Legge Pinto: l’improponibilità della domanda di indennizzo per mancata presentazione dell’istanza di prelievo è incostituzionale

La sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo ex Legge Pinto per mancata presentazione dell’istanza di prelievo prevista dall’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112/2008, convertito nella l. n. 133/2008 e successive modifiche, non è in sintonia né con l’obiettivo del contenimento della durata del processo né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata.

Questa la decisione della Cassazione Civile, sez. VI, n. 19734, depositata il 22 settembre 2020. La sentenza in commento trae origine dal ricorso depositato avanti alla Corte di Appello di Perugia, ai sensi della l. n. 89/2001, al fine di ottenere la condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento dell’ indennizzo per l’irragionevole durata di un giudizio amministrativo introdotto avanti al TAR del Lazio nel 1994 e definito con sentenza solo nel 2011. La Corte di Appello ha rigettato la domanda per improponibilità ex art. 54 del d.l. n. 112/2008 per essere stata la domanda di indennizzo proposta senza che nel giudizio amministrativo presupposto fosse stata formulata un’ istanza di prelievo finalizzata a sollecitare” il Giudice affinché anticipi l’udienza di discussione del ricorso, n.d.r. . Il ricorrente soccombente ha impugnato la decisione dei Giudici di merito censurando, tra l’altro, la violazione del combinato disposto degli artt. 111 e 117 della Costituzione e degli artt. 1, 6 e 13 della CEDU per essere stata applicata la normativa di cui all’art. 54 del d.l. n. 112/2008 ai giudizi amministrativi – costituenti giudizio presupposto ai fini della domanda di equa riparazione – iniziati prima della sua entrata in vigore, ponendo anche la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 54 nella parte in cui subordina la possibilità di chiedere l’equa riparazione alla presentazione dell’istanza di prelievo. Accogliendo il ricorso, gli Ermellini hanno dato atto dell’intervenuta pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 34/2019 , dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112/2008. Con tale decisione, la Corte Costituzionale ha ritenuto in contrasto con la CEDU – e, quindi, con la Costituzione – la previsione della subordinazione della proponibilità della domanda ex Legge Pinto alla circostanza che nel giudizio amministrativo presupposto fosse stata presentata un’istanza di prelievo. Peraltro, la Consulta aveva già preannunciato, con una precedente decisione del 2009, che una prassi interpretativa e applicativa dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112/2008 – nel testo antecedente alla modifica di cui al d.lgs. n. 104/2010 – avrebbe privato sistematicamente alcune categorie di ricorrenti dalla possibilità di ottenere una riparazione adeguata e sufficiente. Tra l’altro, la Corte EDU ha affrontato, nel 2016, il problema dell’effettività del rimedio nazionale ex l. n. 89/2001, ritenendo che la procedura italiana per lamentare la durata eccessiva di un giudizio dinanzi al giudice amministrativo, risultante dal combinato disposto della Legge Pinto con la disposizione stessa, non potesse essere considerata un rimedio effettivo ai sensi dell’art. 13 della CEDU. Per tale ragione la Corte Costituzionale ha ritenuto che la norma in esame si pone in contrasto con la costante giurisprudenza della Corte EDU, atteso che l’istanza di prelievo non costituisce un adempimento necessario, ma una mera facoltà del ricorrente, con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera prenotazione della decisione ”, risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia né con l’obiettivo del contenimento della durata del processo, né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 4 marzo – 22 settembre 2020, n. 19734 Presidente Lombardo – Relatore Falaschi Fatti di causa e ragioni della decisione Con ricorso depositato il 10 marzo 2015 dinanzi alla Corte di appello di Perugia, a seguito di riassunzione per essersi la Corte di appello di Roma dichiarata incompetente, C.E. , chiedeva, ai sensi della L. n. 89 del 2001, la condanna del Ministero dell’economia e delle finanze al pagamento dell’indennizzo per la irragionevole durata di un giudizio amministrativo introdotto davanti al TAR Lazio il 30.06.1994 e definito con sentenza depositata il 31.01.2011. Con decreto del 10.07.2018, la Corte territoriale rigettava la domanda per improponibilità ai sensi del D.L. n. 112 del 2008, art. 54 come modificato dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133 e, successivamente, dal D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 con decorrenza dal 16 settembre 2010 , per essere stata la domanda di indennizzo proposta dopo il 16.09.2010 senza che nel giudizio amministrativo presupposto fosse stata formulata istanza di prelievo. Avverso il decreto della Corte di appello di Perugia propone ricorso per cassazione il C. , fondato su due motivi, cui ha resistito il Ministero dell’economia e delle finanze con