Condanna per lite temeraria se il giudizio è proposto ai soli fini dilatori

La novella apportata dalla l. n. 69/2009 al terzo comma dell’art. 96 c.p.c., nell’estendere a tutti i gradi del giudizio lo strumento deflattivo del contenzioso delineato dall’abrogato art. 385, comma 4, c.p.c. per la sola fase di legittimità, non presenta connotati di irragionevolezza, ma riflette una delle possibili scelte del legislatore, non costituzionalmente vincolato nella sua discrezionalità nell’individuare il beneficiario di una misura che sanziona un comportamento processuale abusivo e che funga da deterrente al ripetersi di una siffatta condotta.

E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione nell'ordinanza n. 10524/20, depositata il 3 giugno. Una S.n.c. proponeva ricorso in opposizione avverso un decreto ingiuntivo con il quale una S.p.a. le ingiungeva il pagamento di una somma di denaro per la vendita di pezzi di ricambio consegnati e non pagati, deducendo di essere ancora creditrice di una maggiore somma rispetto a quella portata dal titolo opposto in precedenza acquistati e ancora in possesso dell’ex affiliata. Chiedeva, pertanto, per effetto della compensazione, il pagamento della residua somma spettantele in virtù della predetta consegna di merce. Il Tribunale adito rigettava con sentenza l’opposizione e la domanda riconvenzionale condannando l’opponente al pagamento delle spese di lite oltre ad un ulteriore somma ai sensi del terzo comma dell’art. 96 c.p.c In particolare, il giudice rilevava che il contratto di affiliazione commerciale esistente tra le parti e che vedeva la società opponente quale affiliata, era cessato per volontà dell’affiliante e che il credito fatto valere in sede monitoria non era stato contestato dalla stessa società opponente la quale, al contrario, non era stato provato. La società opponente proponeva prima gravame avverso la decisione resa in primo grado, gravame che veniva rigettato dalla Corte distrettuale, e successivamente ricorso per Cassazione. Nella specie, gli Ermellini hanno ritenuto inammissibili tutti i motivi di ricorso proposti dalla società ricorrente per violazione e/o falsa applicazione di norme di legge poiché secondo il Collegio la sentenza resa dal giudice di prime cure era stata emessa sulla base di un orientamento di legittimità consolidato secondo il quale la questione di legittimità costituzionale, contrariamente a quanto dedotto dalla società ricorrente, non può formare oggetto di appello e non costituendo, di conseguenza, vizio di omessa pronuncia nel giudizio di legittimità cfr. Cass. 19 gennaio 2018 n. 1311 . Detta questione, inoltre, proseguono i giudici, è stata scrutinata, altresì, dalla Corte Costituzionale che, con decisione n. 152/2016 ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, comma 3, c.p.c., impugnato in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., in quanto stabilisce che, in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio , può condannare il soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata a favore della controparte , anziché dell’Erario. Introducendo tale disposizione, la legge n. 69/2009 ha constatato che l’istituto della responsabilità aggravata regolato nei primi due commi dell’art. 96 c.p.c. , pur rappresentando in astratto un serio deterrente nei confronti delle liti temerarie, e quindi, uno strumento efficace di deflazione del contenzioso, nella prassi applicativa risulta scarsamente utilizzato a causa dell’oggettiva difficoltà della parte vittoriosa di provare il danno derivante dall’illecito professionale. La previsione de qua , conclude il Collegio di legittimità, ha quindi, natura non tanto risarcitoria del danno causato alla controparte dalla proposizione di una lite temeraria, quanto più propriamente dalle condotte di quanti, abusando del diritto di azione e di difesa , si servano dello strumento processuale a fini dilatori , aggravando il volume del contenzioso.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza 28 novembre 2019 – 3 giugno 2020, n. 10524 Presidente Frasca – Relatore Positano Rilevato che Air Gas di M.B. & amp C. s.n.c. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 8951 delle 2013 con il quale Vallaint Group Italia S.p.A. ingiungeva il pagamento della somma di Euro 13.811 oltre interessi di mora dalle scadenze delle singole fatture sino al saldo per la vendita di pezzi di ricambio consegnati e non pagati, deducendo di essere creditrice della maggiore somma di Euro 30.587, pari alla valorizzazione di 119 pezzi obsoleti , precedentemente acquistati e ancora in possesso della ex affiliata. Per effetto della compensazione chiedeva la condanna al pagamento della residua somma di Euro 16.770. Si costituiva l’opposta chiedendo la conferma del decreto il rigetto della domanda riconvenzionale e di quella di compensazione parziale con sentenza n. 10935 del 2015, il Tribunale di Milano rigettava l’opposizione e la domanda riconvenzionale condannando l’opponente al pagamento delle spese di lite, oltre all’ulteriore somma di Euro 3500 ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3. Il primo giudice rilevava che il contratto di affiliazione commerciale esistente sin dall’anno 2003 fra le parti, che vedeva Air Gas di M.B. & amp C. s.n.c. quale affiliata, era cessato ad opera dell’affiliante con effetto dal 21 marzo 2010, e che il credito fatto valere in sede monitoria non era stato contestato dalla opponente, che si era limitata a far valere un contro-credito in compensazione il quale, al