RASSEGNA DELLA SEZIONE LAVORO DELLA CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO 3 DICEMBRE 2018 N. 31155 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO NOZIONE, DIFFERENZE DALL'APPALTO E DAL RAPPORTO DI LAVORO AUTONOMO, DISTINZIONI - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO INDIVIDUALE - PER GIUSTA CAUSA. Giudizio di sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica - Sindacabilità in cassazione - Condizioni - Fattispecie. In tema di licenziamento, la sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa secondo standards conformi ai valori dell'ordinamento, che trovino conferma nella realtà sociale, è sindacabile in sede di legittimità con riguardo alla pertinenza e non coerenza del giudizio operato, quali specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico affidato alla Cassazione. Nella specie, è stata ritenuta carente e non in linea con i predetti principi la valutazione espressa dalla Corte territoriale in ordine alla assenza di gravità e serietà di una minaccia di morte, profferita dal lavoratore nei confronti di un superiore gerarchico a freddo , al di fuori di una conversazione animata, peraltro in una situazione di conflittualità già riscontrata dalle autorità penali . In tema di licenziamento per giusta causa, per Cassazione 27238/2018, il risultato della valutazione cui è pervenuto il giudice di merito in ordine alla riconducibilità, in concreto, della condotta contestata nel paradigma di cui all'art. 2119 c.c., è sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale costituito dalle previsioni del codice disciplinare. Secondo Cassazione 7305/2018, l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. norma cd. elastica , compiuta dal giudice di merito - ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento - non può essere censurata in sede di legittimità allorquando detta applicazione rappresenti la risultante logica e motivata della specificità dei fatti accertati e valutati nel loro globale contesto, mentre rimane praticabile il sindacato di legittimità ex art. 360, n. 3, c.p.c. nei casi in cui gli standards valutativi, sulla cui base è stata definita la controversia, finiscano per collidere con i principi costituzionali, con quelli generali dell'ordinamento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o si pongano in contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come diritto vivente. Più in generale si veda Cassazione 6498/2012 per la quale la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare quale evento che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto , la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici. SEZIONE LAVORO 30 NOVEMBRE 2018 N. 31086 IMPIEGO PUBBLICO - IMPIEGATI DELLO STATO - DISCIPLINA - IN GENERE. Facoltà del dipendente di non eseguire un ordine - Palese illegittimità dell’ordine - Portata oggettiva - Necessità - Obiezione ragionevole del dipendente - Presupposti. In tema di pubblico impiego, la facoltà del dipendente di non eseguire un ordine, previa rimostranza a chi lo ha impartito, prevista dall'art. 17 del d.P.R. n. 3 del 1957 e dalla contrattazione collettiva di vari comparti, presuppone che la palese illegittimità sia oggettiva, derivando, anche se non dal compimento di un atto vietato dalla legge penale o costituente illecito amministrativo, comunque da altri vizi, quali violazioni dei generali principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., che alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost., devono essere rispettati dalla PA nell'emanazione degli atti che rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro ne consegue che, pur non sussistendo un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse quelle derivanti da atti di organizzazione, impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, il limite al dovere di obbedienza, derivante dall'illegittimità dell'ordine ricevuto, deve fondarsi su di un'obiezione ragionevole, basata su una illegittimità reale e oggettiva, che può essere esternata e percepita anche soltanto dal destinatario dell'ordine medesimo, ma esclusivamente nel suo ruolo di sentinella e di collaboratore volto ad assicurare la legalità dell'Amministrazione, che gli deriva dall'art. 54, comma 2, Cost., e non per finalità, ragioni e percezioni meramente personali. Secondo Cassazione 13149/2016 costituisce giusta causa di licenziamento di un impiegato delle Poste, la falsa autenticazione delle sottoscrizioni di clienti e l'erogazione di bonifici relativi a prestiti a soggetti diversi dagli aventi diritto, in acritica obbedienza agli ordini truffaldini del responsabile gerarchico, dovendosi escludere che tale condotta, incoerente con gli standards conformi ai valori dell'ordinamento desumibili dalla coscienza sociale, possa essere giustificata dalla situazione ambientale - pur caratterizzata da un ufficio di dimensioni assai ridotte e da un responsabile di ben più elevato rango professionale - perché l'art. 2104 c.c., nel prescrivere l'impiego di una diligenza adeguata alla natura della prestazione dovuta, impone al lavoratore di avere capacità di discernimento nel valutare gli ordini ricevuti. In argomento, secondo Cassazione 23600/2018 l'esecuzione di un ordine illegittimo impartito dal superiore gerarchico non basta di per sé ad impedire la configurabilità di una giusta causa di recesso, non trovando applicazione nel rapporto di lavoro privato l'art. 51 c.p. in assenza di un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge.