RASSEGNA DELLA SEZIONE LAVORO DELLA CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO 12 GIUGNO 2014, N. 13335 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - DEL RAPPORTO A TEMPO DETERMINATO - IN GENERE. Dirigenti - Clausola di stabilità” - Interpretazione - Rinunzia del datore alla facoltà di recesso - Limiti - Risoluzione per giusta causa - Possibilità - Fondamento. La clausola di stabilità” che assicura una durata minima garantita del rapporto di lavoro dirigenziale ha lo scopo, da un lato, di soddisfare l’interesse del datore di lavoro ad assicurarsi la collaborazione del dirigente e, dall’altro, di garantire a quest’ultimo la continuità della prestazione lavorativa, attraverso la preventiva rinuncia della parte datoriale alla facoltà di recesso, sicché il limite a tale rinunzia può identificarsi solo nella sussistenza di una giusta causa di recesso, che comporti il venir meno del vincolo fiduciario. Per Cassazione 19903/2005 la clausola di stabilità minima garantita relativa ad un rapporto di lavoro a tempo indeterminato non è un atto di mera liberalità ma rientra nella generale categoria delle clausole contrattuali, volte a soddisfare ben individuabili interessi di natura anche indirettamente patrimoniale come lo specifico interesse di una società di assicurarsi la collaborazione di un dirigente, considerato di particolare capacità ed esperienza, e di garantirsene la continuità delle prestazioni per un tempo prestabilito. La stessa, inoltre, non alterando la sostanziale natura di contratto a tempo indeterminato, si traduce soltanto in una preventiva rinunzia del datore di lavoro alla facoltà di recesso e, quindi, in una garanzia per il lavoratore della conservazione del posto per una durata minima, vale anche rispetto ai contratti dei dirigenti apicali, per i quali la prevista stabilità è suscettibile di soddisfare un più spiccato interesse dell’imprenditore alla continuità delle prestazioni. Pertanto, nell’ipotesi di recesso anticipato del datore di lavoro nella specie esercitato ad nutum” sulla base della previsione del contratto collettivo il dipendente ha diritto al risarcimento del danno pari all’ammontare delle retribuzioni che avrebbe percepito se la risoluzione non fosse intervenuta, senza disconoscimento del diritto al preavviso che, per le ragioni a tale istituto sottese, non può assumere portata compensativa delle retribuzioni perdute per effetto del recesso stesso. Quanto alla interpretazione della clausola stessa si veda Cassazione 6520/1995 la quale richiama l’uso dei criteri legali di cui agli artt. 1362 e segg. cc e qualora il contenuto del patto risulti ancora oscuro deve definirlo in modo che esso realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti, secondo quanto previsto dall’art. 1371 cc, ma non può affermare che la stabilità del rapporto è equivalente a quella assicurata da norme di legge che regolano rapporti diversi, facendo ricorso al criterio non di interpretazione ma di integrazione del contratto stabilito dall’art. 1374 dello stesso codice. SEZIONE LAVORO 9 GIUGNO 2014, N. 12890 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO INDIVIDUALE - IMPUGNAZIONE – DECADENZA. Richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione indirizzata all’ufficio provinciale del lavoro - Idoneità a sospendere il decorso del termine di decadenza - Sufficienza. Alla luce di una lettura costituzionalmente orientata Corte cost. 276/2000 e 477/2002 delle norme applicabili in materia di decadenza dal potere di impugnare il licenziamento, non è necessario che l’atto di impugnazione del licenziamento giunga a conoscenza del destinatario - ovvero, in particolare, che esso pervenga all’indirizzo del datore di lavoro - nel termine di sessanta giorni previsto dall’art. 6 della legge 604/1966, per evitare la decadenza dalla facoltà di impugnare, in quanto, ai sensi dell’art. 410, secondo comma, Cpc così come modificato dall’art. 36 del D.Lgs. 80/1998 e nella formulazione ratione temporis” applicabile , il predetto termine processuale con riflessi di natura sostanziale si sospende a partire dal deposito dell’istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l’impugnativa scritta del licenziamento, presso la commissione di conciliazione, divenendo irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione. Tra i precedenti in senso conforme si veda già Cassazione 14087/2006 e Sezioni Unite 8830/2010 per le quali l’impugnazione del licenziamento ai sensi dell’art. 6 della legge 604/1966, formulata mediante dichiarazione spedita al datore di lavoro con missiva raccomandata a mezzo del servizio postale, deve intendersi tempestivamente effettuata allorché la spedizione avvenga entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento o dei relativi motivi, anche se la dichiarazione medesima sia ricevuta dal datore di lavoro oltre detto termine, atteso che - in base ai principi generali in tema di decadenza, enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e affermati, con riferimento alla notificazione degli atti processuali, dalla Corte costituzionale - l’effetto di impedimento della decadenza si collega, di regola, al compimento, da parte del soggetto onerato, dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione demandato ad un servizio - idoneo a garantire un adeguato affidamento - sottratto alla sua ingerenza, non rilevando, in contrario, che, alla stregua del predetto art. 6, al lavoratore sia rimessa la scelta fra più forme di comunicazione, la quale, valendo a bilanciare la previsione di un termine breve di decadenza in relazione al diritto del prestatore a conservare il posto di lavoro e a mantenere un’esistenza libera e dignitosa artt. 4 e 36 Cost. , concorre a mantenere un equo e ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti.