RASSEGNA DELLA SEZIONE LAVORO DELLA CASSAZIONE

Sezione lavoro 8 agosto 2011 n. 17095 Lavoro - lavoro subordinato - categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro - mansioni - diverse da quelle dell'assunzione. Ius variandi - Limitazioni ex art. 13 Statuto lavoratori - Finalità - Mutamento di mansioni o trasferimento a richiesta del lavoratore - Legittimità - Condizioni. In tema di mansioni del lavoratore, le limitazioni dello ius variandi introdotte dall'art. 2103 cod. civ., nel testo di cui all'art. 13 della legge n. 300 del 1970, sono dirette ad incidere su quei provvedimenti unilaterali del datore di lavoro o su quelle clausole contrattuali che prevedono il mutamento di mansioni o il trasferimento non sorretti da ragioni tecniche, organizzative e produttive e mirano ad impedire che il cambiamento di mansioni od il trasferimento siano disposti contro la volontà del lavoratore ed in suo danno dette limitazioni, pertanto, non operano nel caso in cui - secondo un accertamento di fatto riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato - il mutamento di mansioni od il trasferimento siano stati disposti a richiesta dello stesso lavoratore, ossia in base ad un'esclusiva scelta dello stesso, pervenuto a tale unilaterale decisione senza alcuna sollecitazione, neppure indiretta, del datore di lavoro, che l'abbia invece subita. Tra i precedenti conformi si veda Cassazione 3827/2000 secondo cui in tema di mansioni del lavoratore, le limitazioni dello ius variandi introdotte dall'art. 2103 cod. civ., nel testo di cui all'art. 13 della legge n. 300 del 1970, e disciplinate dalla contrattazione collettiva non vengono in considerazione nell'ipotesi in cui il trasferimento del lavoratore non consegua ad un atto unilaterale posto in essere dal datore di lavoro nel suo esclusivo interesse, ma costituisca piuttosto una misura precipuamente adottata nell'interesse del lavoratore di evitare la perdita del posto, nell'impossibilità - non altrimenti ovviabile - di una prosecuzione dell'attività lavorativa nella sede di origine. L'art. 2103 cod. civ., per Cassazione 3640/1996, pone un limite allo ius variandi nell'ambito del rapporto di lavoro in corso, offrendo al lavoratore una tutela contro i provvedimenti unilaterali di quest'ultimo, ma non impedisce la risoluzione del rapporto di lavoro in atto e la costituzione di uno nuovo a condizioni diverse. Non può quindi ravvisarsi la frode alla legge nel caso in cui un lavoratore rassegni le dimissioni al fine della sua concordata riassunzione per lo svolgimento di mansioni di una qualifica inferiore. Sezione lavoro 8 agosto 2011 n. 17090 Lavoro - lavoro subordinato - estinzione del rapporto - licenziamento collettivo - in genere. Art. 4 bis legge n. 223 del 1991 - Portata - Garanzie procedimentali - Licenziamento degli autoferrotranvieri - Applicabilità. L'art. 4 bis della legge n. 223 del 1991, deve essere interpretato nel senso che, con il richiamo alle disposizioni in materia di mobilità, essa ha disciplinato la situazione degli autoferrotranvieri colpiti da licenziamenti collettivi, intimati da imprese assoggettate a procedure concorsuali, soltanto per quanto concerne l'istituto della mobilità ed il loro diritto a fruire degli effetti derivanti dalle norme sulla mobilità e, in particolare, della relativa indennità, stabilendo che a tali fini la dichiarazione di fallimento o la messa in liquidazione dell'impresa deve essere successiva al 1 gennaio 1993. Invece, per quanto riguarda la disciplina del procedimento preordinato al licenziamento collettivo, la normativa introdotta con l'art. 24 della predetta legge n. 223 del 1991 ha carattere generale, sicché le relative garanzia procedimentali si applicano anche ai dipendenti da imprese autoferrotranviarie senza che esse possano ritenersi incompatibili con le previsioni dell'art. 26 all. A al r.d. n. 148 del 1931, atteso che tale norma che, nel disciplinare l'esonero del personale ferroviario in caso di riduzione di posti, autorizza l'assegnazione dei dipendenti in esubero a mansioni inferiori alla qualifica come alternativa al licenziamento si pone su un piano assolutamente diverso da quello procedimentale regolamentato dall'art. 24 legge n. 223 del 1991, che, tra l'altro, coinvolge anche le rappresentanze sindacali. In senso conforme si vedano Cassazione 7309/2002 e Cassazione 3063/2001. Sezione lavoro 8 agosto 2011 n. 17087 Lavoro - lavoro subordinato - estinzione del rapporto - licenziamento individuale - in genere. Licenziamento per ritorsione - Discriminatorio - Nullità - Presupposti - Fattispecie. Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta - assimilabile a quello discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 604 del 1966, 15 della legge n. 300 del 1970 e 3 della legge n. 108 del 1990 - costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni. Nella specie, la sentenza impugnata è stata cassata dalla S.C. la quale ha valutato come ritorsivo il licenziamento disciplinare della figlia rispetto alle rivendicazioni del padre, dipendente della medesima impresa, e al successivo contenzioso insorto . Sul tema si veda Cassazione 20500/2008 per la quale in tema di licenziamento, l'art. 4 della legge n. 108 del 1990, nel riconoscere alle cosiddette organizzazioni di tendenza l'inapplicabilità dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori, fa salva l'ipotesi regolata dall'art. 3 sull'estensione della tutela reale ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori ne consegue che, ove il licenziamento sia stato determinato da motivo di ritorsione o rappresaglia, va ordinata, anche nei confronti di dette associazioni, la reintegra del lavoratore, restando privo di rilievo il livello occupazionale dell'ente e la categoria di appartenenza del dipendente. Per Cassazione 6282/2011 il divieto di licenziamento discriminatorio - sancito dall'art. 4 della legge n. 604 del 1966, dall'art. 15 della legge n. 300 del 1970 e dall'art. 3 della legge n. 108 del 1990 - è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l'ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa. In tali casi, tuttavia, è necessario dimostrare che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo. Sezione lavoro 8 agosto 2011 n. 17082 Lavoro - lavoro subordinato - sospensione del rapporto - sciopero - in genere. Rimorchio nei porti - Servizio pubblico essenziale - Obbligo di preavviso - Sussistenza. In tema di sanzioni amministrative per violazione della legge sullo sciopero, il servizio di rimorchio nei porti, sebbene non espressamente citato nell'elenco non tassativo contenuto nell'art. 1, comma 2, della legge n. 146 del 1990, costituisce un servizio pubblico essenziale, non frazionabile, ai fini della esenzione dall'obbligo di preavviso, mediante la limitazione dello sciopero alle operazioni commerciali e l'esclusione dall'astensione di alcune prestazioni considerate unilateralmente indispensabili dai sindacati che proclamano lo sciopero. Pertanto, in tale ambito, lo sciopero dev'essere effettuato nel rispetto dell'obbligo di dare il preavviso minimo previsto dall'art. 2, commi 1 e 5, della legge n. 146 del 1990, salvo che non ricorrano le situazioni considerate dal comma 7 del medesimo articolo. Analogo principio è già affermato da Cassazione 24207/2010. In tema di sanzioni amministrative per violazione della legge sullo sciopero, per Cassazione 24207/2010, in sede di opposizione a ordinanza ingiunzione emessa dalla Direzione provinciale del lavoro applicativa delle sanzioni amministrative, di natura pecuniaria, deliberate dalla Commissione di garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, sono inammissibili le censure che abbiano ad oggetto la delibera della Commissione stessa, atteso che contro quest'ultima è ammesso solamente, ai sensi dell'art. 20 bis della legge 12 giugno 1990, n. 146, ricorso al giudice del lavoro. In argomento si confrontino Sezioni Unite 63/2000 secondo cui il procedimento di opposizione a ordinanza - ingiunzione relativa all'applicazione di sanzioni amministrative disciplinato dagli artt. 22 e 23 legge n. 689 del 1981 non rientra tra quelli per i quali l'art. 3 legge n. 742 del 1969 dispone l'inapplicabilità della sospensione dei termini in periodo feriale, ne' l'inapplicabilità della suddetta sospensione può ritenersi nelle ipotesi di violazioni amministrative concernenti la materia del lavoro o della previdenza