Il termine di decadenza per la domanda di indennizzo ex legge Pinto decorre dalla fine della fase esecutiva

Il termine di decadenza di cui all’art. 4 l. n. 89/2001 decorre dalla definitività della decisione che conclude la fase di esecuzione o di ottemperanza eventualmente azionata dal creditore, senza che l’inerzia di quest’ultimo possa ridondare in suo pregiudizio.

È il principio affermato dalla Suprema Corte con l’ordinanza n. 15501/20, depositata il 21 luglio. Con ricorso ex art. 3 l. n. 89/2001 il ricorrente chiedeva il risarcimento del danno per irragionevole durata di una causa di equa riparazione iniziata nel giungo 2009 e definita il 24 ottobre 2012, per la quale era stato avviato il procedimento di ottemperanza dinanzi al TAR Lazio nel mese di gennaio del 2014. Il procedimento era stato dichiarato improcedibile e l’interessato aveva proposto quindi un secondo ricorso per ottemperanza nel mese di novembre 2015, definito nel maggio 2016. L’istanza veniva rigettata . In sede di opposizione ex art. 5- ter l. n. 89/2001, la Corte d’Appello di Roma confermava la decisione sottolineando l’intervenuta decadenza rispetto al giudizio di cognizione presupposto, per decorso di un periodo eccedente i 6 mesi tra giudizio di cognizione e avvio del giudizio di ottemperanza. In sede di cassazione, il ricorrente si duole per aver la Corte romana valutato separatamente il giudizio di cognizione e quello di ottemperanza . La doglianza risulta fondata. Richiamando il precedente giurisprudenziale delle Sezioni Unite n. 19883/19 , il Collegio ricorda che ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la proposizione del ricorso ex art. 4 l. n. 89/2001, nel testo modificato dall’art. 55 d.l. n. 83/2012, conv. in l. n. 134/2012, risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 88/18, la fase di cognizione del processo che ha accertato il diritto all’indennizzo a carico dello Stato – debitore, a differenza da quanto ritenuto dalla Corte d’appello di Roma nell’impugnato decreto, va considerata unitariamente rispetto alla fase esecutiva eventualmente intrapresa nei confronti dello Stato, senza la necessità che essa venga iniziata entro 6 mesi dalla definitività del giudizio di cognizione, decorrendo detto termine dalla definitività della fase esecutiva . Ed infatti il giudizio di ottemperanza promosso dopo la decisione di condanna dello Stato al pagamento dell’indennizzo in parola deve considerarsi pienamente equiparabile al procedimento esecutivo e dunque in modo unitario rispetto al giudizio che ha riconosciuto il diritto all’indennizzo. Chiarisce dunque la S.C. che l’art. 4 l. n. 89/2001 nel richiamare la decisione definitiva”, quale momento di decorrenza del termine di decadenza ivi previsto, deve intendersi riferito alla definitività della decisione che conclude la fase di esecuzione o di ottemperanza eventualmente azionata dal creditore. L’inerzia eventualmente protrattasi non può infatti ripercuotersi a pregiudizio del creditore, impedendogli di ottenere l’indennizzo integrale per l’irragionevole durata anche del processo di merito a suo tempo definito. Per questi motivi, la Corte accoglie il ricorso e cassa il decreto impugnato con rinvio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 6 marzo – 21 luglio 2020, n. 15501 Presidente Lombardo – Relatore Scarpa Fatti di causa e ragioni della decisione G.G. propone ricorso articolato in unico motivo per la cassazione del decreto reso dalla Corte d’Appello di Roma il 5 marzo 2019. Il Ministero della Giustizia ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze, intimati, non hanno svolto attività difensive. Con ricorso L. n. 89 del 2001, ex art. 3, depositato presso la Corte di appello di Roma in data 8 giugno 2018, G.G. chiese di ingiungere al Ministero della Giustizia il risarcimento del danno subito per la non ragionevole durata in relazione ad una causa di equa riparazione iniziata nel giugno 2009 e definita il 24 ottobre 2012, con condanna dell’Amministrazione al pagamento della somma di Euro 3.490,00, oltre interessi. A tale condanna avevano fatto seguito un primo giudizio di ottemperanza, iniziato davanti al TAR Lazio nel gennaio 2014 e definito nell’aprile 2015, con declaratoria di improcedibilità, e poi un secondo ricorso per ottemperanza, proposto nel novembre 2015, definito nel maggio 2016, con nomina di un commissario ad acta, del quale era stata anche chiesta con due istanze la sostituzione l’ultima istanza dichiarata improcedibile nel maggio 2018 , fino al pagamento della somma intimata avvenuto il 27 novembre 2017. Il magistrato designato della Corte di appello di Firenze, con decreto del 10 settembre 2018, rigettò il ricorso. G.G. propose opposizione L. n. 89 del 2001, ex art. 5 ter, opposizione che la Corte di appello di Roma respinse per intervenuta decadenza rispetto al giudizio di cognizione presupposto, giacché definito con sentenza del 24 ottobre 2012, cui aveva fatto seguito soltanto in data 17 gennaio 2014 il deposito del ricorso per ottemperanza, poi reiterato nel novembre 2015. Essendo trascorso un periodo eccedente i sei mesi fra il giudizio di cognizione e l’inizio dei giudizi di ottemperanza, non era ravvisabile, ad avviso della Corte di Roma, una unitarietà fra le due fasi procedimentali, sicché l’interessato non poteva più far valere l’irragionevole durata del giudizio di cognizione col ricorso dell’8 giugno 2018, nè era ravvisabile l’identico presupposto della durata non ragionevole per i due procedimenti di ottemperanza. Il motivo di ricorso di G.G. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 6 § 1, e 13 CEDU, in combinato con gli artt. 10 e 11 Cost., nonché dell’art. 111 Cost. e della L. n. 89 del 2001, artt. 2, 4 e 6, e degli artt. 38 e 50 c.p.c., per avere la Corte di appello valutato separatamente il giudizio di cognizione e quello di ottemperanza, la cui definitività era maturata soltanto con la sentenza del 4 maggio 2018, mentre la causa presupposta doveva essere considerata come un unico ed unitario procedimento a far tempo dal deposito della domanda di equa riparazione nel giugno 2009. Il ricorso risulta fondato alla luce dei principi enunciati da Cass. Sez. U, 23/07/2019, n. 19883. Ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la proposizione del ricorso della L. n. 89 del 2001, ex art. 4, nel testo modificato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 55, conv. dalla L. n. 134 del 2012, risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2018, la fase di cognizione del processo che ha accertato il diritto all’indennizzo a carico dello Stato debitore, a differenza di quanto ritenuto dalla Corte d’appello di Roma nell’impugnato decreto, va considerata unitariamente rispetto alla fase esecutiva eventualmente intrapresa nei confronti dello Stato, senza la necessità che essa venga iniziata entro sei mesi dalla definitività del giudizio di cognizione, decorrendo detto termine dalla definitività della fase esecutiva. Il giudizio di ottemperanza promosso all’esito della decisione di condanna dello Stato al pagamento dell’indennizzo di cui alla L. n. 89 del 2001 deve ritenersi, sul piano funzionale e strutturale, pienamente equiparabile al procedimento esecutivo essendo l’ottemperanza esperibile alternativamente o congiuntamente rispetto al rimedio del processo di esecuzione dinanzi al giudice civile, con il solo limite della impossibilità di conseguire due volte la medesima somma , dovendosi del pari considerare unitariamente rispetto al giudizio che ha riconosciuto il diritto all’indennizzo. Va ancora aggiunto che non incide sulla unitarietà fra fase di merito svolta innanzi alla Corte di appello e giudizio di ottemperanza la circostanza che il primo si sia svolto innanzi ad un plesso giurisdizionale diverso da quello al quale spetta funzionalmente la cognizione del giudizio di ottemperanza, rilevando soltanto il tempo processuale resosi necessario per dare soddisfazione al diritto del creditore all’indennizzo ex Legge Pinto nei confronti dello Stato-debitore. Occorre quindi affermare che il concetto di decisione definitiva , al quale si aggancia il termine di decadenza previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 4, deve essere riferito alla definitività della decisione che conclude la fase di esecuzione o di ottemperanza eventualmente azionata dal creditore, senza che l’inerzia eventualmente protrattasi fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio di quella esecutiva o di ottemperanza possa ridondare in pregiudizio del creditore, impedendogli di ottenere l’indennizzo integrale per l’irragionevole durata anche del processo di merito a suo tempo definito. Nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo o di ottemperanza, da considerare unitariamente ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo L. n. 89 del 2001, ex art. 2, non va tuttavia considerato come tempo del processo quello intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva o del giudizio di ottemperanza, quest’ultimo invece potendo eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell’esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Questa Corte ha altresì già precisato che, ai fini del computo della ragionevole del processo, il giudizio di ottemperanza, in quanto fase esecutiva diretta ad attuare il principio di effettività della tutela giurisdizionale, non va inteso come limitato al segmento processuale che intercorre tra il relativo ricorso e la nomina di un commissario ad acta , ma comprende anche le eventuali impugnazioni delle determinazioni amministrative poste in essere dallo stesso commissario, quali rimedi cognitivi interni all’ottemperanza e funzionali ad essa, di cui costituiscono parti integranti Cass. Sez. 6 - 2, 06/05/2015, n. 9141 . In accoglimento del ricorso, il decreto impugnato deve perciò essere cassato e la causa va rinviata, per nuovo esame, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che si uniformerà agli enunciati principi e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.