Non può essere accettata la richiesta di protezione internazionale del cittadino bengalese che non allega rischi specifici

Avendo il ricorrente invocato il timore di essere ucciso da malviventi intenzionati ad estorcergli del denaro, non possono essere ritenuti sussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato in quanto i motivi di cui all’art. 8 d.lgs. n. 251/2007 non contemplano episodi riconducibili a criminalità comune.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 16969/20, depositata il 12 agosto. La pronuncia origina dalla richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari avanzata da un cittadino del Bangladesh. Il Tribunale di Bari rigettava la domanda per insussistenza di atti di persecuzione riconducibili all’art. 7 d.lgs. n. 251/2007 e di circostanze idonee a giustificare il timore di un danno grave ex art. 14, lett. a e b , evidenziandola genericità, frammentarietà e incongruenza del racconto del richiedente. Il richiedente ha impugnato la decisione dinanzi alla Corte di legittimità. Il ricorso risulta infondato. Il Tribunale ha infatti correttamente escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato in quanto, avendo il ricorrente invocato il timore di essere ucciso da malviventi intenzionati ad estorcergli del denaro, non possono essere ricondotti ai motivi di cui all’art. 8 d.lgs. n. 251/2007 episodi riconducibili a criminalità comune. Fermo restando che per la misura in parola non occorre che la persecuzione sia ascrivibile allo Stato o a organizzazioni che lo controllano, gli atti di persecuzione o la mancanza di protezione in tanto possono giustificare il riconoscimento dello status di rifugiato in quanto rivelino un intento intrinsecamente discriminatorio, per essere fondati su motivazioni razziali, religiose, nazionali, sociali o politiche, nella specie neppure dedotte. Quanto alla lamentata omessa valutazione della documentazione prodotta a sostegno della tesi del rischio grave per le tensioni politiche in atto in Bangladesh, il Collegio ricorda che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del d.lgs. n. 251/2007, art. 14, lett. c , la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE cfr. sent. 30/01/2014, in causa C-285/12, Diakitè , nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente . Tali requisiti non sussistono nel caso di specie posto che le tensioni politiche in Bangladesh non si estendono all’intera popolazione, ma riguardano i soli partiti coinvolti. Infine, quanto al rigetto della richiesta di protezione umanitaria , il Tribunale ha correttamente applicato il principio secondo cui l’applicazione della misura, avente carattere atipico e residuale, richiede una valutazione comparativa specifica, attraverso il raffronto tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e la situazione soggettiva ed oggettiva in cui si trovava nel Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale . Per questi motivi, il ricorso non può che essere rigettato.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 1 luglio – 12 agosto 2020, n. 16969 Presidente Genovese – Relatore Mercolino Fatti di causa 1. Con decreto del 17 dicembre 2018, il Tribunale di Bari ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta da M.H. , cittadino del Bangladesh, revocando l’ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato. A fondamento della decisione, il Tribunale ha innanzitutto escluso la necessità dell’audizione personale del ricorrente, dando atto della produzione in giudizio del verbale del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, recante dichiarazioni sufficientemente ampie ed adeguatamente illustrative dei motivi dell’istanza. Rilevato inoltre che il ricorrente aveva riferito di essere espatriato per paura di essere ucciso da malviventi che intendevano estorcergli del denaro, ha ritenuto che da tali dichiarazioni non emergessero atti di persecuzione riconducibili al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 7, nè circostanze idonee a giustificare il timore di un danno grave, nel senso previsto dall’art. 14, lett. a e b del medesimo decreto, evidenziando la genericità, la frammentarietà e l’incongruenza del racconto, ed osservando comunque che l’istante avrebbe dovuto provare di aver vanamente richiesto protezione all’autorità di polizia dello Stato di provenienza. Pur rilevando che nel Bangladesh sussiste una situazione di pericolo e disordine legata alle tensioni politiche tra i sostenitori del partito di governo e quelli dell’opposizione, ha escluso che la stessa comporti l’esposizione a rischio dell’intera popolazione, osservando che il ricorrente non aveva neppure dedotto il fondato timore di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti per motivi politici. Ha ritenuto infine insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, rilevando che il ricorrente non aveva fatto valere una lesione di diritti fondamentali o una specifica situazione di vulnerabilità personale, avendo allegato esclusivamente l’avvenuta stipulazione di un contratto di lavoro a tempo determinato, dalla durata insufficiente a comprovare uno stabile inserimento sociale in Italia, e non avendo fornito elementi di valutazione in ordine alla situazione oggettiva e soggettiva in cui si trovava nel Paese di origine. 2. Avverso il predetto decreto il M. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Il Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b , nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando il decreto impugnato per aver escluso che la vicenda personale da lui allegata fosse riconducibile alla predetta disposizione ed all’art. 7 del D.Lgs. n. 251 cit., senza tener conto della situazione d’instabilità determinata dalla violenza criminale e politica in atto nel Paese di origine di esso ricorrente, e dell’incapacità delle autorità statali di fornire adeguata protezione. Aggiunge che il Tribunale ha omesso di adempiere il proprio dovere di cooperazione, non avendo valutato se egli avesse compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda ed avesse prodotto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso, e non avendo esercitato i propri poteri ufficiosi per l’accertamento dei fatti rilevanti. 1.1. Il motivo è infondato. Correttamente, infatti, il decreto impugnato ha escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, avendo il ricorrente allegato, a sostegno della relativa domanda, il timore di essere ucciso, derivante dalle minacce e dalle violenze subite ad opera di malviventi intenzionati ad estorcergli denaro, e quindi da atti delittuosi che, in quanto costituenti espressione di criminalità comune, non sono riconducibili ai motivi indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8. Se è vero, infatti, che ai fini dell’applicazione della predetta misura non occorre che la persecuzione sia ascrivibile allo Stato o ai partiti o alle organizzazioni che lo controllano in tutto o in parte, potendosi trattare, ai sensi dell’art. 5, lett. c , del predetto decreto, anche di atti posti in essere da soggetti diversi, purché le autorità statuali non possano o non vogliano fornire protezione, è anche vero, però, che tali atti o la mancanza di protezione in tanto possono giustificare il riconoscimento dello status di rifugiato in quanto rivelino un intento intrinsecamente discriminatorio, per essere fondati su motivazioni razziali, religiose, nazionali, sociali o politiche, nella specie neppure dedotte. L’esposizione al rischio di un danno grave, per effetto di atti delittuosi nei confronti dei quali le autorità statali non vogliano o non possano fornire tutela alla vittima, può invece giustificare, anche in assenza di motivazioni riconducibili al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, il riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lett. b , del medesimo decreto, non richiedendosi, ai fini dell’applicazione di tale misura, la prova di una persecuzione diretta, grave e personale, necessaria solo ai fini del conseguimento dello status di rifugiato, ma risultando sufficiente che risulti provato, con un certo grado di individualizzazione, che il richiedente, ove la tutela gli fosse negata, rimarrebbe esposto a rischio di morte o a trattamenti inumani e degradanti, senza che tale condizione debba presentare i caratteri del fumus persecutionis cfr. Cass., Sez. VI, 20/06/2018, n. 16275 20/03/2014, n. 6503 . Non può pertanto condividersi il decreto impugnato, nella parte in cui ha ritenuto che dalla vicenda personale riferita a sostegno della domanda non emergessero circostanze riconducibili al concetto di danno grave previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a e b . Ai fini del rigetto della domanda, il Tribunale non si è tuttavia limitato ad affermare l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione delle predette misure, ma ha escluso la stessa credibilità dei fatti narrati, evidenziando la genericità, la frammentarietà e l’incongruenza del racconto, nonché la mancata dimostrazione da parte del ricorrente di aver vanamente richiesto la protezione dell’autorità di polizia. Tale apprezzamento, sindacabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, per omesso esame di un fatto decisivo che abbia costituito oggetto del dibattito processuale, ovvero ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, per difetto assoluto, mera apparenza, perplessità o incomprensibilità della motivazione cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142 5/02/ 2019, n. 3340 , non risulta validamente censurato, essendosi il ricorrente limitato a lamentare l’inosservanza dei criteri di valutazione previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, senza neppure precisare il modo in cui il Tribunale se ne sarebbe discostato, nonché l’omesso esercizio dei poteri istruttori riconosciuti al giudice in subiecta materia, senza considerare che l’intrinseca inattendibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente, alla stregua degl’indicatori di genuinità soggettiva previsti dall’art. 3, comma 5, cit., preclude il compimento di approfondimenti istruttori officiosi, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori cfr. Cass., Sez. VI, 19/12/2019, n. 338858 12/11/2018, n. 28862 27/06/2018, n. 16925 . 2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, dell’art. 10 Cost., del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 7, 14 e 17, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 32, comma 3, e del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, nonché l’apparenza della motivazione, censurando il decreto impugnato per non aver valutato compiutamente la documentazione prodotta, comprovante il rischio di un danno grave, ricollegabile alle tensioni politiche in atto nel Bangladesh, agli attacchi terroristici perpetrati da estremisti islamici, alle violazioni dei diritti umani commesse dalle forze dell’ordine, alla difficile situazione sanitaria. Aggiunge che il diniego della protezione umanitaria è stato automaticamente ricollegato a quello delle altre forme di protezione, avendo il Tribunale omesso di verificare la sussistenza dei presupposti specifici della predetta misura, ed essendosi limitato ad evidenziare la breve durata del contratto di lavoro stipulato da esso ricorrente, senza tener conto della difficoltà di ottenere un contratto a tempo indeterminato e della sua volontà di integrarsi, anche attraverso lo svolgimento di piccoli lavori. Lamenta infine l’ingiustificata revoca del beneficio dell’ammissione al patrocinio a stese dello Stato, nonostante la fondatezza della domanda. 