RASSEGNA DELLA SEZIONE LAVORO DELLA CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO 8 AGOSTO 2011 N. 17087 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO INDIVIDUALE - IN GENERE. Licenziamento discriminatorio - Interpretazione estensiva - Licenziamento per ritorsione - Presupposti e condizioni. Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta che questa sia, è un licenziamento nullo, quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l'unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell'art. 1418 c.c., comma 2, art. 1345 e 1324 c.c. Esso costituisce ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito diretto o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione indiretto , che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta. Siffatto tipo di licenziamento è stato ricondotto, data l'analogia di struttura, alla fattispecie di licenziamento discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 300 del 1970, e 3 della legge n. 108 del 1990 - interpretati in maniera estensiva - che ad esso riconnettono le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Il divieto di licenziamento discriminatorio - sancito dall'art. 4 della legge n. 604 del 1966, dall'art. 15 della legge n. 300 del 1970 e dall'art. 3 della legge n. 108 del 1990 - secondo Cassazione 6282/2011 è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l'ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa. In tali casi, tuttavia, è necessario dimostrare che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo. In tema di licenziamento disciplinare, per Cassazione 5555/2011, ove il lavoratore deduca il carattere ritorsivo del provvedimento datoriale, è necessario che tale intento abbia avuto un'efficacia determinativa ed esclusiva del licenziamento anche rispetto agli altri eventuali fatti idonei a configurare un'ipotesi di legittima risoluzione del rapporto, dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altre inadempienze. Quanto al profilo sanzionatorio si veda Cassazione 24347/2010 in tema di licenziamento, l'art. 3 della legge n. 108 del 1990, che estende ai licenziamenti nulli - in quanto discriminatori, ai sensi degli artt. 4 della legge n. 604 del 1966 e 15 della legge n. 300 del 1970 - le conseguenze sanzionatorie previste dall'art. 18 della medesima legge n. 300 del 1970, qualunque sia il numero dei dipendenti ed anche a favore dei dirigenti, deve intendersi applicabile in genere ai licenziamenti nulli per illiceità del motivo determinante ed, in particolare, a quelli che siano determinati in maniera esclusiva da motivo di ritorsione o di rappresaglia. SEZIONE LAVORO 29 LUGLIO 2011 N. 16788 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ASSOCIAZIONI SINDACALI - SINDACATI POSTCORPORATIVI - ATTIVITÀ SINDACALE - COSTITUZIONE DELLE RAPPRESENTANZE SINDACALI AZIENDALI. Dimissioni dei componenti della rappresentanza sindacale unitaria - Decadenza della RSU - Condizioni - Prosecuzione delle trattative da parte dell'azienda con i componenti della RSU decaduta - Comportamento antisindacale - Configurabilità - Fondamento - Limiti - Esistenza di obbligo a trattare. In tema di rappresentanze sindacali unitarie, l'art. 6 dell'accordo interconfederale 20 dicembre 1993 tra Confindustria e CGIL, CISL e UIL stabisce la decadenza della rappresentanza sindacale unitaria con conseguente obbligo di procedere al rinnovo dell'organismo nel caso in cui si dimettano un numero superiore al cinquanta per cento dei suoi componenti, restando possibile la prosecuzione dell'attività e la sostituzione degli stessi solo nell'ipotesi in cui tale soglia non venga superata. Ne consegue che la prosecuzione delle trattative fino, eventualmente, alla stipula di un accordo da parte dell'impresa con i componenti della RSU decaduta, ormai privi di legittimazione a trattare come componenti di una rappresentanza unitaria, costituisce - in assenza di un obbligo a trattare e regolamentare - comportamento antisindacale in quanto altera le dinamiche dei rapporti tra i sindacati in azienda, privilegiando e favorendo la posizione di alcuni di essi, e blocca o, comunque, rende più lento e difficoltoso il meccanismo di rinnovo