RASSEGNA DELLA SEZIONE LAVORO DELLA CASSAZIONE di Francesca Evangelista

di Francesca Evangelista SEZIONE LAVORO 31 MARZO 2011, N. 7493 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO INDIVIDUALE - DISCIPLINARE. Diritto del lavoratore ad essere sentito oralmente - Sussistenza - Condizioni - Differimento dell'incontro - Ammissibilità - Esigenza difensiva non altrimenti tutelabile - Necessità - Criteri. Ai sensi dell'art. 7, secondo comma, della legge 300/1970, in caso di irrogazione di licenziamento disciplinare, il lavoratore ha diritto, qualora ne abbia fatto richiesta, ad essere sentito oralmente dal datore di lavoro tuttavia, ove il datore, a seguito di tale richiesta, abbia convocato il lavoratore per una certa data, questi non ha diritto ad un differimento dell'incontro limitandosi ad addurre una mera disagevole o sgradita possibilità di presenziare, poiché l'obbligo di accogliere la richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad un'esigenza difensiva non altrimenti tutelabile. Il datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare nei confronti del dipendente non può omettere l'audizione del lavoratore incolpato il quale, ancorché abbia inviato una compiuta difesa scritta, ne abbia fatto espressa richiesta tuttavia, tale volontà deve essere comunicata in termini univoci, a tutela dell'affidamento del datore di lavoro Cassazione 21899/2010. L'art. 7 della legge 300/1970 subordina la legittimità del procedimento di irrogazione della sanzione disciplinare alla preventiva contestazione degli addebiti, al fine di consentire al lavoratore di esporre le proprie difese in relazione al comportamento ascrittogli, e comporta per il datore di lavoro un dovere autonomo di convocazione del dipendente per l'audizione orale ove quest'ultimo abbia manifestato tempestivamente entro il quinto giorno dalla contestazione la volontà di essere sentito di persona. Pertanto, ove l'audizione sia di fatto impedita - e, quindi, rinviata - per lo stato di malattia del dipendente, che certo non autorizza il datore di lavoro ad omettere l'audizione dello stesso dipendente incolpato che l'abbia espressamente richiesta, il conseguente ritardo nell'intimazione del licenziamento disciplinare non inficia quest'ultimo come carente del requisito della tempestività Cassazione 7848/2006. Ove il lavoratore, pur dopo la scadenza del termine di cinque giorni dalla contestazione dell'addebito, richieda un supplemento di difesa, anche se la stessa si sia già svolta con l'audizione personale o con la presentazione di giustificazioni scritte, l'obbligo del datore di lavoro di dar seguito alla richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad esigenze di difesa non altrimenti tutelabili, in quanto non sia stata possibile la piena realizzazione della garanzia apprestata dalla legge conseguentemente, la presentazione di ulteriori difese dopo la scadenza del tempo massimo deve essere consentita solo nell'ipotesi in cui entro questo termine il lavoratore non sia stato in grado di presentare compiutamente la propria confutazione dell'addebito e la valutazione di questo presupposto va operata alla stregua dei principi di correttezza e buona fede che devono regolare l'esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro Cassazione 488/2005. SEZIONE LAVORO 31 MARZO 2011, N. 7490 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO COLLETTIVO - IN GENERE. Comunicazione ex art. 4 legge 223/1991 - Al lavoratore e alle organizzazioni sindacali e autorità amministrative - Contestualità - Necessità - Mancanza - Conseguenze. In tema di licenziamenti collettivi, il requisito della contestualità della comunicazione del recesso al lavoratore e alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro, richiesto a pena d'inefficacia del licenziamento medesimo, non può che essere valutato, in una procedura temporalmente cadenzata in modo rigido ed analitico, e con termini molto ristretti, nel senso di una necessaria ed ineliminabile contemporaneità delle due comunicazioni la cui mancanza, solo se sostenuta da giustificati motivi di natura oggettiva, da comprovare dal datore di lavoro, può non determinarne l'inefficacia. In tema di licenziamenti collettivi, per Cassazione 1722/2009 la lettera della disposizione di cui all'art. 4, comma nono, della legge 223/1991 e la sua ratio - che, in funzione di garanzia dei licenziati, è quella di rendere visibile e quindi controllabile dalle organizzazioni sindacali e tramite queste dai singoli lavoratori la correttezza del datore di lavoro in relazione alle modalità di applicazione dei criteri di scelta - portano a ritenere che il requisito della contestualità della comunicazione del recesso ai competenti uffici del lavoro e ai sindacati rispetto a