L’unico indirizzo PEC rilevante ai fini processuali è quello che il difensore ha indicato all’Ordine di appartenenza

Oggi l’unico indirizzo PEC rilevante ai fini processuali è quello che il difensore ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza c.d. domicilio digitale . Inoltre, il difensore non ha più l’obbligo di indicare tale indirizzo nell’atto di parte, dovendo indicare, piuttosto, il proprio codice fiscale, valendo questo come criterio di univoca individuazione dell’utente SICID.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 3685/21, depositata il 12 febbraio. In un contenzioso per la fornitura di materiale funerario, veniva sollevata eccezione di inammissibilità del controricorso in quanto notificato presso l’indirizzo PEC del difensore della ricorrente, anziché presso il domicilio eletto in occasione del deposito del ricorso, e ciò sul presupposto che l’indicazione dell’indirizzo di cui sopra sarebbe stata fatta ai soli fini delle comunicazioni e non anche delle notificazioni. La Suprema Corte rigetta l’eccezione richiamando la giurisprudenza di legittimità Cass. civ., n. 14140/2019 secondo cui in materia di notificazioni al difensore , a seguito dell’introduzione del domicilio digitale” , corrispondente all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza – ex art. 16- sexies del d.l. n. 179/2011, conv. con mod. in l. n. 221/2012, come mod. dal d.l. n. 90/2014, conv. con mod. in l. n. 114/2014 - la notificazione dell’atto, nella specie di appello, va eseguita all’indirizzo PEC del difensore costituito risultante dal ReGIndE , pur non indicato in atti dal difensore medesimo . Inoltre, alla luce della modifica della notificazioni telematiche d.l. n. 90/2014, convertito con l. n. 114/2014 l’obbligo di indicare negli atti di parte l’indirizzo PEC del difensore è stato soppresso. Il d.l. cit. poi ha aggiunto al d.l. n. 179/2012 l’art. 16- sexies sul domicilio digitale , ai sensi del quale salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui all’art. 6- bis del d.lgs. n 82/2005 INI–PEC delle imprese e dei professionisti -, nonché dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della Giustizia ReGIndE . Alla luce di questo, essendo l’indirizzo PEC collegato in modo univoco al codice fiscale del titolare, oggi l ’unico indirizzo di posta elettronica certificata rilevante ai fini processuali è quello che il difensore ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza . Il difensore inoltre non ha più l’ obbligo di indicare negli atti di parte l’indirizzo di posta elettronica certificata , né la facoltà di indicare un indirizzo diverso da quello comunicato al Consiglio dell’Ordine o di restringerne l’operatività alle sole comunicazioni di cancelleria. Il difensore deve indicare , piuttosto, il proprio codice fiscale, valendo questo come criterio di univoca individuazione dell’utente SICID e consentendo questo di risalire all’indirizzo di posta elettronica del professionista. Precisa infine la Suprema Corte che resta invece fermo il contenuto dell’art. 366, comma 2, c.p.c. che, limitatamente al giudizio di Cassazione, prevede la domiciliazione ex lege del difensore presso la cancelleria della Corte nel caso in cui non abbia eletto domicilio nel comune di Roma, né abbia indicato il proprio indirizzo di posta elettronica.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 16 dicembre 2020 – 12 febbraio 2021, n. 3685 Presidente Gorjan – Relatore Criscuolo Ragioni in fatto ed in diritto della decisione 1. B.R. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo con il quale, su istanza della ditta individuale Petra di L.G.G. , le era stato intimato il pagamento della somma di Euro 15.635,72, quale corrispettivo per la fornitura del materiale necessario per la realizzazione di un’edicola funeraria, come da fattura n. omissis . Deduceva che in realtà la realizzazione dell’opera era stata richiesta alla ditta Tes Soc. cooperativa, la quale aveva predisposto un preventivo per il complessivo importo di Euro 28.200,00, comprensivo anche della fornitura dei marmi necessari e che, insieme con il legale rappresentante della detta società, aveva provveduto alla scelta del materiale necessario presso un’impresa fornitrice, avendo comunque effettuato il pagamento