RASSEGNA DELLA CASSAZIONE CIVILE di Maria Rosaria San Giorgio

di Maria Rosaria San Giorgio SEZIONE SECONDA 7 FEBBRAIO 2011, N. 3030 PROCEDIMENTO CIVILE - AUSILIARI DEL GIUDICE. C.T.U. nominato in un procedimento penale - Liquidazione del compenso - Opposizione ai sensi dell'art. 170 del Dpr 115/2002 - Natura civile della controversia - Ricorso proposto nelle forme penali - Erroneità - Mutamento di giurisprudenza - Istanza di rimessione in termini - Inammissibilità del ricorso. Il ricorso per cassazione proposto nelle forme del codice di rito penale nei confronti del provvedimento che ha deciso sulla opposizione alla liquidazione del compenso per l'attività prestata da un consulente tecnico di ufficio nel corso di un procedimento penale è inammissibile per effetto del mutamento di giurisprudenza intervenuto in materia ad opera della sentenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione. Va rigettata l'istanza di rimessione in termini proposta dal ricorrente al fine di adeguarsi al nuovo orientamento, proponendo e notificando il ricorso nelle forme del codice di procedura civile, ove tale orientamento, espresso nella citata sentenza, risalga ad epoca anteriore di due mesi al deposito del ricorso, essendo stato divulgato oltre un mese prima dello stesso attraverso la pubblicazione nel servizio novità del sito web della Corte di Cassazione. Secondo la sentenza delle S.U. 434/00, seguita da numerose altre decisioni, avverso il provvedimento di liquidazione degli onorari al consulente tecnico nominato in un procedimento penale ed adottato ai sensi dell'art. 11, primo comma, della legge 319/1980 dal giudice penale che lo ha nominato, è proponibile opposizione con le forme dell'art. 29 della legge 794/1942 innanzi al tribunale o alla corte d'appello penali ai quali appartiene il giudice o presso cui esercita le sue funzioni il pubblico ministero che ha emesso il decreto attesa l'esistenza di un rapporto d'incidentalità tra questo procedimento ed il processo penale dal quale deriva e contro l'ordinanza che lo definisce è proponibile ricorso alla Corte di cassazione penale ai sensi dell'art. 111, secondo comma, Cost. nelle forme e nei termini previsti dal codice di procedura penale. Se, però, l'opposizione è stata proposta innanzi al giudice civile, quest'ultimo deve rilevare d'ufficio l'improponibilità della domanda e qualora ciò non abbia fatto, decidendo nel merito, il ricorso per cassazione va proposto innanzi alla Corte di cassazione civile, la quale, pronunciando sul ricorso, rilevata l'improponibilità della domanda, deve cassare senza rinvio ai sensi dell'art. 382, terzo comma, Cpc l'ordinanza impugnata, trattandosi di ipotesi in cui il processo non poteva essere proseguito. Siffatto orientamento è stato contraddetto da un decisione delle S.U. del 2009, la sent. 19161/09, la quale ha affermato che il procedimento di opposizione, ex art. 170 del Dpr 115/02, al decreto di liquidazione dei compensi ai custodi e agli ausiliari del giudice oltre che ai decreti di liquidazione degli onorari dovuti ai difensori nominati nell'ambito del patrocinio a spese dello Stato , introduce una controversia di natura civile, indipendentemente dalla circostanza che il decreto di liquidazione sia stato pronunciato in un giudizio penale, e deve quindi essere trattato da magistrati addetti al servizio civile, con la conseguenza che la trattazione del ricorso per cassazione avverso l'ordinanza che lo decide spetta alle sezioni civili della Corte di cassazione anche se, qualora l'ordinanza che decide l'opposizione sia stata adottata da un giudice addetto al servizio penale, si configura una violazione delle regole di composizione dei collegi e di assegnazione degli affari che non determina né una questione di competenza né una nullità, ma può giustificare esclusivamente conseguenze di natura amministrativa o disciplinare . Nel caso che ha dato luogo alla sentenza in rassegna, proposto il ricorso nelle forme del codice di rito civile, il ricorrente, avendo nelle more avuto notizia di tale revirement giurisprudenziale, aveva chiesto di essere rimesso in termini per poter nuovamente proporre e notificare il ricorso secondo le forme del codice di procedura civile, basandosi sulla ordinanza della Seconda Sezione civile della Corte 14627/10, secondo la quale, alla luce del principio costituzionale del giusto processo, la parte che abbia proposto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, incorre in errore scusabile ed ha diritto ad essere rimessa in termini ai sensi dell'art. 184 bis c.p.c., ratione temporis applicabile, anche in assenza di un'istanza di parte, se, esclusivamente a causa del predetto mutamento, si sia determinato un vizio d'inammissibilità od improcedibilità dell'impugnazione dovuto alla diversità delle forme e dei termini da osservare sulla base dell'orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso. Tuttavia, nel caso in esame la stessa sezione ha rigettato la istanza, ritenendo di ostacolo alla applicazione della rimessione in termini la circostanza che il ricorso per cassazione fosse stato proposto due mesi dopo la sentenza del 2009 che ha dato luogo al citato revirement, e che, pertanto, al momento della proposizione del ricorso, il ricorrente non poteva più fare affidamento sul pregresso consolidato orientamento, basato sulla natura secondaria e collaterale del procedimento di opposizione rispetto a quello principale nel quale è emesso il provvedimento di liquidazione, che imponeva di promuovere il ricorso per cassazione nelle forme e secondo i termini del rito penale se l'opposizione era stata decisa da un giudice penale. La Corte - e questo è un punto di particolare interesse - non ha ritenuto, in contrario, rilevante la circostanza che al momento della presentazione del ricorso per cassazione la ricordata sentenza delle Sezioni Unite non fisse stata ancora pubblicata nelle riviste giuridiche più diffuse tra gli operatori del diritto, avendo rilevato che il testo integrale della decisione era già disponibile nel Servizio Novità del sito web della Corte di cassazione, accompagnato da un abstract di presentazione curato dall'Ufficio del Massimario della Corte di cassazione che segnalava agli utenti il mutamento di indirizzo giurisprudenziale. SEZIONE PRIMA 4 FEBBRAIO 2011, N. 2749 OPERE PUBBLICHE APPALTO DI - CONTROVERSIE - DEFINIZIONE CONTENZIOSA E TRANSAZIONE - CLAUSOLE COMPROMISSORIE. Appalti di enti pubblici diversi dallo Stato - Applicabilità del capitolato generale dello Stato - Condizioni - Rinvio ex lege - Necessità - Opera finanziata dallo Stato - Irrilevanza - Conseguenze - Rinvio del contratto alle norme del capitolato generale - Efficacia negoziale - Arbitrato - Fondamento - Clausola compromissoria - Successive modificazioni legislative - Irrilevanza. In tema di appalto di opere pubbliche, ciò che rileva, ai fini dell'applicabilità del capitolato generale d'appalto di cui al Dpr 1063/1962 ad enti pubblici diversi dallo Stato, dotati di distinta personalità giuridica e di propria autonomia, è l'esistenza di una specifica disposizione di legge che sottoponga i contratti stipulati da detti enti alla disciplina del predetto capitolato, non assumendo alcun rilievo la circostanza che i fondi impiegati per la realizzazione dell'opera provengano in tutto o in parte dallo Stato. In mancanza di una siffatta disposizione, ove le parti abbiano richiamato il capitolato per disciplinare il rapporto contrattuale, come avviene nel caso in cui abbiano testualmente pattuito che esso costituisca parte integrante del contratto, le norme del capitolato, ivi comprese quelle che prevedono il deferimento delle controversie nascenti dal contratto ad un collegio arbitrale, assumono la stessa natura e portata negoziale dell'atto che le richiama, perdendo qualsiasi collegamento con la fonte normativa di provenienza, e conservando efficacia indipendentemente dalle successive modifiche della stessa. In tal caso, avendo l'arbitrato la sua fonte non già nella legge, ma in una convenzione compromissoria intercorsa tra le parti, che trova fondamento nella loro concorde volontà, non assume alcun rilievo la questione relativa alla facoltatività dell'arbitrato, prevista dall'art. 47 del Dpr 1063 cit. e ripristinata a seguito della sentenza della Corte costituzionale 152/1996, con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 16 della legge 741/1981. V., in senso conforme, Cass. 23670/06. La sentenza della Corte costituzionale 152/96, citata nella massima, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 16 della l. 741/1981, che ha sostituito l'art. 47 del Dpr 1063/1962, impugnato, in riferimento agli artt. 24 e 102 della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che la competenza arbitrale non può essere derogata con atto unilaterale di ciascuno dei contraenti, bensì solo con una clausola inserita nel bando o nell'invito di gara, ovvero nel contratto in caso di trattativa privata, in quanto tale norma, rendendo di fatto obbligatoria la competenza arbitrale nelle controversie nascenti dai contratti di appalto di opere pubbliche, viola il principio costituzionale secondo cui solo a fronte della concorde e specifica volontà delle parti sono consentite deroghe alla regola della statualità della giurisdizione. A ciò consegue - come sottolineato da Cass. 563/01 e 11216/05 - la necessità di operare una distinzione tra gli appalti dello Stato ovvero degli enti pubblici tenuti per legge all'osservanza dei capitolati generali per le opere statali e gli altri appalti pubblici, perché, nel primo caso, la pronuncia della Corte costituzionale produce, del tutto legittimamente, i suoi effetti ex tunc anche nei casi in cui la clausola compromissoria trovi la sua fonte nella volontà negoziale delle parti che abbiano recepito la normativa caducata attraverso il rinvio materiale alle norme del Capitolato Generale delle opere pubbliche con il solo limite delle situazioni esaurite mentre, nella seconda ipotesi, il richiamo operato dalle parti alle norme del capitolato assume la stessa natura e portata negoziale dell'atto giuridico che le richiama, perdendo, pertanto, qualsiasi collegamento con la fonte normativa di provenienza, e conservando, così, efficacia, indipendentemente dalle successive modifiche della norma da cui sono tratte, proprio per l'effetto vincolante che, liberamente, i contraenti hanno attribuito al loro contenuto. SEZIONE TERZA 3 FEBBRAIO 2011, N. 2552 LOCAZIONE - OBBLIGAZIONI DEL CONDUTTORE - DANNI PER RITARDATA RESTITUZIONE. Maggior danno di cui all'art. 1591 cc - Prova - Soggetto onerato - Locatore - Criteri - Prova della concreta lesione al patrimonio dello stesso - Necessità. La prova del maggior danno, di cui alla seconda parte dell'art. 1591 cc, non sorge automaticamente, sulla base del valore locativo presumibilmente ricavabile dall'astratta configurabilità di ipotesi di locazione o vendita del bene, ma richiede, invece, la specifica dimostrazione di un'effettiva lesione del patrimonio del locatore, consistente nel non aver potuto dare in locazione il bene per un canone più elevato, nel non averlo potuto utilizzare direttamente e tempestivamente, nella perdita di occasioni di vendita ad un prezzo conveniente o in altre analoghe situazioni pregiudizievoli. Detta prova incombe sul locatore, tenuto a dar conto dell'esistenza di ben determinate proposte di locazione o di acquisto e di concreti propositi di utilizzazione. V., in senso conforme, Cass. 7499/07. In tema di responsabilità del conduttore per il ritardato rilascio di immobile locato, il maggior danno di cui all'art. 1591 cc va provato in concreto dal locatore secondo le regole ordinarie così la sent. 482/2000 della Corte cost. , rientrando quindi fra i mezzi di prova consentiti anche la prova per presunzioni, sempre che queste presentino i requisiti previsti dall'art. 2729, primo comma, cc, e consentano di ritenere dimostrato il fatto ignoto, con l'ulteriore specificazione che le presunzioni sono da considerare gravi, precise e concordanti sia quando il fatto da provare segue a quelli noti in modo necessario, secondo logica, sia quando ne derivi nella normalità dei casi, cioè secondo quanto in genere suole accadere Cass. 14624/04 . SEZIONE PRIMA 1 FEBBRAIO 2011, N. 2371 CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI - PROCESSO EQUO - TERMINE RAGIONEVOLE - IN GENERE. Equa riparazione per superamento termine ragionevole - Giudizi in materia tributaria - Applicabilità - Limite. Per individuare l'area di applicazione della disciplina del diritto all'equa riparazione per mancato rispetto del termine ragionevole del processo, previsto dall'art. 2 della legge 89/2001, occorre tener conto delle indicazioni emergenti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, alle quali il giudice interno deve conformarsi, attesa la coincidenza dell'area di operatività dell'equa riparazione ai sensi della citata legge 89/2001 con l'area delle garanzie assicurate dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. In particolare, poiché la Corte considera meritevoli di tale speciale tutela i diritti e i doveri di carattere civile di ogni persona, e non le obbligazioni di natura pubblicistica, laddove non sia estensibile il campo di applicazione dell'art. 6 della Convenzione alle controversie tra il cittadino e il Fisco aventi ad oggetto provvedimenti impositivi stante l'estraneità ed irriducibilità di tali vertenze al quadro di riferimento delle liti in materia civile , ciò nondimeno