Rapporto tra depenalizzazione e particolare tenuità del fatto: paradossi e punti critici di riflessione

L’intervento di depenalizzazione. Il d.lgs. n. 8 del 15 gennaio 2016, come tutti sappiamo, ha trasformato alcuni reati in illeciti amministrativi sulla base di due diversi criteri di selezione il primo, previsto dall’art. 1, legato al tipo di trattamento sanzionatorio, depenalizzando tutti i reati per cui è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda c.d. depenalizzazione cieca” ed il secondo, previsto dagli artt. 2 e 3, basato sull’indicazione specifica delle fattispecie di reato oggetto di depenalizzazione c.d. depenalizzazione nominativa . Le sanzioni amministrative previste, che vanno quindi a sostituirsi alle sanzioni penali, variano, a seconda dell’illecito amministrativo, da un minimo di € 5.000,00 ad un massimo di € 50.000,00. Tale intervento legislativo sollecita una breve riflessione in merito ai rapporti che potrebbero profilarsi con l’istituto della particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131- bis c.p., introdotto nell’ordinamento anch’esso su input della stessa legge delega n. 67 del 2014 che ha portato all’emissione del decreto sulle depenalizzazioni. Infatti, per alcune fattispecie oggi depenalizzate, ma soggette a sanzioni amministrative anche molto gravose ed afflittive, avrebbe potuto trovare applicazione la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, con conseguente assenza di pregiudizio, anche economico, per il soggetto passivo. In riferimento a tale evenienza, è stata prospettata addirittura l’applicazione del principio del favor rei di cui all’art. 2, comma IV, c.p. per consentire al soggetto autore di un determinato fatto di scegliere” la disposizione più favorevole, potendo lo stesso preferire che la propria condotta mantenga connotazione penale ma venga ritenuta di particolare tenuità e quindi non sia punita, piuttosto che vedersi comminare una elevata sanzione amministrativa. Come vedremo nel proseguo, detta prospettazione è stata però categoricamente esclusa dalla Suprema Corte che, sulla base di considerazioni in merito al rapporto ontologico tra illecito penale ed amministrativo, ha affermato che, comunque, il soggetto agente deve sempre preferire l’applicazione della sanzione amministrativa alla causa di proscioglimento.

I due istituti sopra citati hanno una diversa natura giuridica con la depenalizzazione, tutti i reati dalla stessa previsti, a prescindere dalle modalità attraverso cui si consumano, vengono meno perdendo la loro connotazione penale e trasformandosi in illeciti amministrativi la tenuità del fatto , invece, è una causa di non punibilità di un fatto che pur mantenendo astrattamente la propria natura di illecito penale, venendo giudicato in concreto di scarsa offensività, non viene punito. Con la depenalizzazione è il legislatore che stabilisce a priori, secondo proprie valutazioni, le condotte che non costituiscono più reato perché ritenute ormai prive di offensività meritevole di sanzione penale, invece, con l’istituto della particolare tenuità del fatto, il legislatore demanda al giudice di merito il potere di decidere se il fatto sottoposto al suo esame non meriti di essere punito per aver arrecato un’offesa troppo lieve, il tutto all’esito di una valutazione complessa avente ad oggetto le modalità della condotta, la lievità ed esiguità del danno o del pericolo cagionato da valutarsi ai sensi del 1° comma dell’art. 133 c.p. e la occasionalità e quindi non abitualità del fatto. Entrambi gli istituti sono però connotati dalla stessa ratio , ovvero muovono dall’esigenza di scremare l’area penale dai reati cd. bagatellari, colpendo, il primo la depenalizzazione , i reati cd. bagatellari propri, ritenuti ormai privi di offensività il secondo la tenuità del fatto quelli bagatellari impropri che, mostrando in concreto una esigua lesività, fanno venir meno qualsiasi interesse al loro perseguimento penalmente.

Il punto di possibile criticità attiene alla coesistenza sistemica tra il fatto ritenuto non più di interesse penale, ma pur sempre sanzionato a livello amministrativo, e quello, in via astratta più grave, e quindi ritenuto ancora bisognoso di tutela penale, ma in concreto non punito, se ritenuto inoffensivo. Tale criticità appare in tutta la sua evidenza anche e soprattutto in virtù del fatto che le sanzioni amministrative, che vanno a sostituire le sanzioni penali, sono molto elevate prevedendo importi che vanno da € 5.000,00 ad € 50.000,00. I punti critici di riflessione sono due 1 Fattispecie depenalizzate che potrebbero essere potenzialmente ricomprese nell’area di applicazione della tenuità del fatto ed ora punite con sanzione amministrativa, potenzialmente assai più gravosa ed afflittiva. L'effetto che in concreto può presentarsi è che il soggetto autore di un determinato fatto rientrante tra quelli oggetto della depenalizzazione in commento, se prima di tale intervento poteva beneficiare della causa di non punibilità prevista dall’art. 131- bis c.p., a seguito dell’entrata in vigore del decreto n. 8/2014 è destinatario di una sanzione amministrativa di carattere afflittivo. Si pensi al riguardo al reato di guida senza patente art. 116, comma 15, del d.lgs. n. 285/1992 che al primo comma prevede Chiunque conduce veicoli senza aver conseguito la corrispondente patente di guida è punito con l'ammenda da 2.257 euro a 9.032 euro”, ma che a seguito del provvedimento di depenalizzazione diventa illecito amministrativo punito con sanzione pecuniaria da € 5.000,00 a € 30.000,00. Potrebbe, quindi, prospettarsi il caso di un soggetto la cui condotta criminosa particolarmente lieve in riferimento alle modalità esecutive, all’esiguità del danno o del pericolo cagionato ed alla non abitualità della stessa , prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 8/2016, avrebbe potuto portare il giudice di merito ad applicare allo stesso la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto senza alcuna conseguenza economica per il reo , ma che adesso, invece, a seguito della depenalizzazione di tale condotta, si troverà, invece, a dover pagare una sanzione amministrativa da € 5.000,00 ad € 30.000,00, comminatagli dall’autorità amministrativa competente. Altro esempio significativo sempre sull’argomento riguarda il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali da parte del datore di lavoro operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti art. 2 d.l. n. 463/1983 . Anche tale fattispecie criminosa, essendo stata depenalizzata fino ad una determinata soglia se l’omesso versamento non eccede il limite di €. 10.000,00 annue , è ora divenuta un illecito amministrativo sanzionato con pena pecuniaria da € 10.000,00 ad € 50.000,00. Se, pertanto, prima della depenalizzazione al soggetto agente, nel caso di omesso versamento di somme minime, avrebbe potuto essere riconosciuta la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, adesso, invece, si troverà a dover necessariamente pagare una sanzione amministrativa da € 10.000,00 ad € 50.000,00. In entrambi i casi sopra esaminati è evidente come il soggetto autore del fatto, a seguito della depenalizzazione della condotta, non sporcherà” più la propria fedina penale ma la sanzione che gli verrà comminata in sede amministrativa la percepirà come maggiormente afflittiva rispetto a quella penale. 2 Fattispecie che prima rappresentavano la forma aggravata del reato e che adesso diventano fattispecie autonome rimanendo quindi sempre nell’ambito della sfera del penalmente rilevante ai sensi e per gli effetti del comma 2 dell’art. 1 del d.lgs. n. 8/2016 e che, in concreto, laddove valutate di particolare tenuità, potrebbero portare alla non punibilità del reato a fronte delle meno gravi ipotesi base della medesima fattispecie, oggi depenalizzate, che non sottraggono l’autore da una sanzione amministrativa. Il pensiero và, anche in questo caso, al reato di guida senza patente art. 116, comma 15, del d.lgs. n. 285/1992 che, come abbiamo visto in precedenza, è stato depenalizzato, in virtù della clausola generale di cui all’art. 1 comma 1, del d.lgs. n. 8/2016, nella sua ipotesi base perché punita con la sola pena dell’ammenda, mentre integra tutt’ora reato nell’ipotesi di recidiva nel biennio”, in quanto punita con la pena dell’arresto fino ad un anno. La condotta della reiterazione della violazione nel biennio” è stata così trasformata in un’ipotesi autonoma di reato mentre in precedenza configurava come circostanza aggravante. Anche in tal caso potrebbe verificarsi l’ipotesi in cui un soggetto autore della condotta di guida senza patente, rimasta penalmente rilevante, potrebbe non essere punito per particolare tenuità del fatto ex art. 131- bis c.p. sussistendone ovviamente i presupposti , mentre altro soggetto, rientrante, invece, nell’ipotesi base oggi depenalizzata considerata quindi fatto meno grave dal legislatore rimarrà destinatario di una sanzione amministrativa particolarmente afflittiva da € 5.000,00 a 30.000,00 . E’ evidente come a fronte di tali conseguenze, il soggetto agente ben potrebbe ritenersi, di fatto, maggiormente penalizzato a veder inquadrata la propria condotta come illecito amministrativo, dovendo far fronte al pagamento di un’ingente sanzione, piuttosto che come illecito penale per poi di fatto beneficiare della causa di proscioglimento per particolare tenuità del fatto.