dell’intero importo pattuito nei confronti della società appaltatrice. Negava pertanto l’esistenza di un rapporto contrattuale con la l’impresa ricorrente e concludeva per il rigetto della domanda. Si costituiva l’opposto che, invece, sosteneva che l’opponente, unitamente al marito, si era recata più volte presso i propri locali espositivi e che il rappresentante della Tes si era solo limitato ad accompagnare la B. che, quindi, era debitrice della somma richiesta. All’esito dell’istruttoria il Tribunale di Torino, con la sentenza n. 2328/2015 revocava il decreto opposto, rigettando la domanda della ricorrente, con l’obbligo di rimborsare le spese di lite nonché di risarcire il danno ex art. 96 c.p.c. a carico dell’opposto. Alla luce dell’istruttoria espletata escludeva che vi fosse un rapporto contrattuale diretto tra le parti, essendo stato provato che la B. aveva stipulato un contratto di appalto per la realizzazione di un’edicola funeraria, il cui corrispettivo era comprensivo anche dei costi per l’acquisto dei materiali, effettivamente scelti presso la ditta opposta. Tale conclusione si fondava, oltre che sulla lettura del contratto intercorso tra la Tes e l’opponente, anche sulla deposizione dei testi, ed in particolare del teste M.A. che aveva confermato di avere ordinato i marmi per conto della Tes, della quale era rappresentante, riconoscendo quindi che era la detta società debitrice del corrispettivo per la fornitura, avendo invece la B. esattamente onorato gli impegni contrattuali assunti verso la società appaltatrice. Tale deposizione non risultava adeguatamente contrastata dalle dichiarazioni rese dallo stesso L.G. che si era limitato a negare di avere nella sua contabilità la fattura alla quale aveva fatto riferimento il teste, e che risultava intestata alla società. Era quindi da escludersi che la pretesa creditoria potesse essere proposta nei confronti della B. . Tuttavia, ricorreva anche la responsabilità ex art. 96 c.p.c. del creditore essendo emerso che la domanda era stata avanzata in maniera azzardata, avendo il L.G. agito in giudizio sebbene fosse a conoscenza del reale andamento dei rapporti contrattuali, e del fatto che quindi non poteva vantare alcuna pretesa verso l’opponente. La Corte d’Appello di Torino, a seguito di gravame del L.G. , con ordinanza del 4 novembre 2015, dichiarava inammissibile l’appello ex art. 348 ter c.p.c. ritenendo che lo stesso non avesse ragionevoli probabilità di accoglimento, essendo risultata condivisibile la valutazione del materiale istruttorio come operata dal Tribunale e corretta la conclusione, secondo cui il creditore ricorrente non avesse offerto la prova dell’esistenza di un contratto concluso direttamente con l’opposta, palesandosi corretta anche la valutazione circa la ricorrenza dei presupposti per la condanna ex art. 96 c.p.c. Per la cassazione della sentenza del Tribunale propone ricorso La Petra S.a.s., subentrata nelle more all’originaria creditrice, sulla base di quattro motivi, illustrati da memorie. L’intimata resiste con controricorso. 2. Preliminarmente va rilevato che il ricorso risulta notificato nel rispetto del termine di sessanta giorni decorrente dalla stessa pubblicazione dell’ordinanza di inammissibilità ex art. 348 ter c.p.c., il che rende irrilevante ai fini della procedibilità del ricorso, il deposito anche della comunicazione di cancelleria, posto che anche a voler ammettere che la comunicazione sia avvenuta lo stesso giorno della pubblicazione, il ricorso si palesa in ogni caso tempestivo, venendo meno quindi l’esigenza sottesa alla previsione di cui all’art. 369 c.p.c., di depositare oltre alla copia autentica del provvedimento impugnato, anche la relata di notifica, ovvero, come rileva nel caso in esame, la comunicazione di cancelleria evento idoneo a far decorrere il termine breve per l’impugnazione . Sempre in via preliminare deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del controricorso in quanto notificato presso l’indirizzo pec del difensore della ricorrente, anziché presso il domicilio eletto in occasione del deposito del ricorso, e ciò sul presupposto che l’indicazione dell’indirizzo di cui sopra sarebbe stata fatta ai soli fini delle comunicazioni e non anche delle notificazioni. Rileva a tal fine quanto precisato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui cfr. Cass. n. 14140/2019 in materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del domicilio digitale , corrispondente all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, secondo le previsioni di cui al D.L. n. 179 del 201, art. 16 sexies conv. con modif. in L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, conv., con modif., in L. n. 114 del 2014, la notificazione dell’atto, nella specie di appello, va eseguita all’indirizzo PEC del difensore costituito risultante dal ReGIndE, pur non indicato negli atti dal difensore medesimo conf. Cass. 14914/2018 Cass. n. 30139/2017 Cass. n. 17048/2017 . È pur vero che le Sezioni unite avevano osservato che, a partire dalla data di entrata in vigore delle modifiche degli artt. 125 e 366 c.p.c., apportate dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 25 esigenze di coerenza sistematica e d’interpretazione costituzionalmente orientata inducono a ritenere che, nel mutato contesto normativo, la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio, ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82 consegue soltanto ove il difensore, non adempiendo all’obbligo prescritto dall’art. 125 c.p.c. per gli atti di parte e dall’art. 366 c.p.c. specificamente per il giudizio di cassazione, non abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine Sez. U, Sentenza n. 10143 del 20/06/2012, Rv. 622883 . Come è altrettanto vero che successive pronunce di questa Corte avevano tuttavia ridimensionato il rilievo della elezione in senso improprio del domicilio telematico, essendo stato affermato, infatti, che, mentre l’indicazione della PEC senza ulteriori specificazioni è idonea a far scattare l’obbligo del notificante di utilizzare la notificazione telematica, non altrettanto può affermarsi nell’ipotesi in cui l’indirizzo di posta elettronica sia stato indicato in ricorso per le sole comunicazioni di cancelleria Sez. 6 - 3, Sentenza n. 25215 del 27/11/2014, Rv. 633275 Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 2133 del 03/02/2016, Rv. 638920, in motivazione . Tale orientamento traeva spunto dal tenore dell’art. 125 c.p.c., comma 1, come modificato dal D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 2, comma 35-ter convertito con modificazioni dalla L. 14 settembre 2011, n. 148 c.d. Decreto sviluppo secondo cui, negli atti di parte, il difensore deve, altresì, indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e il proprio numero di fax . In epoca pressoché coeva, la L. 12 novembre 2011, n. 183 Legge di stabilità 2012 , ha modificato anche l’art. 366 c.p.c., in tema di giudizio di cassazione, prevedendo che il ricorrente debba eleggere domicilio in Roma ovvero indicare in ricorso l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine in mancanza, le notificazioni gli sono fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione. Questi interventi legislativi, evidentemente volti ad incentivare l’uso degli strumenti informatici nel processo civile, risultavano però scarsamente coordinati fra di loro e con le regole preesistenti in materia di notificazioni telematiche. È in tale quadro normativo che si collocano le vicende processuali costituenti oggetto delle pronunce di questa Corte precedentemente citate. Tali conclusioni, però, non sono più attuali, in quanto la disciplina delle notificazioni telematiche è stata ulteriormente modificata. Anzitutto, l’art. 125 c.p.c. è stato nuovamente rimaneggiato, ad opera del D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 45-bis, comma 1, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114 Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari . La modifica è consistita, per l’appunto, nella soppressione dell’obbligo di indicare negli atti di parte l’indirizzo PEC del difensore. Inoltre, il D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, ha aggiunto al D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221 c.d. Agenda digitale , l’art. 16-sexies, intitolato Domicilio digitale . La disposizione prevede che, salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis nonché dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia . Il menzionato