Dopo la separazione lei lo licenzia: niente mantenimento

Una volta ufficializzata la rottura, l’uomo viene messo alla porta dalla società amministrata dalla donna in cui lavorava come dipendente. Questo dato, con conseguente disoccupazione, non è sufficiente, secondo i giudici, per riconoscere il diritto del marito a percepire l’assegno di mantenimento. Rilevanti, invece, le sue capacità professionali, che gli consentono di ricollocarsi nel mondo del lavoro.

Volano gli stracci per il matrimonio andato a finire male. Difatti, la rottura della coppia ha anche strascichi in ambito lavorativo. Perché moglie e marito si lasciano e ufficializzano la loro separazione – consuetudine rispettata, quindi – ma allo stesso tempo lui viene licenziato a metterlo alla porta è la società gestita proprio dalla consorte. Nonostante quest’ultimo passaggio, però, la richiesta dell’uomo di vedere obbligata la coniuge a versargli mensilmente un assegno di mantenimento viene respinta. Irrilevante il suo stato di disoccupazione. Decisiva, invece, secondo i giudici, la valutazione delle sue capacità lavorative Cassazione, ordinanza numero 18894, sezione sesta civile, depositata oggi . Ricollocazione. Doppia sconfitta per il marito, che prima in Tribunale e poi in Corte d’Appello vede respinta la sua «domanda di condanna della moglie», una volta ufficializzata la separazione, al «pagamento di un assegno per il proprio mantenimento». I Giudici sottolineano innanzitutto che l’uomo «non ha dimostrato il proprio stato di disoccupazione involontaria né il peggioramento del proprio tenore di vita a seguito della separazione», e poi evidenziano che egli «ha attitudini e capacità lavorative che presumibilmente gli consentono di ricollocarsi nel mercato del lavoro». In questa ottica, quindi, non viene ritenuto decisivo «il licenziamento da parte della società amministrata dalla moglie in cui lavorava l’uomo», che, peraltro, viene osservato, «ha percepito una buonuscita dall’azienda». Questa visione è ritenuta solida dai Giudici della Cassazione, che, ritenendo inammissibile il ricorso proposto dall’avvocato del marito, escludono definitivamente l’ipotesi che la donna debba sobbarcarsi l’obbligo di versare mensilmente l’assegno di mantenimento all’ex coniuge. Inutili le obiezioni mosse dal legale, obiezioni finalizzate soprattutto a rimarcare «lo stato di disoccupazione» dell’uomo e lo «squilibrio economico» nei rapporti con la moglie, squilibrio non compensato dalla «buonuscita» versata dalla società dalla donna.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 1, ordinanza 14 giugno – 17 luglio 2018, numero 18894 Presidente Di Virgilio – Relatore Lamorgese Fatti di causa La Corte d'appello di Bologna, con sentenza del 18 gennaio 2017, ha rigettato il gravame di Va. Dr. avverso l'impugnata sentenza che aveva rigettato la sua domanda di condanna del coniuge separato Ma. Sa. al pagamento di un assegno per il proprio mantenimento. La Corte ha ritenuto che il Dr. non aveva dimostrato il proprio staio di disoccupazione involontaria ed il peggioramento del proprio tenore di vita a seguito della separazione che, al contrario, il suo tenore di vita contrastava con le difficoltà economiche allegale che egli aveva attitudini e capacità lavorative che presumibilmente gli consentivano di ricollocarsi nel mercato del lavoro, a seguito del licenziamento da parte della società amministrata dalla moglie nella quale prima lavorava, anche tenuto conto delle rilevanti somme Euro 500000 da lui percepite successivamente alla separazione, in relazione al pregresso lavoro e alla vendita di un immobile cointestato con la moglie. Avverso questa sentenza il Dr. ha proposto ricorso per cassazione, cui si è opposta la Sa. con controricorso. Ragioni della decisione Il ricorrente ha denunciato motivazione mancante, o insufficiente per non avere valutato il suo stato di disoccupazione dal marzo 2010, per avere illogicamente affermato che egli aveva attitudine e capacità lavorativa, per avere dato rilievo a fatti estranei al contenzioso come il percepimento del prezzo di una vendila immobiliare e della buona uscita dalla società della moglie e per avere erroneamente ritenuto non provato il tenore di vita dei coniugi, mentre era documentalmente provato lo squilibrio economico tra le parti. Il ricorso è inammissibile, risolvendosi, da un lato, nella critica dell'accertamento del fatto compiuto dal giudice di merito che è insindacabile in sede di legittimità in presenza di motivazione idonea a rivelare la ratio decidenti e, dall'altro, nella critica della sufficienza del ragionamento logico posto dal medesimo giudice a base dell'interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile, a norma del novellato articolo 360 numero 5 c.p.c. Cass., sez. unumero , numero 8053 e 8054 del 2014 . Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo. P.Q.M. La Corte dichiara il ricorso inammissibile condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro 2.800,00, di cui Euro 100,00 per esborsi. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.