RASSEGNA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SEZ. II MEHMET RESIT ARSLAN E ORHAN BINGOL comma TURCHIA 18 GIUGNO 2019, RIcomma 47121/06+2. DIRITTO ALL’ISTRUZIONE DEI DETENUTI – LIMITI - LICEITÀ. Non riconoscere il diritto allo studio ai detenuti viola la Cedu. Il primo ricorrente era uno studente all’ultimo anno di medicina quando fu condannato chiese invano il permesso di accedere ad internet ed ad usare un pc per poter proseguire i suoi studi, malgrado si fosse dichiarato disponibile a sostenere le spese di queste consultazioni. Fu autorizzato, poi, a comprare un pc che avesse solo le funzioni di calcolo e di traduzione dall’inglese al turco, ma gli fu sequestrato quando fu trasferito in un altro penitenziario. L’altro fece la stessa richiesta essendo stato ammesso ad un programma di insegnamento a distanza, ma invano. Violato l’articolo 2 protocollo 1 diritto all’istruzione Cedu le raccomandazioni del Comitato dei Ministri del COE e le Regole carcerarie europee v. Velyo Velev c. Bulgaria del 2014 riconoscono che l’istruzione in carcere costituisca un interesse supremo dell’interessato, stabilendone gli standard base, essendo nella discrezionalità degli Stati la sua regolamentazione e la previsione di eventuali limiti, nel rispetto del principio di proporzionalità onde evitare abusi da parte della PA. La legge turca riconosce il diritto allo studio in carcere, ma ha troppe lacune che impediscono un equo bilanciamento degli interessi. Nel nostro caso il divieto e le misure adottate erano spropositati, sì che sono stati lesi i diritti dei ricorrenti. Sul tema Jankovskis c. Lituania del 17/1/17 e Hirst c. Regno Unito n o 2 [GC] del 2005. La CEDU ha ravvisato un’analoga carenza dell’ordinamento giuridico turco anche nell’odierno caso Leyla Can c. Turchia circa l’impossibilità, nelle adozioni monoparentali, di chiedere la rettifica dei documenti identificativi del minore, sostituendo il nome dei genitori biologici con quello del genitore adottivo. SEZ. V VESSILINOV comma BULGARIA 2 MAGGIO 2019, RIC.3157/16 PERMESSI EDILIZI - CONTESTAZIONI DI TERZI - DIFFAMAZIONE. Calunnia e diffamazione non fanno rima con libertà di espressione. Il nipote realizzò alcune opere in una proprietà familiare di cui il ricorrente era co-proprietario. Scrisse una lettera alla P.A. che aveva rilasciato i permessi contestando la veridicità dell’atto notarile prodotto per ottenerli le accuse erano false e fu condannato in sede civile per diffamazione, avendo leso la reputazione del nipote che aveva diritto a realizzarle. La CEDU non ha ravvisato nella giusta condanna del ricorrente alcuna violazione dell’articolo 10 Cedu l’esposto, pur non avendo toni aggressivi od offensivi, denota una chiara volontà di danneggiare il nipote per futili motivi, tanto più che la denuncia di dette presunte irregolarità nei permessi non è avvenuta dopo una lite col nipote, ma mesi dopo che questi aveva iniziato i lavori. Le accuse, poi, non riguardavano anche presunti abusi e/o comportamenti scorretti del pubblico ufficiale che aveva redatto l’atto o che lo aveva accettato per rilasciare i dovuti permessi edilizi. La denuncia, infine, era stata anche presentata ad autorità incompetenti in materia. È irrilevante che l’azione penale per diffamazione fosse prescritta e che il risarcimento riconosciuto in sede civile non sia mai stato pagato dal ricorrente né richiesto dalla persona offesa. L’interferenza nella libertà d’espressione era lecita e non arbitraria poiché perseguiva uno scopo legittimo ed era necessaria in una società democratica i giudici hanno tutelato la reputazione del nipote. Sul tema le linee guida sulla tutela della libertà d’espressione sono state dettate dalla GC nel caso Morice c. Francia nella rassegna del 24/4/15 e Marinova ed altri c. Bulgaria del 12/7/16.