D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6-bis Codice dell’amministrazione digitale prevede l’istituzione, presso il Ministero per lo sviluppo economico, di un pubblico elenco denominato Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata INI-PEC delle imprese e dei professionisti. L’indirizzo di posta elettronica certificata è agganciato in maniera univoca al codice fiscale del titolare. In conclusione, oggi l’unico indirizzo di posta elettronica certificata rilevante ai fini processuali è quello che il difensore ha indicato, una volta per tutte, al Consiglio dell’ordine di appartenenza. In tal modo, l’art. 125 c.p.c. è stato allineato alla normativa generale in materia di domicilio digitale. Il difensore non ha più l’obbligo di indicare negli atti di parte l’indirizzo di posta elettronica certificata, nè la facoltà di indicare uno diverso da quello comunicato al Consiglio dell’ordine o di restringerne l’operatività alle sole comunicazioni di cancelleria. Il difensore deve indicare, piuttosto, il proprio codice fiscale ciò vale come criterio di univoca individuazione dell’utente SICID e consente, tramite il registro pubblico UNI-PEC, di risalire all’indirizzo di posta elettronica certificata. 1.6. Resta invece fermo il contenuto dell’art. 366 c.p.c., comma 2, che, limitatamente al giudizio di cassazione, che prevede la domiciliazione ex lege del difensore presso la cancelleria della Corte nel caso in cui non abbia eletto domicilio nel comune di Roma, nè abbia indicato il proprio indirizzo di posta elettronica. Poiché, oggi ciascun avvocato è munito di un proprio domicilio digitale , conoscibile da parte dei terzi attraverso la consultazione dell’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata INI-PEC e corrispondente all’indirizzo PEC che l’avvocato ha indicato al Consiglio dell’ordine di appartenenza e da questi è stato comunicato al Ministero della giustizia per l’inserimento nel registro generale degli indirizzi elettronici, tale disciplina implica un considerevole ridimensionamento dell’ambito applicativo del R.D. n. 37 del 1934, art. 82. Infatti, la domiciliazione ex lege presso la cancelleria è oggi prevista solamente nelle ipotesi in cui le comunicazioni o le notificazioni della cancelleria o delle parti private non possano farsi presso il domicilio telematico per causa imputabile al destinatario. Nelle restanti ipotesi, ovverosia quando l’indirizzo PEC è disponibile, è fatto espresso divieto di procedere a notificazioni o comunicazioni presso la cancelleria, a prescindere dall’elezione o meno di un domicilio fisico nel comune in cui ha sede l’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la causa. Ne consegue che cfr. Cass. n. 12876/2018 , la notificazione del decreto di fissazione dell’udienza camerale e della proposta del relatore è validamente effettuata all’indirizzo PEC del difensore di fiducia, quale risultante dal Reginde, indipendentemente dalla sua indicazione in atti, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies conv., con modif., in L. n. 221 del 2012, non potendosi configurare un diritto a ricevere le notificazioni esclusivamente presso il domiciliatario indicato, non potendo quindi avere portata idonea ad escludere tale notificazione la limitazione della parte dell’indicazione del detto indirizzo per le sole comunicazioni. 3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1173, 1362, 1363, 1365-1371, 2697, 2726, 2729 c.c. in relazione all’onere della prova circa i rapporti contrattuali tra le parti ed al presunto contratto d’opera intercorrente tra la B. e la Tes Soc. coop., con erronea applicazione dei principi sull’onere della prova, del pagamento e delle presunzioni. Contraddittorietà ed illogicità dell’assunto motivazionale posto a base della decisione. Travisamento del dato e del fatto processuale. Violazione dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione adottata in relazione al cd. contratto d’appalto d’opera. Violazione dell’art. 2724 c.c. per avere ritenuto il documento come principio di prova per l’ammissione del teste M.A. . Travisamento del dato processuale per non aver ravvisato l’esistenza di due contratti distinti, l’uno di fornitura materiale e progettazione tra Petra S.a.s. già ditta individuale Petra