dell'intera rappresentanza sindacale unitaria previsto dall'accordo interconfederale. Malgrado non sussista nel campo delle relazioni industriale un principio di parità di trattamento tra le varie organizzazioni sindacali, per Cassazione 212/2008, viene, tuttavia, a configurare una condotta antisindacale il comportamento datoriale che si concretizzi in un rifiuto, a danno di taluni sindacati, di forme di consultazione, di esame congiunto o di instaurazione di trattative, espressamente previste da clausole contrattuali o da disposizioni di legge, allorquando detto rifiuto si traduca - sia per le modalità in cui si esprime, sia per comportamento globalmente tenuto dall'imprenditore nei riguardi di dette organizzazioni - in condotte oggettivamente discriminatorie, atte ad incidere negativamente sulla stessa libertà del sindacato e sulla sua capacità di negoziazione, minandone la credibilità e l'immagine anche sotto il profilo della forza aggregativa in termini di acquisizione di nuovi consensi. In tema di legittimazione ad agire ex art. 28 si veda Sezioni Unite 28269/2005 secondo la quale la legittimazione ad agire è riconosciuta dalla citata norma alle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, richiedendo pertanto solo il requisito della diffusione del sindacato sul territorio nazionale,con ciò dovendosi intendere che sia sufficiente - e al tempo stesso necessario - lo svolgimento di una effettiva azione sindacale non su tutto ma su gran parte del territorio nazionale, senza esigere che l'associazione faccia parte di una confederazione né che sia maggiormente rappresentativa. In particolare, qualora dispongano dei requisiti sopra indicati, sono legittimate anche le associazioni sindacali intercategoriali, in riferimento alle quali però i limiti minimi di presenza sul territorio nazionale ai fini della rappresentatività devono ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli richiesti ad un'associazione di categoria. L'individuazione degli organismi locali delle associazioni sindacali legittimati ad agire deve desumersi dagli statuti interni delle associazioni stesse, dovendosi far riferimento alle strutture che tali statuti ritengono maggiormente idonee alla tutela degli interessi locali. SEZIONE LAVORO 25 LUGLIO 2011 N. 16199 PROCEDIMENTI SOMMARI - D'INGIUNZIONE - DECRETO - OPPOSIZIONE - OPPOSIZIONE RIGUARDANTE CREDITI DI LAVORO. Compatibilità con il rito del lavoro - .Conseguenze - Fase monitoria - Ammissibilità - Condizioni - Prova scritta del credito - Giudizio di opposizione - Rito del lavoro - Applicabilità - Memoria di costituzione dell'opposto - Contenuto - Conteggi operati per la determinazione della somma richiesta depositati nella fase sommaria - Mancata notifica alla controparte - Irrilevanza - Fondamento. La legge n. 533 del 1973 non ha fatto venir meno l'ammissibilità del procedimento d'ingiunzione per i crediti di lavoro e previdenziali, ma si è limitata a prevedere l'applicabilità del rito del lavoro nel giudizio di opposizione. Ne consegue che mentre nella prima fase, a cognizione sommaria, la prova scritta è costituita da qualsiasi documento proveniente dal debitore o un terzo idoneo ad evidenziare l'esistenza del diritto fatto valere, nel successivo eventuale giudizio di cognizione la memoria difensiva dell'opposto, attesa la sua posizione sostanziale di attore, deve osservare la forma della domanda di cui all'art. 414 cod. proc. civ. e deve recare l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda . Resta pertanto irrilevante la circostanza che i conteggi, operati dal ricorrente per la determinazione della somma richiesta e depositati nella fase monitoria, non siano stati notificati alla controparte, atteso che nel procedimento per ingiunzione il contraddittorio è posticipato ed eventuale e, una volta introdotto con l'opposizione al decreto ingiuntivo il giudizio di cognizione, l'opposto ha, in tale ambito, l'onere di fornire la prova del proprio credito indipendentemente dalla legittimità, validità ed efficacia del decreto. Il principio è già espresso da Cassazione 17494/2009. In argomento si veda anche Cassazione 5754/2009 la quale afferma che