quella al lavoratore - comunicazioni entrambe richieste a pena di inefficacia del licenziamento - non può non essere valutato, in una procedura temporalmente cadenzata in modo rigido e analitico, e con termini ristretti, nel senso di una necessaria contemporaneità la cui mancanza vale ad escludere la sanzione della inefficacia del licenziamento solo se dovuta a giustificati motivi di natura oggettiva da comprovare da parte del datore di lavoro. Per Cassazione 15898/2005 la nozione di contestualità delle comunicazioni, di cui all'art. 4, comma 9, della legge 223/1991, deve essere intesa in senso proprio e rigoroso di sostanziale contemporaneità dell'esecuzione dei relativi adempimenti da parte del datore di lavoro, con la conseguenza che solo in questo ambito sono ammissibili valutazioni da parte del giudice di merito - per esempio, con particolare riferimento ai problemi concreti di recapito delle comunicazioni -. SEZIONE LAVORO 29 MARZO 2011, N. 7129 PROCEDIMENTI SPECIALI - PROCEDIMENTI IN MATERIA DI LAVORO E DI PREVIDENZA - CONTROVERSIE ASSOGGETTATE - RAPPORTI DI LAVORO SUBORDINATO PRIVATO. Domanda del lavoratore intesa alla declaratoria di illegittimità o inefficacia del licenziamento e alla reintegrazione nel posto di lavoro - Fallimento del datore di lavoro nel corso di giudizio - Competenza del giudice del lavoro - Persistenza - Fondamento. Ove il lavoratore abbia agito in giudizio chiedendo, con la dichiarazione di illegittimità o inefficacia del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro nei confronti del datore di lavoro dichiarato fallito, permane la competenza funzionale del giudice del lavoro, in quanto la domanda proposta non è configurabile come mero strumento di tutela di diritti patrimoniali da far valere sul patrimonio del fallito, ma si fonda anche sull'interesse del lavoratore a tutelare la sua posizione all'interno della impresa fallita, sia per l'eventualità della ripresa dell'attività lavorativa conseguente all'esercizio provvisorio ovvero alla cessione dell'azienda, o a un concordato fallimentare , sia per tutelare i connessi diritti non patrimoniali, ed i diritti previdenziali, estranei all'esigenza della par condicio creditorum . In senso conforme si veda anche Cassazione 4051/2004. Analogamente anche Cassazione 3129/2003 ritiene che nel caso in cui il lavoratore agisca in giudizio per ottenere la declaratoria di illegittimità o inefficacia del licenziamento nella specie, di un licenziamento collettivo il fallimento del datore di lavoro non esclude la competenza del giudice del lavoro in ordine a siffatte domande, in quanto soltanto per le pretese creditorie eventualmente proposte in correlazione alla declaratoria di illegittimità del licenziamento è funzionalmente competente il Tribunale fallimentare in base al combinato disposto degli artt. 24, 52 e 93 della legge fallimentare. Inoltre, il fallimento del datore di lavoro neppure determina il venire meno dell'interesse del lavoratore all'accoglimento delle domande, in quanto siffatto interesse ha ad oggetto non solo il ripristino della prestazione lavorativa, ma anche le utilità connesse al ripristino del rapporto in uno stato di quiescenza attiva dalla quale possono scaturire una serie di utilità, quali la ripresa del lavoro in relazione all'eventualità di un esercizio provvisorio, di una cessione in blocco dell'azienda, o della ripresa della sua amministrazione da parte del fallito a seguito di concordato fallimentare e la possibilità di ammissione ad una serie di benefici previdenziali tra essi, l'indennità di cassa integrazione, di disoccupazione, di mobilità . In caso di sottoposizione della società datrice di lavoro a liquidazione coatta amministrativa, per Cassazione 4547/2009, spetta al giudice del lavoro la cognizione non soltanto sulle domande del lavoratore di impugnazione del licenziamento nella specie, un licenziamento collettivo e di condanna del datore alla reintegrazione nel posto di lavoro, in quanto dirette ad ottenere una pronuncia costitutiva, ma anche della domanda di condanna generica al risarcimento dei danni mediante il pagamento di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione, trattandosi di istanza meramente riproduttiva del contenuto dell'art. 18, quarto comma, della legge 300/1970 come modificato dall'art. 1 della legge 108/1990, e conseguenziale alle richieste principali di dichiarazione di inefficacia del licenziamento, che non comporta alcun accertamento aggiuntivo sul quantum del risarcimento, né, quindi, impone lo scorporo della domanda per la preventiva verifica in via amministrativa - in sede di accertamento dello stato passivo avanti ai competenti organi della procedura concorsuale - a tutela degli altri creditori, dovendosi ritenere, sul piano della ratio legis , l'inutilità di una simile verifica, idonea ad appesantire ingiustificatamente la durata del processo. SEZIONE LAVORO 28 MARZO 2011, N. 7037 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - DIRITTO ALLA CONSERVAZIONE DEL POSTO - INFORTUNI E MALATTIE - COMPORTO. Assenze dovute a infortuni sul lavoro o a malattie professionali - Computabilità nel periodo di comporto - Limiti. LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - DIRITTO ALLA CONSERVAZIONE DEL POSTO - INFORTUNI E MALATTIE - COMPORTO. Superamento del periodo di comporto - Recesso del datore di lavoro - Tempestività - Valutazione - Criteri - Fattispecie. - La computabilità delle assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale nel periodo di comporto non si verifica nelle ipotesi in cui l'infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell'ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell'attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all'obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell'art. 2087 cc, norma che gli impone di porre in essere le misure necessarie - secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica - per la tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l'impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata. - Mentre nel licenziamento disciplinare vi è l'esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa all'incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia l'interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole spatium deliberandi che va riconosciuto al datore di lavoro perché egli possa valutare convenientemente nel complesso la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di compatibilità della sua presenza in rapporto agli interessi aziendali ne consegue che in questo caso la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito deve fare caso per caso, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto il decorso del termine di circa dieci mesi dal superamento del periodo di comporto non ostativo al recesso del datore di lavoro, avvenuto quando la morbilità del lavoratore era divenuta tale da rendere quest'ultimo non più utilmente e convenientemente reinseribile nell'apparato produttivo . - Con riferimento alla prima massima, le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale secondo Cassazione 3351/1996, sono riconducibili, in linea di principio, all'ampia e generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell'art. 2110 cc, comprensiva anche di dette specifiche categorie di impedimenti dovuti a cause di lavoro, e sono pertanto normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro previsto nello stesso art. 2110, la cui determinazione è da questa norma rimessa alla legge, alle norme collettive, all'uso o all'equità. La suddetta computabilità nel periodo di comporto non si verifica, peraltro, nelle ipotesi in cui l'infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell'ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell'attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all'obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell'art. 2087 cc, norma che gli impone di porre in essere le misure necessarie - secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica - per la tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l'impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata. Sul piano processuale, secondo Cassazione 17971/2010 la domanda di mero accertamento della natura professionale dell'infortunio, nonché, specificamente, della sussistenza del nesso di causalità tra infortunio e prestazione lavorativa in assenza di una inabilità permanente residuata e indennizzabile sono inammissibili, risolvendosi in richieste di accertamento di meri fatti, incompatibile con la funzione del processo che può essere utilizzato solo a tutela di diritti sostanziali e deve concludersi salvo casi eccezionali con il raggiungimento dell'effetto giuridico tipico, cioè con l'affermazione o la negazione del diritto dedotto in giudizio, onde i fatti possono essere accertati dal giudice solo come fondamento del diritto fatto valere in giudizio e non di per sé e per gli effetti possibili e futuri che da tale accertamento si vorrebbero ricavare. Né può ritenersi che la natura lavorativa dell'infortunio costituisca questione pregiudiziale al diritto alla rendita, come tale suscettibile, a norma dell'art. 34 Cpc, di accertamento incidentale con efficacia di giudicato separatamente dall'esame della domanda principale, essendo invece uno degli elementi costitutivi del diritto medesimo. - Sul punto di cui alla seconda massima, si veda in senso conforme Cassazione 23920/2010, per la quale quindi, il giudizio sulla tempestività, o meno, del