e B.R. , e l’altro, tra quest’ultima e la coop. Tes di manodopera. Si rileva che la soluzione del Tribunale ha negato inopinatamente l’esistenza del rapporto contrattuale diretto con la controricorrente, valorizzando un semplice foglio nemmeno dattiloscritto, con delle semplici annotazioni manoscritte di presunti pagamenti tra il legale rappresentante della Tes e la B. . È stata quindi fornita un’erronea interpretazione di tale contratto che non poteva quindi far ritenere l’esistenza di un contratto d’appalto comprensivo della manodopera oltre che della fornitura dei materiali. Il motivo è inammissibile in quanto mira a contestare la ricostruzione del fatto, come operata secondo l’apprezzamento riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità, anche perché supportato da congrua e logica motivazione. Ancorché nella premessa la ricorrente sottolinei come con il motivo non si intenda censurare l’apprezzamento in fatto del giudice di merito, ma piuttosto denunciare una falsa o erronea applicazione delle norme di diritto, le argomentazioni sviluppate nel mezzo denotano con evidenza come in realtà la critica attinga direttamente l’accertamento dei fatti come operato in sentenza. In primo luogo, va evidenziato il palese difetto del requisito di specificità del motivo ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, nella parte in cui si sottopone a critica la valutazione del giudice di merito quanto alla rilevanza del contratto d’appalto che il Tribunale ha ritenuto essere intervenuto tra la B. e la Tes, avendo la ricorrente omesso di ritrascriverne in ricorso il contenuto ovvero di riportarne le clausole più significative, al fine di consentire alla Corte, sulla base della lettura del ricorso, di poter apprezzare l’effettiva ricorrenza della violazione delle regole di ermeneutica contrattuale. Ne deriva che anche le violazioni delle norme di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c. appaiono meramente enunciate ma non adeguatamente specificate, in assenza della puntuale indicazione delle espressioni letterali che sarebbero state oggetto di erronea valutazione da parte del Tribunale ovvero dell’individuazione delle clausole che avrebbero deposto per una conclusione diversa da quella raggiunta dal Tribunale, facendo ricorso ad un’interpretazione di carattere sistematico. In realtà, come si ricava dalla lettura del provvedimento impugnato, la conclusione cui è pervenuto il giudice di merito consiste nell’affermare che emergeva la prova, sia per effetto del documento intervenuto tra la B. e la Tes, sia per effetto delle deposizioni testimoniali raccolte e precisamente quelle dei testi C.G. e M.A. , che l’appalto ricomprendeva nel corrispettivo sia la fornitura della manodopera che l’acquisto dei materiali necessari alla realizzazione dell’opus, e che il rapporto con la società ricorrente si era limitato alla sola visita presso i suoi locali al fine di permettere la scelta dei marmi da utilizzare, ma senza che potesse reputarsi intervenuto un rapporto contrattuale con la parte intimata, come peraltro evidenziato dal tenore della deposizione del teste M. , i cui passi salienti risultano fedelmente riportati in motivazione, al fine di corroborare l’assunto che la Tes era in realtà tenuta a corrispondere alla Petra il corrispettivo per la fornitura dei marmi e non già la B. . Le ulteriori violazioni di legge dedotte dalla ricorrente sono evidentemente ricollegate ad un’alternativa ricostruzione dei fatti di causa, e cioè all’affermazione, evidentemente smentita dal Tribunale alla luce dell’apprezzamento delle risultanze istruttorie, che la scelta dei materiali da parte della B. fosse risultata idonea a dare vita ad un autonomo rapporto contrattuale destinato ad affiancarsi a quello già esistente con la Tes, e limitato alla sola fornitura della manodopera. La critica però risente evidentemente della personale ricostruzione dei fatti di causa operata dalla ricorrente, in contrasto con quella invece offerta dalla sentenza gravata, frutto di una non sindacabile valutazione, e corroborata da logica e coerente motivazione, che sfugge alle critiche mosse, anche avuto riguardo alla novellata previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 vizio peraltro nella fattispecie