RASSEGNA DELLA SEZIONE LAVORO DELLA CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO 14 OTTOBRE 2015 N. 20726 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – DISCIPLINARE. Direttore agenzia delle entrate - Attestazioni infedeli preordinate alla indebita percezione di buoni pasto - Giusta causa di recesso - Sussistenza - Fondamento. In tema di licenziamento disciplinare, costituisce giusta causa di recesso la condotta del direttore della sede di un'Agenzia delle entrate che abbia attestato falsamente la propria presenza in ufficio ed utilizzato tali dichiarazioni per la percezione ingiustificata di buoni pasto, trattandosi di comportamento connotato da gravità in considerazione dalla sua posizione di preposto al vertice dell'ufficio, demandato ad assicurare il rispetto degli orari di lavoro ed il corretto adempimento delle obbligazioni contrattuali assunte dalle parti. In tema di licenziamento per giusta causa, secondo Cassazione 22798/2012 nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, e quindi costituisca giusta causa di licenziamento, va tenuto presente che è diversa l'intensità della fiducia richiesta, a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono, e che il fatto concreto va valutato nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento. Per Cassazione 13574/2011 nella valutazione della gravità dell'inadempimento ascritto al lavoratore, e della conseguente proporzionalità tra inadempimento e irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento, correttamente il giudice di merito ritiene adeguata tale misura nel caso in cui il lavoratore abbia fatto uso di documenti falsificati per ottenere rimborsi non dovutigli, trattandosi di condotta di per sé grave e che mina il rapporto fiduciario tra le parti del contratto di lavoro. SEZIONE LAVORO 14 OTTOBRE 2015 N. 20722 PROCEDIMENTI SPECIALI - PROCEDIMENTI IN MATERIA DI LAVORO E DI PREVIDENZA - IMPUGNAZIONI - APPELLO - RICORSO IN APPELLO - FORMA E CONTENUTO. Domanda in primo grado di liquidazione del danno nella misura minima di cinque mensilità - Domanda in appello di condanna del datore di lavoro al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dal licenziamento dichiarato illegittimo - Novità - Inammissibilità. Costituisce domanda nuova in appello, come tale inammissibile ai sensi dell'art. 437 c.p.c., la richiesta del lavoratore di condanna del datore di lavoro al pagamento di tutte le retribuzioni maturate successivamente alla data del licenziamento dichiarato illegittimo dal primo giudice, ove egli si sia limitato in primo grado a chiedere la liquidazione del danno nella misura di cinque mensilità. Tra i precedenti conformi si veda Cassazione 6253/1995. Nel rito del lavoro, per Cassazione 4854/2014, il divieto di nova in appello, ex art. 437 cod. proc. civ., non riguarda soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto, ma è esteso alle contestazioni nuove, cioè non esplicitate in primo grado, sia perché l'art. 416 cod. proc. civ. impone un onere di tempestiva contestazione a pena di decadenza, sia perché nuove contestazioni in secondo grado, oltre a modificare i temi di indagine trasformando il giudizio di appello da revisio prioris instantiae in iudicium novum , estraneo al vigente ordinamento processuale , altererebbero la parità delle parti, esponendo l'altra parte all'impossibilità di chiedere l'assunzione di quelle prove alle quali, in ipotesi, aveva rinunciato, confidando proprio nella mancata contestazione ad opera dell'avversario. Secondo Cassazione 24366/2010 nel processo del lavoro, qualora il lavoratore - in correlazione con la sospensione cautelare subita, di cui deduca l'illegittimità - abbia richiesto, in primo grado, il pagamento delle retribuzioni a titolo di risarcimento da illegittima applicazione della detta sospensione, costituisce domanda nuova per modificazione della causa petendi , come tale inammissibile in appello, quella, avanzata per la prima volta in secondo grado, di pagamento delle retribuzioni a titolo di adempimento contrattuale, essendo il diritto alle stesse previsto da un articolo del CCNL di categoria. SEZIONE LAVORO 14 OTTOBRE 2015 N. 20704 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - PER MUTUO CONSENSO - DIMISSIONI. Scadenza del termine apposto illegittimamente - Risoluzione del rapporto per mutuo consenso - Condizioni - Manifestazione consensuale di volontà, anche tacita - Necessità - Atteggiamento remissivo del lavoratore - Insufficienza. Nel giudizio instaurato per la dichiarazione di nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro a tempo determinato, affinché possa configurarsi la risoluzione del rapporto per mutuo consenso, che costituisce pur sempre una manifestazione di volontà negoziale, anche se tacita, è necessaria una chiara e certa volontà consensuale di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, mentre non è sufficiente un atteggiamento meramente remissivo del lavoratore, che non può essere inteso come acquiescenza se finalizzato a favorire una nuova chiamata o addirittura una possibile stabilizzazione. Tra i precedenti conformi si veda Cassazione 13535/2015 per la quale nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. Analogo principio è affermato da Cassazione 1780/2015 per la quale affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, essendo il solo decorso del tempo o la semplice inerzia del lavoratore, successiva alla scadenza del termine, insufficienti a ritenere sussistente la risoluzione per mutuo consenso, costituente pur sempre una manifestazione negoziale, che, seppur tacita, non può essere configurata su un piano esclusivamente oggettivo, in conseguenza della mera cessazione della funzionalità di fatto del rapporto di lavoro. In senso difforme per Cassazione 2906/2015 ai fini della risoluzione del rapporto per mutuo dissenso rileva la mancata offerta della prestazione lavorativa per un periodo la cui valutazione è rimessa al giudice di merito, trattandosi di comportamento socialmente valutabile in modo tipico e oggettivo avente valore di dichiarazione negoziale risolutiva.