggere una sanzione penale e dichiarare non doversi procedere per il reato tributario vista la sussistenza di bis in idem? Sollecitare un intervento del legislatore. In tale senso, la recente sentenza costituzionale numero 43/2018 ha perciò ricordato che resta perciò attuale l’invito al legislatore a stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che il sistema del c.d. doppio binario genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU come aveva già fatto nella sentenza numero 102/2016 . Questione di legittimità costituzionale. La seconda via è quella da parte dello stesso Tribunale di Monza, se sussistono i presupposti di rilevanza anche alla luce del nuovo orientamento consolidato della CEDU o da altri giudici a quo di sottoporre nuovamente la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 649 c.p.p, per possibile contrasto con l’articolo 117 Cost, in relazione all’articolo 4 del Protocollo numero 7 CEDU nei seguenti termini aggiungendo – a «nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei relativi Protocolli» - laddove i due procedimenti amministrativo e penale non sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto «not sufficiently closely connected in substance and in time» . Rimettere la questione alla Corte di Giustizia UE. La terza possibilità è quella di rimettere nuovamente la questione alla Corte di Giustizia UE, con la procedura del rinvio pregiudiziale ex articolo 267 TFUE, chiedendo di verificare se l’articolo 649 c.p.p. sia compatibile con l’articolo 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, in un caso però ove vi sia identità tra il soggetto che ha subito la sanzione amministrativa e non la persona giuridica e successivamente, per lo stesso fatto, sottoposto a procedimento penale.