non denunciabile attesa l’applicabilità dell’art. 348 ter c.p.c. , ed essendo escluso che la motivazione sia connotata da quelle insanabili anomalie e contraddizioni che secondo quanto previsto dalle Sezioni Unite Cass. n. 8053/2014 consentono la denuncia della violazione di cui all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Il motivo aspira quindi ad una diversa ricostruzione dei fatti di causa come depone il chiaro riferimento alla denuncia di un travisamento del dato processuale travisamento che invece non ricorre , per non essersi affermata l’esistenza di due contratti distinti, e non anche di uno solo, come invece opinato dal Tribunale. 4. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. per violazione o falsa applicazione dell’art. 246 c.p.c., anche in relazione all’art. 100 c.p.c. per avere il Tribunale ammesso il teste M.a. , che ha un interesse che potrebbe legittimare la sua partecipazione al giudizio, Violazione dell’art. 106 e 269 c.p.c. per non avere inteso il giudice di prime cure considerare il M. almeno come terzo chiamato in garanzia . Si deduce che il M. era procuratore ed amministratore della Tes, e ne era stata eccepita nella memoria istruttoria l’incapacità a deporre, in quanto soggetto che avrebbe potuto intervenire nello stesso processo. Di tale eccezione era stato dato atto anche nell’ordinanza di ammissione della prova testimoniale, sebbene fosse stata disattesa. Poiché il M. si pone come possibile controparte nel giudizio non poteva essere sentito come teste, così che la sua indicazione come teste equivale ad una chiamata in garanzia da parte della B. . Il motivo deve essere disatteso. Premessa l’infondatezza della tesi di parte ricorrente secondo cui l’indicazione del M. come teste equivarrebbe ad una chiamata in garanzia, mancando una domanda siffatta nè avendo la ricorrente inteso estendere a questi la domanda proposta con il ricorso monitorio il che quindi denota l’inconsistenza della censura riferita alla violazione degli artt. 106 e 269 c.p.c. , del pari priva di fondamento è la denuncia della violazione dell’art. 246 c.p.c. La giurisprudenza di questa Corte ha reiteratamente affermato che Cass. n. 23896/2016 qualora, in sede di ricorso per cassazione, venga dedotta l’omessa motivazione del giudice d’appello sull’eccezione di nullità della prova testimoniale nella specie, per incapacità ex art. 246 c.p.c. , il ricorrente ha l’onere, anche in virtù dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di indicare che detta eccezione è stata sollevata tempestivamente ai sensi dell’art. 157 c.p.c., comma 2, subito dopo l’assunzione della prova e, se disattesa, riproposta in sede di precisazione delle conclusioni ed in appello ex art. 346 c.p.c., dovendo, in mancanza, ritenersi irrituale la relativa eccezione e pertanto sanata la nullità, avendo la stessa carattere relativo conf. Cass. n. 10120/2019 Cass. S.U. n. 21670/2013 Cass. n. 6555/2005 . Peraltro, è stato precisato che Cass. n. 18036/2014 poiché l’eccezione di nullità della testimonianza per incapacità a deporre deve essere sollevata immediatamente dopo l’escussione del teste ovvero, in caso di assenza del procuratore della parte all’incombente istruttorio, entro la successiva udienza, restando, in mancanza, sanata, non assume rilievo che la parte abbia preventivamente formulato, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., un’eccezione d’incapacità a testimoniare, che non include l’eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione conf. Cass. n. 14276/2017 . Il mezzo di impugnazione si limita semplicemente a riferire di avere sollevato l’eccezione di incapacità del teste indicato nelle memorie istruttorie di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, circostanza di cui dà atto anche il provvedimento di ammissione delle prove , ma omette di riferire se tale eccezione sia stata poi reiterata subito dopo l’escussione del teste ed in caso positivo, se sia stata anche reiterata in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado, di guisa che in assenza di tale riproposizione, l’avvenuta sanatoria non può ritenersi suscettibile di essere poi messa in discussione per effetto della successiva deduzione dell’incapacità come motivo di appello. 5. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 246 c.p.c. per l’erronea interpretazione delle prove testimoniali circa l’attendibilità e la veridicità della fonte e per avere scelto a priori una versione dei fatti, limitandosi a ricercare e selezionare gli elementi di prova che la confermano, trascurando tutti gli altri. Violazione dell’obbligo di motivare. Valutazione non sorretta da motivazione congrua ovvero motivazione che presenta vizi logici e giuridici. Erroneo valore probatorio, con errata applicazione delle norme, attribuito al documento proveniente dalla parte annotazione dei pagamenti ovvero contratto d’appalto d’opera che ha voglia di giovarsene e che non può costituire prova in favore della stessa, nè determina inversione dell’onere probatorio nel caso in cui la parte contro la quale è prodotto Petra S.a.s. contesti il diritto, anche relativamente alla sua entità. . Si contesta la valutazione di attendibilità del teste e si critica l’apprezzamento delle prove operato dal giudice di merito che appare soggettiva ed arbitraria, mancando una motivazione puntuale e completa su tutti gli elementi di prova. Anche tale motivo è inammissibile in quanto attinge direttamente l’apprezzamento e la valutazione delle risultanze istruttorie come operati dal giudice di merito nell’adempimento del compito esclusivo ad esso riservato. Nel richiamare le considerazioni già sviluppate in occasione della disamina del primo motivo di ricorso quanto alla valutazione del contratto intercorso tra la B. e la Tes ed all’inammissibilità di accedere alla diversa ricostruzione in fatto dei rapporti contrattuali intervenuti tra le parti, va qui ricordato che secondo la giurisprudenza di questa Corte Cass. n. 21239/2019 se è vero che la capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste, operando le stesse su piani diversi, atteso che l’una, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., dipende dalla presenza di un interesse giuridico non di mero fatto che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc. e di carattere soggettivo la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite , è altrettanto consolidato il principio per cui Cass. n. 21187/2019 sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento. È, pertanto, insindacabile, in sede di legittimità, il peso probatorio di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice. Infatti, la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti tale attività selettiva si estende all’effettiva idoneità del teste a riferire la verità, in quanto determinante a fornire il convincimento sull’efficacia dimostrativa della fonte-mezzo di prova Cass. n. 16467/2017 Cass. n. 16056/2016 . A seguito della novella del 2012, le Sezioni Unite Cass. 8054/2014 hanno altresì sottolineato che L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie . La sentenza impugnata ha adeguatamente motivato circa le ragioni che hanno sorretto il proprio convincimento, avendo evidenziato quali fossero gli elementi probatori che confortano la conclusione raggiunta avendo quindi, quanto meno in via implicita, escluso che la deposizioni valorizzate fossero connotate da inattendibilità, essendo invece di converso del tutto generica la critica mossa dalla ricorrente che denuncia anche una mancata considerazione di contrastanti elementi probatori nemmeno puntualmente indicati. 6. Il quarto motivo denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., in quanto il giudice del merito non ha fornito alcuna motivazione in merito alla sussistenza dei presupposti per la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 1. Insussistenza dei presupposti applicativi voluti dalla norma. Omessa e/o insufficiente e/o contraddittorietà dell’apparato motivazionale. Si assume che la condanna della ricorrente per responsabilità processuale aggravata sarebbe del tutto immotivata, essendo del tutto carente l’esplicitazione delle ragioni che consentono di ravvisare il dolo o la colpa grave della ricorrente. Il motivo è inammissibile. Il Tribunale ha ravvisato la responsabilità della ricorrente sostenendo che la proposizione della domanda monitoria si connotava come gravemente azzardata, essendo l’opposto a conoscenza della vicenda contrattuale realmente intercorsa tra le