recesso non può conseguire alla rigida e meccanica applicazione di criteri temporali prestabiliti, ma va condizionato, invece, ad una compiuta considerazione di ogni significativa circostanza idonea a incidere sulla valutazione datoriale circa la sostenibilità, o meno, delle assenze del lavoratore in rapporto con le esigenze dell'impresa, in un'ottica delle relazioni aziendali improntata ai canoni della reciproca lealtà e della buona fede, che comprendono, fra l'altro, la possibilità, rimessa alla valutazione dello stesso imprenditore nell'ambito delle funzioni e delle garanzie di cui all'art. 41 Cost., di conservazione del posto di lavoro anche oltre il periodo di tutela predeterminato dalle parti collettive, compatibilmente con le esigenze di funzionamento dell'impresa. Per Cassazione 1438/2008, in tema di licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto, opera ugualmente il criterio della tempestività del recesso, sebbene, difettando gli estremi dell'urgenza che si impongono nell'ipotesi di giusta causa, la valutazione del tempo decorso fra la data di detto superamento e quella del licenziamento - al fine di stabilire se la durata di esso sia tale da risultare oggettivamente incompatibile con la volontà di porre fine al rapporto - vada condotta con criteri di minor rigore che tengano conto di tutte le circostanze all'uopo significative, così da contemperare da un lato l'esigenza del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale e, dall'altro, quella del datore di lavoro al vaglio della gravità di tale comportamento, soprattutto con riferimento alla sua compatibilità o meno con la continuazione del rapporto. SEZIONE LAVORO 28 MARZO 2011, N. 7034 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - COSTITUZIONE DEL RAPPORTO - ASSUNZIONE - DIVIETO DI INTERMEDIAZIONE E DI INTERPOSIZIONE APPALTO DI MANO D'OPERA . Appalti endoaziendali - Accertamenti rimessi al giudice di merito - Contenuto - Fattispecie. In tema di divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro in riferimento agli appalti endoaziendali, ex art. 1 della legge 1369/1960 applicabile ratione temporis alla specie , non è sufficiente verificare che l'appalto venga concluso con un soggetto dotato di una propria ed effettiva organizzazione, occorrendo accertare, in primo luogo, se, a termini di contratto, la prestazione lavorativa debba essere resa nell'ambito di un'organizzazione e gestione propria dell'appaltatore, in quanto finalizzata ad un autonomo risultato produttivo e, all'esito positivo di tale indagine, la concreta esecuzione del contratto e, quindi, l'esistenza, anche in fatto, dell'autonomia gestionale dell'appaltatore esplicata nella conduzione aziendale, nella direzione del personale, nella scelta delle modalità e dei tempi di lavoro. Ne consegue che non è violato il divieto di cui all'art. 1 della legge 1369/1960 ove sia accertata dal giudice di merito, con congrua e logica motivazione, l'effettiva autonoma struttura organizzativa in capo all'appaltatore, né incide sulla dissociazione tra titolarità formale ed effettiva destinazione del rapporto l'applicazione concreta da parte dell'appaltatore medesimo di lavoratori a servizi non previsti dal contratto di appalto. Tra i precedenti conformi in argomento si veda Cassazione 5648/2009. Per Cassazione 3861/2008 in conformità alla ratio legis di protezione dei lavoratori da forme di sfruttamento conseguenti alla dissociazione tra la titolarità formale del rapporto e la sua effettiva destinazione, cioè fra l'autore dell'assunzione e l'effettivo beneficiario delle prestazioni lavorative, il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro di cui all'art. 1 della legge 1369/1960 [non eliminato dalla disciplina, di cui alla legge 196/1997, istitutiva del lavoro interinale, e venuto meno soltanto con il D.Lgs. 276/2003, il cui art. 85, comma primo, lettere c ed f , ha espressamente abrogato la legge 1369/1960], operava oggettivamente, prescindendo dall'intento fraudolento o simulatorio della parti ed anche in un momento successivo alla costituzione del rapporto e potendo, inoltre, la sua violazione essere commessa anche da soggetti titolari di una propria organizzazione autonoma, che professionalmente avessero assunto appalti regolari di opere e servizi, qualora in concreto avessero posto in essere un contratto di fornitura di manodopera, di modo che la situazione effettiva della prestazione di lavoro a favore e sotto il potere direttivo dell'interponente era sufficiente a realizzare la fattispecie legale della violazione del divieto ed a giustificare la conseguenza che i lavoratori fossero considerati - a tutti gli effetti - alle dipendenze del soggetto che ne aveva effettivamente utilizzato le prestazioni lavorative.