L’integrazione in Italia non è elemento sufficiente per il permesso di soggiorno per motivi umanitari

In tema di permesso di soggiorno per motivi umanitari, la considerazione del solo dato relativo al livello di integrazione del richiedente in Italia non è sufficiente per il riconoscimento della protezione. È difatti necessario prendere in esame anche la condizione di specifica compromissione dei suoi diritti inviolabili, cui il richiedente sarebbe esposto nel caso di rimpatrio.

È il principio affermato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 19520/20, depositata il 18 settembre. Un cittadino senegalese proponeva ricorso dinanzi al Tribunale di Milano avverso il rigetto da parte della Commissione territoriale della richiesta di riconoscimento della protezione internazionale . Il Tribunale confermava la decisione ma la Corte d’Appello accoglieva parzialmente le istanze del cittadino straniero riconoscendo il diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell’art. 5 d.lgs. n. 286/1998 in virtù della dimostrazione della sussistenza di una stabile attività lavorativa in Italia. Il Ministero dell’Interno ha proposto ricorso in Cassazione. Nelle more del procedimento sono intervenute le Sezioni Unite con la sentenza n. 29459/19 che ha chiarito la natura e i presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari art. 5, comma 6, d.lgs. n. 286/1998, come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. b , n. 2, d.l. n. 113/2018, conv. in l. n. 132/2018 . La pronuncia impugnata, avendo riconosciuto il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base del solo svolgimento di attività lavorativa, ha violato i principi affermati nell’arresto giurisprudenziale citato. Difatti, il mero dato relativo allo svolgimento di un’attività lavorativa non è sufficiente ex se per qualificare una persona come vulnerabile ” e di conseguenza per concederle quel tipo di protezione. Tale istituto è caratterizzato dell’ulteriore requisito del rischio che, in caso di rientro in patria del richiedente, i suoi diritti fondamentali della persona subiscano una grave compromissione . Nella valutazione di tale requisito il giudice deve osservare due limiti e cioè da un lato, non può limitarsi a prendere in esame soltanto il livello di integrazione conseguito dal richiedente in Italia, per di più desumendolo soltanto da un elemento di per sé non decisivo, quale lo svolgimento di attività lavorativa dall’altro, non può accordare il permesso di soggiorno per motivi umanitari per il solo fatto che, nel paese di provenienza del richiedente, sussista una generale violazione dei diritti umani, perché così facendo si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sé inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria . In conclusione, la Corte accoglie il ricorso e cassa la pronuncia impugnata con rinvio al Giudice di merito che dovrà attenersi al principio secondo cui non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al d.lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente , il suo livello di integrazione in Italia, ma è necessario prendere in esame anche la condizione di specifica compromissione dei suoi diritti inviolabili, cui il richiedente sarebbe esposto nel caso di rimpatrio .