parti, e ciò sul presupposti che dalle prove raccolte emergeva in maniera evidente l’inesistenza di un rapporto contrattuale diretto con la B. , e la consapevolezza da parte della Petra che l’unico soggetto tenuto a versare il corrispettivo per il materiale fosse la società appaltatrice. Rileva il Collegio che la motivazione in esame denota una chiara consapevolezza della necessità di ancorare la responsabilità ex art. 96 c.p.c. ad una condotta processuale connotata da mala fede, dolo ovvero colpa grave, avendola in concreto riscontrata nel comportamento tenuto dalla ricorrente. La giurisprudenza di questa Corte ha ribadito che Cass. n. 19298/2016 in materia di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., ai fini della condanna al risarcimento dei danni, l’accertamento dei requisiti costituiti dall’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, ovvero dal difetto della normale prudenza, implica un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, salvo - per i ricorsi proposti avverso sentenze depositate prima dell’11.9.2012 - il controllo di sufficienza della motivazione in termini circa la riserva al giudice di merito del apprezzamento dei presupposti della responsabilità aggravate, Cass. n. 327/2010 Cass. n. 13071/2003 . La censura proposta non può avere seguito. Infatti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo introdotto dalla L. n. 134 del 2012, il vizio denunciabile è limitato all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione fra le parti, essendo stata così sostituita la precedente formulazione omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio . La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata a prescindere dal confronto con le risultanze processuali . Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico , nella motivazione apparente , nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile , esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione cfr. S.U. 8053/2014 . Pertanto, non possono essere sollevate doglianze per censurare, ai sensi dell’art. 360, n. 5 citato, la correttezza logica del percorso argomentativo della sentenza, a meno che non sia denunciato come incomprensibile il ragionamento ovvero che la contraddittorietà delle argomentazioni si risolva nella assenza o apparenza della motivazione in tal caso, il vizio è deducibile quale violazione della legge processuale ex art. 132 c.p.c. . È quindi evidente come sia inammissibile la denuncia di vizi della motivazione con il richiamo alla formulazione non più applicabile di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, ma ancor più a monte risulta inammissibile, per la richiamata applicabilità dell’art. 348 ter c.p.c. la denuncia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, anche nella sua novellata formulazione. Quanto invece alla critica anche investe la determinazione del quantum, che il Tribunale ha effettuato in misura pari al doppio delle spese di lite, ritenuto rispondente ad un criterio equitativo, deve ritenersi che trattasi di liquidazione effettuata avvalendosi dei criteri dettati dall’art. 96 c.p.c., comma 3 quale introdotto dalla L. n. 69 del 2009, e quindi applicabile alla fattispecie ratione temporis, avendo questa Corte affermato che Cass. n. 21570/2012 l’art. 96 c.p.c., comma 3 aggiunto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, disponendo che il soccombente può essere condannato a pagare alla controparte una somma equitativamente determinata , non fissa alcun limite quantitativo, nè massimo, nè minimo, sicché la determinazione giudiziale deve solo osservare il criterio equitativo, potendo essere calibrata anche sull’importo delle spese processuali o su un loro multiplo, con l’unico limite della ragionevolezza per la legittimità costituzionale di tale previsione, nella parte in cui non predetermina un minimo o un massimo per la somma. dovuta a titolo risarcitorio, si veda anche Corte Cost. n. 139/2019 . 7. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente alle spese del presente giudizio, che si liquidano come da dispositivo. 8. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013 , che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 - della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.