e assistenza obbligatorie, sulla base dell'assunto che tali controversie rientrano tra quelle indicate dagli artt. 409 e 442 cod. proc. civ. e sono pertanto soggette al rito speciale del lavoro, in quanto tale possibilità sussiste solo nei casi espressamente indicati dall'art. 35 legge n. 689 del 1981 violazioni consistenti nell'omissione totale o parziale dei contributi e premi o violazioni dalle quali derivi l'omesso o parziale versamento di contributi e premi , norma che ha la funzione di valutazione legale tipica della natura del giudizio di opposizione come idoneo a soggiacere, con le sole eccezioni espressamente previste, al regime di sospensione dei termini in periodo feriale ne consegue che l'osservanza del termine per la proposizione del ricorso per cassazione avverso la sentenza resa in tema di opposizione a ordinanza ingiuntiva del pagamento di una sanzione amministrativa va sempre valutata alla stregua del suddetto regime sospensivo, quale che sia la materia oggetto della violazione amministrativa, con esclusione dei casi sopra menzionati di eccezionale applicabilità del rito del lavoro espressamente previsti dal citato art. 35 legge n. 689 del 1981. Sezione lavoro 29 luglio 2011 n. 16787 Lavoro - lavoro subordinato - associazioni sindacali - sindacati postcorporativi - libertà sindacale - repressione della condotta antisindacale. Legittimazione attiva - Attribuzione alle associazioni sindacali a diffusione nazionale - Sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali - Necessità - Esclusione. In tema di repressione della condotta antisindacale, ai fini della legittimazione a promuovere l'azione prevista dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori, per associazioni sindacali nazionali devono intendersi le associazioni che abbiano una struttura organizzativa articolata a livello nazionale e che svolgano attività sindacale su tutto o su ampia parte del territorio nazionale, mentre non è necessaria la sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali. Tra i precedenti in senso conforme si veda Cassazione 5209/2010 per la quale in tema di repressione della condotta antisindacale, ai fini del riconoscimento del carattere nazionale dell'associazione sindacale legittimata all'azione ex art. 28 stat. lav., non assume decisivo rilievo il mero dato formale dello statuto dell'associazione che affermi il carattere nazionale del sindacato , quanto piuttosto la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi, anche gestionali, che trovino applicazione in tutto il territorio nazionale in riferimento al settore produttivo al quale appartiene l'azienda nei confronti della quale il sindacato intenda promuovere il procedimento, e attestino un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio-economico dell'intero paese, di cui la concreta ed effettiva organizzazione territoriale si configura quale elemento di riscontro del suo carattere nazionale piuttosto che come elemento condizionante. Analogamente per Cassazione 13240/2009, la legittimazione ad agire è riconosciuta dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori alle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, richiedendo pertanto solo il requisito della diffusione del sindacato sul territorio nazionale,con ciò dovendosi intendere che sia sufficiente - e al tempo stesso necessario - lo svolgimento di una effettiva azione sindacale non su tutto, ma su gran parte del territorio nazionale, non richiedendosi che l'associazione faccia parte di una confederazione, né che sia maggiormente rappresentativa. In particolare, qualora dispongano dei requisiti sopra indicati, sono legittimate anche le associazioni sindacali intercategoriali, in riferimento alle quali però i limiti minimi di presenza sul territorio nazionale ai fini della rappresentatività devono ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli richiesti ad un'associazione di categoria. Ne consegue che la stipula del contratto collettivo nazionale può costituire uno degli indici maggiormente rivelatori della rappresentatività sindacale alla base della legittimazione ex art. 28 della legge n. 300 del 1970, ma non certamente l'unico elemento rivelatore di essa.