l'opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario e autonomo giudizio di cognizione esteso all'esame non solo delle condizioni di ammissibilità e validità del procedimento monitorio ma anche della fondatezza della domanda del creditore in base a tutti gli elementi offerti dal medesimo e contrastati dall'ingiunto. Ne consegue che, qualora il giudice revochi in tutto o in parte il decreto opposto, egli può - e, se richiesto, deve - pronunciare sul merito della domanda, venendo la sentenza di condanna a sostituirsi all'originario decreto ingiuntivo quale titolo su cui si fonda il diritto al pagamento della parte vittoriosa. In argomento si veda ancora Cassazione 1458/2005 secondo cui nel rito del lavoro, l'atto di opposizione a decreto ingiuntivo proposto dall'opponente convenuto sostanziale deve avere il contenuto della memoria difensiva di cui all'art. 416 cod.proc.civ., mentre l'atto di costituzione dell'opposto attore sostanziale è riconducibile non alla memoria difensiva, ma ad un atto integrativo della domanda azionata con la richiesta di decreto ingiuntivo ne consegue che, poiché l'opponente è in grado di conoscere con completezza la pretesa dell'attore solo dopo la costituzione in giudizio di quest'ultimo, non può ritenersi tardiva la richiesta di prova testimoniale articolata dall'opponente nella prima difesa successiva a tale costituzione. SEZIONE LAVORO 19 LUGLIO 2011 N. 15774 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ORARIO DI LAVORO - IN GENERE. Lavoro a tempo parziale - Osservanza di un orario di lavoro pari a quello previsto per il tempo pieno - Automatica trasformazione del rapporto part-time in rapporto a tempo pieno - Configurabilità - Condizioni - Fattispecie. In tema di lavoro a tempo parziale, l'osservanza di un orario lavorativo nella specie, a favore della Società Autostrade pari a quello previsto per il tempo pieno è idonea a comportare, nonostante la difforme iniziale volontà delle parti, l'automatica trasformazione del rapporto part-time in altro a tempo pieno, non occorrendo, a tal fine, l'osservanza di alcun requisito formale. In senso conforme si veda tra le altre Cassazione 5520/2004. Nel regime precedente il d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, Cassazione 6226/2009 ha ritenuto che nel rapporto di lavoro part-time il superamento del monte ore massimo previsto dalla contrattazione collettiva per detto tipo di rapporto, in difetto di previsione legale o contrattuale collettiva, non determina la trasformazione del rapporto in lavoro a tempo pieno, salva la possibilità che, a causa della continua prestazione di un orario pari a quello previsto per il lavoro a tempo pieno, possa ritenersi che la trasformazione si sia verificata per fatti concludenti. Più rigorosa è invece Cassazione 3228/2008 per la quale invece in tema di lavoro a tempo parziale, pur essendo in astratto possibile la trasformazione del rapporto di lavoro in lavoro a tempo pieno per fatti concludenti, nonostante la difforme pattuizione iniziale, il superamento del monte orario non determina necessariamente detta trasformazione, soprattutto se la prestazione lavorativa pari all'orario normale si sia verificata in rari casi. Per una ipotesi particolare di trasformazione si veda Cassazione 1729/2000 secondo la quale nel caso di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno, per la quale - riguardo alla commisurazione dell'indennità di maternità - trova applicazione la disciplina dettata dall'art. 16, primo comma, della legge n. 1204 del 1971, ove l'inizio dell'astensione obbligatoria coincida con il concordato inizio del periodo di lavoro a tempo pieno, l'indennità va calcolata in base alla retribuzione fissata per quest'ultimo periodo, in quanto - come ritenuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 271 del 1999 - la commisurazione di tale indennità al periodo di paga a tempo parziale si tradurrebbe in una violazione degli obiettivi perseguiti dal legislatore del 1971, visto che in tal caso la lavoratrice, pur essendo formalmente in part - time all'inizio del periodo di astensione, avrebbe certamente prestato il proprio lavoro a tempo pieno, durante il prosieguo, in mancanza di gravidanza.