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 17 luglio – 18 settembre 2020, n. 19520 Presidente Tria – Relatore Rossetti Fatti di causa 1. D.M. , cittadino senegalese, chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4 a in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 7 e ss. b in via subordinata, il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14 c in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6, nel testo applicabile ratione temporis . 2. La Commissione Territoriale rigettò l’istanza. Avverso tale provvedimento D.M. propose, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35 ricorso dinanzi al Tribunale di Milano, che la rigettò con ordinanza 8.12.2015. Tale ordinanza, appellata dal soccombente, venne parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Milano con sentenza 18.12.2017. Quest’ultima ritenne che l’appellante, avendo dimostrato di svolgere un lavoro, protrattosi almeno dal maggio del 2016 al dicembre del 2017, ritenne sussistente per questa ragione il diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5. 4. Il provvedimento della Corte d’appello è stato impugnato per cassazione dal Ministero dell’interno con ricorso fondato su un motivo. La parte intimata ha resistito con controricorso. Con ordinanza interlocutoria 18.6.2019’ n. 16345 il Collegio giudicante, rilevato che la questione di diritto prospettata dalla parte ricorrente era stata già in precedenza devoluta all’esame delle Sezioni Unite, rinviò la causa a nuovo ruolo, in attesa della decisione delle Sezioni Unite. Depositata quest’ultima Cass. sez. un. 13.11.2019 n. 29459 , il presente ricorso è stato fissato e discusso nell’odierna adunanza camerale. Ragioni della decisione 1. Con l’unico motivo di ricorso la difesa erariale lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32. Nell’illustrazione del motivo si sostiene che erroneamente la corte d’appello ha ritenuto che gli sforzi di inserimento sociale e lavorativo compiuti dal richiedente asilo, e la conseguita autosufficienza economica, costituiscano di per sé presupposti sufficienti a rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Quest’ultimo, prosegue il ricorso, può essere accordato soltanto ove ricorrano due presupposti alternativi o la sussistenza, nel paese di origine, di una effettiva compromissione dell’esercizio dei diritti fondamentali anche non integrante gli estremi della persecuzione idonea a giustificare la concessione dello status di rifugiato oppure, in alternativa, la mancanza delle condizioni minime per condurre un’esistenza dignitosa, quali ad esempio un grave rischio per la salute, la mancanza di beni di prima necessità, siccità, carestia, povertà inemendabile. Aggiunge l’amministrazione ricorrente che le suddette condizioni, tuttavia, non devono essere accertate genericamente con riferimento alla situazione complessiva del paese d’origine del richiedente, ma devono essere valutate in riferimento alla condizione personale di quest’ultimo. Dopo aver esposto ciò in punto di diritto, il ricorso prosegue osservando che nel caso di specie la corte d’appello ha accolto il gravame, accordando all’appellante permesso di soggiorno per motivi umanitari, senza avere preso in esame le condizioni di partenza del paese di origine, e soprattutto senza correlarle alla storia personale del richiedente. 2. Il controricorrente ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, sul presupposto che con esso sia stata censurata nella presente sede di legittimità una valutazione di fatto, riservata al giudice di merito. L’eccezione è infondata. Non vi è dubbio che lo stabilire se una persona si trovi o non si trovi in una condizione di vulnerabilità , per i fini di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, costituisca un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità. Per contro, sindacabile in sede di legittimità è l’eventuale error iuris consistente nella erronea individuazione dei presupposti di diritto richiesti dalla legge per la concessione del suddetto permesso di soggiorno. Pertanto la censura con la quale si prospetta in sede di legittimità che il giudice di merito abbia accordato o negato il permesso di soggiorno per motivi umanitari, senza previamente accertare la sussistenza dei presupposti legali, costituisce una tipica denuncia di una violazione di legge, ex art. 360 c.p.c., n. 3. 3. Nel merito il motivo è fondato. Le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza 13.11.2019 n. 29459, hanno stabilito quale sia il fondamento, la natura ed i presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, previsto dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, nel testo applicabile ratione temporis, oggi abrogato e sostituito dal D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, art. 1, comma 1, lett. b , n. 2 , convertito, con modificazioni, dalla L. 1 dicembre 2018, n. 132 . Tale statuizioni possono così riassumersi a il permesso di soggiorno per motivi umanitari è espressione del diritto di asilo costituzionalmente garantito dall’art. 10 Cost., comma 3, così il § 6.1. di Motivi della decisione della sentenza sopra ricordata b il permesso di soggiorno per motivi umanitari non è imposto dalla legislazione comunitaria e non può interferire con le forme di protezione internazionale da quella previste esso è dunque alternativo a queste ultime, nel senso che quando ricorrano i presupposti per la concessione dello status di rifugiato o per la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 non vi sarà spazio per la protezione umanitaria, e viceversa ibidem, § 9.2 c presupposto del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari è il rischio che il rimpatrio del richiedente possa determinare una compromissione dei suoi diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale ibidem, § 10.1 d nel valutare la sussistenza di questo rischio, il giudice di merito tuttavia deve osservare due limiti d’ da un lato, non può limitarsi a prendere in esame soltanto il livello di integrazione conseguito dal richiedente in Italia, per di più desumendolo soltanto da un elemento di per sé non decisivo, quale lo svolgimento di attività lavorativa d dall’altro, non può accordare il permesso di soggiorno per motivi umanitari per il solo fatto che, nel paese di provenienza del richiedente, sussista una generale violazione dei diritti umani, perché così facendo si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sé inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria ibidem, § 10.2 . 3.1. La sentenza impugnata ha violato i suddetti principi, nella parte in cui ha accordato all’appellante il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base della sola considerazione che questi avesse fornito adeguata prova del suo inserimento sul territorio italiano . Infatti, alla luce dei principi esposti nel § precedente, deve affermarsi che il solo svolgimento di attività lavorativa o di volontariato non basta ex se per qualificare una persona come vulnerabile , e di conseguenza per concederle il permesso di soggiorno per motivi umanitari. È sempre necessario, invece, l’accertamento in concreto dell’ulteriore elemento che caratterizza questo tipo di protezione e cioè il rischio, nel caso di rientro del richiedente nel suo Paese di provenienza, di una grave compromissione dei suoi diritti fondamentali della persona. Accordare invece il permesso di soggiorno per motivi umanitari trascurando questo elemento, e sulla base della sola circostanza che il richiedente svolga un lavoro in Italia ed a fortiori sulla base del solo rilievo che il richiedente abbia in animo di svolgerlo , significherebbe attribuire rilievo ad una semplice integrazione di tipo economico, per la cui realizzazione l’ordinamento prevede altri strumenti ed altri principi la domanda da parte del datore di lavoro nell’ambito delle c.d. quote o flussi prestabiliti di lavoratori . 3.2. Manifestamente infondate, per contro, sono le deduzioni con cui il controricorrente ha inteso negare la sussistenza, nella sentenza impugnata, dell’errore di diritto denunciato dalla amministrazione ricorrente. Sostiene infatti il controricorrente che la sentenza impugnata sarebbe corretta perché il costringere al rimpatrio una persona che abbia avviato un positivo percorso di sviluppo psico-sociale costituisce una ingerenza della sua vita privata, e quindi la lesione di un diritto della persona garantito dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. A tale deduzione, tuttavia, è agevole replicare che a la forzosa interruzione d’una attività lavorativa non costituisce alcuna violazione del diritto alla vita privata, quando sia legittima e legittimamente adottata a tutela di superiori interessi come ad esempio nel caso di licenziamento per inadempimento, detenzione, profilassi delle malattie infettive b lo Stato ha il dovere di espellere le persone irregolarmente soggiornanti sul suo territorio, imposto dall’art. 6, comma 1, della Direttiva 2008/115/UE, e tale dovere rientra tra le deroghe previste dall’art. 8 CEDU, in presenza delle quali è consentito il sacrificio dei diritti ivi previsti. Tali principi sono già stati ripetutamente affermati da questa Corte, e da ultimo da Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 17072 del 28/06/2018, Rv. 649648 - 01, la quale ha ribadito che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici, quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale . 4. La sentenza va dunque cassata con rinvio. Il giudice del rinvio tornerà ad esaminare l’appello applicando il seguente principio di diritto non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, ma è necessario prendere in esame anche la condizione di specifica compromissione dei suoi diritti inviolabili, cui il richiedente sarebbe esposto nel caso di rimpatrio . 4. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio. P.Q.M. - accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.