non può affermarsi in assoluto che tutte le controversie portate all'attenzione del giudice tributario rimangano estranee alla possibile applicazione della tutela di cui alla legge 89/2001, in quanto potrebbero rientrarvi le richieste di rimborso di somme, rifluenti nell'area delle obbligazioni privatistiche, o anche le pretese tributarie dell'amministrazione qualora siano connesse a sanzioni, che in questo caso sono suscettibili di rientrare nella seconda parte del par. 1 dell'art. 6 citato. Il principio era stato già affermato da Cass. 13657/07, che aveva specificato che la esclusione dal campo di applicazione dell'art. 6 della Convenzione delle liti tra il cittadino ed il Fisco non riguarda le pretese tributarie dell'Amministrazione che risultino connesse a sanzioni assimilabili, per la loro natura e gravità, ad una sanzione penale e che siano, quindi, suscettibili di rientrare nella seconda parte del paragrafo 1 dell'art. 6 della Convenzione europea. Sul punto v. anche Cass. 20675/05, 21403/05. SEZIONE SECONDA 27 GENNAIO 2011, N. 1888 SANZIONI AMMINISTRATIVE - APPLICAZIONE - OPPOSIZIONE - IN GENERE. Mancata comparizione dell'opponente - Convalida del provvedimento sanzionatorio impugnato - Presupposti di legittimità - Obbligo di motivazione - Sussistenza - Modalità - Fondamento - Sindacato della Corte di cassazione - Limiti. Nel giudizio di opposizione avverso i provvedimenti irrogativi di sanzioni amministrative, disciplinato dagli artt. 22 e 23 della legge 689/1981, l'ordinanza di cui al quinto comma del citato art. 23, con la quale il giudice convalida il provvedimento impugnato per mancata comparizione alla prima udienza dell'opponente che non abbia fatto pervenire tempestiva notizia di un suo legittimo impedimento, è sufficientemente motivata ove il giudice dia espressamente atto di aver valutato la documentazione hinc ed inde prodotta, ritenendola inidonea a incidere sulla valenza della pretesa sanzionatoria, senza necessità di una specifica disamina di ciascuna delle censure rivolte al provvedimento impugnato, dovendosi escludere - alla stregua della ratio sottesa alla norma, intesa, in coerenza con i principi del giusto processo, alla sollecita definizione dei procedimenti ai quali la parte attrice abbia omesso di dare impulso - che l'onere motivazionale relativo alla sussistenza o meno dei presupposti giustificanti la sanzione irrogata debba conformarsi ai contenuti tipici di una decisione raggiunta all'esito di un giudizio sviluppatosi secondo le forme ordinarie. Ne consegue che, ove il provvedimento di convalida risponda a tali requisiti, resta esclusa la possibilità, in sede di legittimità, di sindacarne la fondatezza ovvero la persuasività sotto il profilo della completezza e dell'esattezza, risolvendosi solo la motivazione apparente o comunque avulsa dalle risultanze documentali in un vizio rilevabile in sede di legittimità. La pronuncia in rassegna si ispira al dictum delle Sezioni Unite, che, con la sentenza 10506/10, hanno composto il contrasto giurisprudenziale insorto tra Cass. 6415/07 e Cass. 5715/05. Quest'ultima aveva sostenuto il principio, disatteso dalle Sezioni Unite, secondo il quale nell'opposizione ad ingiunzione di pagamento di sanzione pecuniaria amministrativa disciplinata dagli artt. 22 e 23 della legge 689/1981, in base ai dettami della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato la illegittimità dell'art. 23, comma quinto, della predetta legge, nella parte in cui prevede che il giudice convalidi il provvedimento opposto in caso di assenza ingiustificata dell'opponente o del suo procuratore alla prima udienza anche quando l'illegittimità del provvedimento risulti dalla documentazione allegata dall'opponente sent. 534/1990 nonché quando l'amministrazione irrogante abbia omesso il deposito dei documenti di cui al secondo comma dello stesso art. 23 sent. 507/1993 , l'emanazione dell'ordinanza di convalida è subordinata alla duplice condizione della mancata comparizione dell'opponente o del suo procuratore e della non fondatezza dell'opposizione, da valutarsi peraltro in relazione ai motivi del ricorso dai quali è delimitato l'oggetto del giudizio di opposizione con la conseguenza dell'obbligo del giudice di motivare in ordine ad entrambi gli indicati presupposti, restando in particolare escluso che, con riferimento al giudizio di non fondatezza dell'opposizione, valga a soddisfare siffatto obbligo un generico richiamo alla non evidente illegittimità del provvedimento opposto.