controricorso. Su proposta del relatore, che riteneva che il ricorso potesse essere accolto per essere fondato il primo motivo, assorbito il restante, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5 , il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio. In prossimità dell’adunanza camerale il ricorrente ha depositato memoria illustrativa. Atteso che - con il primo ed il secondo motivo - il cui esame va affrontato in modo congiunto per la unitarietà della questione posta, seppure prospettata sotto diversi profili - si deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 11 preleggi, degli artt. 3 e 24 Cost., del combinato disposto degli artt. 111 e 117 Cost., degli artt. 1, 6 par. 1 e 13 CEDU, della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1, della L. n. 89 del 2001, art. 6, comma 2 ter norma transitoria introdotto con la L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 777, lett. m per essere stata applicata la normativa di cui al D.L. n. 112 del 2008, art. 54 ai giudizi amministrativi - costituenti giudizio presupposto ai fini della domanda di equa riparazione - iniziati prima della sua entrata in vigore, ponendo a tal fine anche la questione di legittimità costituzionale del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54, comma 2, nella parte in cui subordina la possibilità di chiedere l’equa riparazione alla presentazione di istanza di prelievo. I motivi sono fondati e con essi il ricorso. Nelle more del presente giudizio di legittimità, infatti, è stata pubblicata la sentenza della Corte costituzionale n. 34 del 6 marzo 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 112 del 2008 e successive modifiche, art. 54, comma 2. In proposito è opportuno evidenziare che - ancorché il dispositivo della suddetta sentenza della Corte costituzionale faccia testuale riferimento soltanto al D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54, comma 2, convertito, con modificazioni, nella L. 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 3, comma 23, dell’Allegato 4 al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 e dal D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195, art. 1, comma 3, lett. a , n. 6, - la motivazione della stessa sentenza non lascia dubbi sul fatto che la declaratoria di illegittimità costituzionale investe il nucleo originario del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54, comma 2, e non soltanto le aggiunte e modificazioni apportate al testo della disposizione dall’art. 3, comma 23, dell’Allegato 4 al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 e dal D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195, art. 1, comma 3, lett. a , n. 6, per un precedente in cui questa Corte ha ritenuto caducato dalla Corte costituzionale il D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, nell’ambito di un giudizio di equa riparazione introdotto nel 2009, nel quale tale articolo era quindi applicabile nel testo anteriore alle modifiche recate dal D.Lgs. n. 104 del 2010, vedi Cass., Sez. II, ord. n. 21504/19 . La Corte costituzionale ha infatti ritenuto in contrasto con la Carta EDU, e quindi con la Costituzione, la previsione stessa della subordinazione della proponibilità della domanda ex lege Pinto alla circostanza che nel giudizio amministrativo presupposte fosse stata presentata una istanza di prelievo. La Consulta, nel richiamare la costante giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui i rimedi preventivi, volti ad evitare che la durata del procedimento diventi eccessivamente lunga, sono ammissibili, o addirittura preferibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma ciò solo se effettivi e, cioè, nella misura in cui velocizzino la decisione da parte del giudice competente così, in particolare, Corte EDU, grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia , ha ricordato come già con la sentenza del 2 giugno 2009, Daddi contro Italia, detta Corte, pur dichiarando il ricorso inammissibile per il mancato esperimento del rimedio giurisdizionale interno, aveva preannunciato che una prassi interpretativa ed applicativa del D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, nel testo antecedente alla modifica di cui al D.Lgs. n. 104 del 2010 - che avesse avuto come effetto quello di opporsi all’ammissibilità dei ricorsi ex lege Pinto relativi alla durata di un processo amministrativo conclusosi prima del 25 giugno 2008 , per il solo fatto della mancata presentazione di un’istanza di prelievo - avrebbe privato sistematicamente alcune categorie di ricorrenti della possibilità di ottenere una riparazione adeguata e sufficiente. Ha altresì rammentato che, più di recente, con la sentenza 22 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia, la Corte EDU aveva affrontato il problema dell’effettività del rimedio nazionale ex lege n. 89 del 2001, soggetto alla condizione di proponibilità del D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, ed esaminando diacronicamente tale disposizione, fino al testo scaturito