La soluzione agli aspetti di criticità sopra evidenziati va ricercata nella natura e nei rapporti tra sanzione penale e sanzione amministrativa, dei quali la Corte ha avuto modo di occuparsene indirettamente nella recentissima sentenza a SS.UU. la n. 13681 del 6 aprile 2016 sentenza preceduta dalla pronuncia della Suprema Corte, sez. IV, n. 44132/15 nell’ambito della connessa e controversa questione relativa all’applicabilità dell’art. 131- bis c.p. ai reati per i quali sono previste soglie di non punibilità, ovvero soglie di discrimine tra fattispecie di rilevanza penale e illecito amministrativo il caso concreto posto alla sua attenzione riguardava il reato di guida in stato di ebrezza, ma si pensi anche agli illeciti tributari . Rispetto a queste ipotesi si trattava di capire se l’applicazione dell’art. 131- bis c.p. fosse incompatibile con l’individuazione di una soglia di offesa necessaria per la punibilità, già oggetto di una precisa scelta del legislatore, che a seguito di ciò potrebbe risultare di fatto vanificata. La Corte ha stabilito come la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto debba trovare applicazione ad ogni fattispecie criminosa, ovviamente nel rispetto dei presupposti e dei limiti fissati dalla norma, dovendo escludersi a priori preclusioni circa la valutazione della gravità del fatto in riferimento a qualsiasi ipotesi di reato. In particolare, secondo la Corte, mentre le soglie di punibilità sono espressione di una valutazione che opera necessariamente su un piano astratto ove è il legislatore a determinare l’offensività penale della condotta , il giudizio di particolare tenuità ex art. 131 bis c.p. presuppone un reato perfezionato in tutti i suoi elementi, compresa l’offensività, e deve fondarsi sulla graduabilità in concreto dell’offesa, anche in relazione a fattispecie astrattamente non bagatellari, purché tale offesa sia ritenuta di consistenza talmente minima da ritenersi irrilevante” ai fini della punibilità. Sul punto viene addirittura sostenuto dal giudice di legittimità come non esiste un’offesa tenue o grave in chiave archetipica qualunque reato, anche l’omicidio, può essere tenue, come quando la condotta illecita conduce ad abbreviare la vita solo di poco . Alla luce di tali considerazioni viene poi definito il profilo dell’applicabilità dell’art. 131- bis c.p. al reato di guida in stato di ebbrezza, in cui è prevista una soglia di punibilità di livello quantitativo calcolata sul tasso alcoolemico. La Corte, sul punto, precisa come il giudice possa ben ritenere tenue la condotta del soggetto che si pone alla guida con un tasso alcoolemico di poco superiore al tasso previsto dalla legge poiché il fatto concreto può ben presentare elementi che depongono nel senso della tenuità, si pensi, ad esempio, a chi, in condizione di ubriachezza, si pone alla guida di un’auto in un luogo isolato o con un tasso alcoolemico di poco superiore ai minimi di legge, oppure a chi guidi, per pochi metri, in stato di ebbrezza, con valore superiore a 1,5 g/l, una bicicletta in una strada poco o nulla interessata dal traffico. Particolare attenzione, poi, la Cassazione dedica alla circostanza, definibile anche come paradosso, al pari dei casi in precedenza evidenziati, per la quale un soggetto, in stato di alterazione da uso di alcool, che non superi il tasso di 0.8 mlg e che quindi integri un semplice illecito amministrativo, andrebbe incontro ad una sanzione pecuniaria ed alla sospensione della patente di guida, mentre l’autore del medesimo fatto che assuma, però, rilevanza penale, perché sorpreso in stato di alterazione da uso da alcool con tasso alcoolemico di poco superiore a 0,8 mlg, pur integrando un fatto di maggiore gravità rispetto al precedente, potrebbe rimanere impunito, evitando non solo la sanzione penale, ma anche quella amministrativa accessoria della sospensione della patente, che non può essere applicata dal giudice penale, nel caso in cui sia ritenuta la particolare tenuità del fatto, presupponendo una sentenza di condanna o di applicazione della pena. Secondo il giudice di legittimità, l’illecito penale e quello amministrativo presentano differenze tanto evidenti quanto rilevanti, che delineano autonomi statuti, e nell’ambito di tale distinzione rilievo assolutamente centrale assume la sanzione penale, con la sua afflittività e severità in altre parole l'illecito amministrativo raccoglie le manifestazioni più lievi dell'offesa all'interesse o bene tutelato, mentre l’illecito penale quelle più gravi. Vi è piena autonomia dei connotati e dei principi delle violazioni amministrative rispetto a quelle penali e che, nel passaggio dall'illecito penale a quello amministrativo, non viene modificata solo la natura della sanzione ma viene disconosciuta rilevanza penale al precetto in seguito ad una diversa valutazione del disvalore sociale del fatto . Sulla base di tali presupposti, risulta agevole cogliere il senso di ciò che intende affermare la Suprema Corte non vi è nessun profilo di irragionevolezza e di contrasto tra l’ipotesi del reo sottratto ad ogni conseguenza per effetto dell'applicazione dell'art. 131- bis c.p., e l’ipotesi, invece, di colui che, pur avendo commesso un illecito amministrativo sotto la soglia di rilevanza penale , rimanga destinatario di sanzioni anche gravose, dovendosi, comunque, preferire sempre la sanzione amministrativa alla causa di proscioglimento.

Seguendo i principi sopra enunciati dalla Suprema Corte in merito al rapporto tra illecito penale ed illecito amministrativo ambiti contraddistinti da assoluta autonomia e diversità , potrebbero sorgere alcuni dubbi di compatibilità con quanto, invece, affermato in ambito Europeo. E’ ormai noto, infatti, come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo CEDU , con le sentenze Grande Stevens” del 4/03/14, Nykanen” del 20/05/14 e Kiiveri” del 10/02/15, abbia evidenziato come la scelta dell’ordinamento nazionale di sanzionare due volte, in sede penale ed in sede amministrativa, una medesima violazione, contrasti con l’art. 4, Protocollo n. 7, della Convenzione dei Diritti dell’Uomo. Secondo i giudici di Strasburgo, la particolare afflittività della sanzione comminata in sede amministrativa determina la natura sostanzialmente penalistica della stessa al di là della formale qualificazione datale dall’ordinamento interno. Seguendo tale principio, sono da considerarsi a tutti gli effetti come sanzioni penali quelle caratterizzate da una rilevante severità derivante sia dalla loro qualificazione per l’importo in concreto inflitto ed in astratto comminabile, sia in ragione delle loro ripercussioni complessive sugli interessi del condannato. Ben si comprende come così ragionando la distinzione tra sanzione penale e sanzione amministrativa non appare più così netta come invece sostenuto dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza sopra esaminata. Detto aspetto di incompatibilità” con la giurisprudenza europea era già stato affrontato e risolto dalla Corte di Cassazione con la pronuncia n. 44132/15 contenente i medesimi principi poi ribaditi dalla sentenza della Suprema Corte a SS.UU. n. 13681 del 6/04/16 con la quale era stato rilevato come la giurisprudenza della CEDU operi una distinzione unicamente di grado tra illecito penale ed illecito amministrativo al solo scopo di estendere le garanzie della Convenzione ad ogni forma di espressione di un diritto punitivo. Tuttavia, prosegue poi la Corte se è vero che istanze garantiste a favore di colui che è sottoposto a misure a contenuto afflittivo ben giustificano che si parli di diritto punitivo come di un genus comprensivo tanto del diritto penale che del c.d. diritto penale amministrativo, è parimenti vero che ogni ricostruzione che presupponga una continuità ontologica tra le violazioni dei distinti domini ed esiti nella indicazione di una loro collocazione su una medesima scala, sia pure a livelli sfalsati, non sembra cogliere la complessità, la ricchezza e l'autonomia dello statuto dell'illecito amministrativo . Nonostante quanto sopra affermato rimangono innegabilmente aspetti di discrepanza tra quanto affermato in ambito nazionale ed in ambito europeo, pertanto, non ci resta che attendere futuri interventi legislativi, più che giurisprudenziali, atti a risolvere, in maniera assai più convincente, tali profili di incompatibilità.