2.1. Il motivo è infondato. Com’è noto, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c , la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE cfr. sent. 30/01/2014, in causa C-285/12, Diakitè , nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente. Nella specie, la configurabilità di una siffatta minaccia è stata esclusa dal Tribunale in virtù della considerazione, fondata sulle informazioni desunte da fonti accreditate ed aggiornate, che la situazione di pericolo e disordine esistente in Bangladesh, a causa delle tensioni politiche in atto tra partito di governo ed opposizione, non si estende all’intera popolazione, ma riguarda essenzialmente i sostenitori dei predetti partiti, coinvolti negli scontri armati tra le opposte fazioni e nella violenta repressione attuata dalle forze dell’ordine, sicché, non avendo il ricorrente dedotto di far parte di uno dei gruppi in conflitto, non sussistono i presupposti per l’applicazione della misura di protezione. Tale rilievo trova conforto nel consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, pur richiedendosi, ai fini dell’applicazione della misura in questione, un minor grado di personalizzazione del rischio, rispetto a quello occorrente per il riconoscimento dello status di rifugiato, soprattutto nel caso in cui l’esigenza di tutela derivi da una situazione di violenza indiscriminata, non può escludersi del tutto la necessità di un nesso causale tra la vicenda personale narrata e la situazione di pericolo rappresentata, con la conseguenza che, a fronte di un conflitto armato in atto nel Paese o nella zona di origine del richiedente, è necessario dimostrare che quest’ultimo risulta personalmente esposto a rischio, per essere rimasto direttamente coinvolto negli scontri o per avere gli stessi raggiunto una frequenza ed un grado di violenza talmente elevato da mettere in pericolo la vita o l’incolumità fisica di chiunque si trovi in quell’area cfr. Cass., Sez. VI, 8/07/2019, n. 18306 2/04/2019, n. 9090 31/05/2018, n. 13858 . L’accertamento in ordine alla sussistenza di una situazione di violenza indiscriminata costituisce poi anch’esso un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1 cfr. Cass., Sez. VI, 12/12/2018, n. 32064 Cass., Sez. I, 21/11/2018, n. 30105 tale apprezzamento nella specie non risulta validamente censurato, essendosi il ricorrente limitato ad insistere sulla situazione di pericolo determinata dagli scontri politici in atto nel suo Paese di origine, senza essere in grado di evidenziare circostanze emerse dal dibattito processuale e trascurate dal decreto impugnato, in tal modo dimostrando di voler sollecitare una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, nonché la coerenza logica delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054 Cass., Sez. VI, 8/10/2014, n. 21257 . Quanto alla protezione umanitaria, il decreto impugnato non ne ha affatto ricollegato il diniego al mero rigetto delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, ma si è correttamente attenuto al principio, più volte ribadito da questa Corte, secondo cui l’applicazione di tale misura, avente carattere atipico e residuale, richiede una valutazione comparativa da condursi caso per caso, attraverso il raffronto tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e la situazione soggettiva ed oggettiva in cui si trovava nel Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale cfr. Cass., Sez. Un. 13/11/2019, n. 29459 Cass., Sez. I, 30/03/2020, n. 7599 23/02/2018, n. 4455 . Il Tribunale ha infatti attribuito opportunamente rilievo a circostanze oggettive, anziché alle mere aspirazioni del richiedente, evidenziando l’assenza di elementi sufficienti a comprovare da un lato il raggiungimento di una stabile integrazione sociale e lavorativa del ricorrente in Italia e dall’altro la precarietà del regime di vita da lui condotto in patria, e pervenendo in tal modo all’esclusione della configurabilità della situazione di vulnerabilità richiesta per l’applicazione della misura di protezione. Non possono infine trovare ingresso, in questa sede, le censure riguardanti la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, trattandosi di una statuizione che, anche se adottata con il provvedimento che ha definito il giudizio di merito, anziché con separato decreto, come prescritto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 136, non comporta mutamenti nel regime impugnatorio, che resta quello, ordinario e generale, dell’opposizione prevista dall’art. 170 del medesimo decreto cfr. Cass., Sez. I, 11/12/ 2018, n. 32028 Cass., Sez. III, 8/02/2018, n. 3028 Cass., Sez. II, 6/12/ 2017, n. 29228 . 3. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato. Essendo stato il ricorrente ammesso al patrocinio a spese dello Stato, con conseguente prenotazione a debito delle spese processuali, non ricorrono, allo stato, i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 cfr. Cass., Sez. VI, 22/ 03/2017, n. 7368 2/09/2014, n. 18523 . P.Q.M. rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto dell’insussistenza, allo stato, dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1-bis dello stesso art. 13, sempre che l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato non risulti revocata dal giudice competente.