dalle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 104 del 2010, aveva conclusivamente ritenuto che la procedura nazionale per lamentare la durata eccessiva di un giudizio dinanzi al giudice amministrativo, risultante dal combinato disposto della legge Pinto con la disposizione stessa, non potesse essere considerata un rimedio effettivo ai sensi dell’art. 13 della CEDU. Ciò soprattutto sul rilievo che il sistema giuridico nazionale non prevedeva alcuna condizione volta a garantire l’esame dell’istanza di prelievo. Per l’effetto, la Corte costituzionale ha ritenuto che la norma in esame si pone in contrasto con la costante giurisprudenza della Corte EDU , atteso che l’istanza di prelievo, cui fa riferimento il D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, prima della rimodulazione, come rimedio preventivo, operatane dalla L. n. 208 del 2015 , non costituisce un adempimento necessario ma una mera facoltà del ricorrente ex art. 71, comma 2, del codice del processo amministrativo, la parte può segnalare al giudice l’urgenza del ricorso , con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera prenotazione della decisione che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio , risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia nè con l’obiettivo del contenimento della durata del processo nè con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata. La sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma che subordinava la proponibilità della domanda di equo indennizzo alla necessaria presentazione dell’istanza di prelievo per contrasto con i parametri convenzionali della CEDU art. 6 par. 1 , la cui violazione comporta, appunto, per interposizione, quella dell’art. 117 Cost., comma 1, impone quindi l’accoglimento dei motivi di ricorso, la cui ratio decidendi risiede proprio nell’applicazione di tale norma. Alla cassazione consegue il rinvio per nuovo esame alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione. Giova peraltro precisare che il giudice di rinvio dovrà tenere conto che il processo presupposto - come rilevato dallo stesso decreto impugnato pag. 1, terzultimo rigo del decreto - è stato definito, nel grado, prima del 31 ottobre 2016, con la conseguenza che la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sarebbe rilevante nel presente giudizio. La Corte costituzionale ha infatti chiarito, nella stessa sentenza n. 34 del 2019, che la disciplina intertemporale dettata dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 777, lett. a , b ed m , impone di distinguere tra i processi che siano stati definiti, nel grado, entro il 31 ottobre 2016 e quelli che a tale data fossero ancora pendenti. Solo per questi ultimi gli effetti di improponibilità derivanti dalla normativa vigente prima dell’entrata in vigore della L. n. 208 del 2015, possono ritenersi sterilizzati , giacché per i medesimi l’ammissibilità della domanda di equa riparazione per l’eccessiva durata di processi amministrativi risulta ora condizionata dalla intervenuta proposizione del rimedio preventivo dell’istanza di prelievo almeno sei mesi prima della scadenza del termine di ragionevole durata del processo. Il Giudice delle leggi ha infatti sottolineato come il tenore letterale della disposizione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 6, comma 2-bis, introdotto, insieme al comma 2-ter dello stesso articolo, dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 777, lett. m ne implichi chiaramente l’applicabilità solo pro futuro, chiarendo che una tale condizione - riscritta ora nei più incisivi termini di un onere di diligenza posto a carico della parte chiamata a cooperare con il giudice al fine di evitare il superamento del termine di ragionevole durata del processo - non può che riferirsi a processi ancora pendenti, la cui ragionevole durata si protragga per il tempo necessario a consentire alle parti di proporre l’istanza di prelievo nel termine introdotto dalla L. n. 208 del 2015. Il che, appunto, spiega perché, ai sensi della L. n. 89 del 2001, stesso art. 6, successivo comma 2-ter la così riformulata condizione di proponibilità si applichi solo nei processi amministrativi che eccedano nel grado il rispettivo termine di ragionevole durata al 31 ottobre 2016, in data, quindi, di oltre sei mesi successiva a quella 1 gennaio 2016 di entrata in vigore della L. n. 208 del 2015. In conclusione, la L. n. 89 del 2001, nuovo art. 1-ter si applica in relazione a processi presupposti ancora pendenti nel grado alla data del 31 ottobre 2016, mentre quelli già definiti a tale data - come quello di specie ricadono, ratione temporis, sotto la previgente disciplina della improponibilità, dettata dal D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, e successive modificazioni, caducata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 34 del 2019. Al giudice del rinvio è demandata anche la liquidazione delle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso cassa la decisione impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Perugia in diversa composizione.