contrario, non era stato provato. Lo stesso si fonderebbe sulla circostanza che, una volta risolto il contratto, l’opposta si sarebbe impegnata ad acquistare nuovamente dalla opponente 119 pezzi di ricambio serpentine per scaldabagno . Al contrario, dal contenuto del contratto non emergerebbe tale obbligo clausola 29 . In ogni caso, Air Gas di M.B. & amp C. s.n.c. non aveva dimostrato, attraverso le fatture, di avere acquistato dalla controparte i predetti pezzi di ricambio avverso tale decisione proponeva appello Air Gas di M.B. & amp C. s.n.c. deducendo che, una volta sciolto il contratto, la controparte si sarebbe impegnata ad acquistare nuovamente quelle serpentine, come previsto dall’art. 29 del contratto. Si costituiva Vaillant eccependo la nullità del gravame per mancanza della vocatio in ius e, comunque l’inammissibilità ai sensi dell’art. 342 c.p.c. e, nel merito, l’infondatezza la Corte d’Appello di Milano con sentenza del 25 gennaio 2018 rigettava l’impugnazione condannando la società appellante al pagamento delle spese di lite avverso tale decisione propone ricorso per cassazione Air Gas di M.B. & amp C. s.n.c. affidandosi a tre motivi. Si costituisce Vaillant Group Italia spa con controricorso, che illustra con memoria insistendo nella condanna ex art. 96 c.p.c. anche in questa sede. Considerato che con il primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e della L.Cost. n. 1 del 1948, art. 1, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ovvero il mancato esame dell’eccezione di incostituzionalità dell’art. 96 c.p.c., comma 3. In sede di appello l’odierna ricorrente avrebbe proposto l’eccezione di legittimità costituzionale del citato art. 96 c.p.c. e la Corte territoriale si sarebbe limitata a disattendere l’eccezione omettendo di decidere sulla questione con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la falsa applicazione degli artt. 1363 c.c. e ss., in combinato disposto con la L. n. 129 del 2004, art. 3, e la lettura superficiale del contratto di franchising e affiliazione in essere tra le parti con il terzo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame della testimonianza sul punto dell’utilizzo dei pezzi di ricambio per i clienti in garanzia i giudici di merito avrebbero applicato alla fattispecie in esame soltanto l’art. 29 del contratto. In particolare il Tribunale avrebbe omesso di esaminare gli altri articoli, con ciò violando l’art. 1363 c.c., poiché nessuna retrocessione era stata invocata, ma la semplice conclusione di tutti i rapporti in essere, ancora pendenti tra le parti e disciplinati dagli altri articoli del contratto. In particolare gli artt. 13 e 14 il ricorso è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, perché la sentenza è stata emessa sulla base di un orientamento costante di legittimità e il ricorso non offre elementi per mutare orientamento inoltre, il mancato esame di una questione di legittimità costituzionale non può formare oggetto di appello e non costituisce, corrispondentemente, vizio di omessa pronunzia nel giudizio di legittimità Cass. 19 gennaio 2018 n. 1311 a prescindere da ciò, la questione è stata scrutinata dalla Corte Costituzionale che, con la decisione n. 152 del 2016 ha ritenuto che non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 96 c.p.c., comma 3, impugnato, in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., in quanto stabilisce che, in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può condannare il soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata a favore della controparte, anziché dell’Erario. Introducendo tale disposizione, la L. n. 69 del 2009 ha constatato che l’istituto della responsabilità aggravata regolato nell’art. 96 c.p.c., commi 1 e 2 , pur rappresentando in astratto un serio deterrente nei confronti delle liti temerarie e, quindi, uno strumento efficace di deflazione del contenzioso, nella prassi applicativa, risultava scarsamente utilizzato a causa dell’oggettiva difficoltà della parte vittoriosa di provare il danno derivante dall’illecito processuale. La previsione de qua ha natura non tanto risarcitoria del danno cagionato alla controparte dalla proposizione di una lite temeraria, quanto più propriamente sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, aggravando il volume del contenzioso la novella del 2009, nell’estendere a tutti i gradi di giudizio lo strumento deflattivo delineato dall’abrogato art. 385 c.p.c., comma 4, per la sola fase di legittimità, non presenta connotati di irragionevolezza, ma riflette una delle possibili scelte del legislatore, non costituzionalmente vincolato nella sua discrezionalità, nell’individuare il beneficiario di una misura che sanziona un comportamento processuale abusivo e che funga da deterrente al ripetersi di una siffatta condotta oltre a ciò, il primo motivo esula del tutto dal perimetro dell’art. 360 c.p.c., n. 5, invocato, come definito da Cass. Sezioni Unite 4 luglio 2014 n. 8053 e seguenti quanto al secondo motivo, la Corte territoriale ha affermato che la disposizione art. 29 è chiara e ciò esclude il ricorso ad altri parametri. Tale profilo non è contestato e rende non specifiche le censure relative agli altri criteri ermeneutici inoltre, l’illustrazione della censura inerente alla violazione dei criteri ermeneutici omette di considerare la motivazione con cui la Corte territoriale ha proceduto all’esame della questione sull’art. 29 del contratto essa si estende dalle ultime nove righe della pagina 5 sino a quella successiva, ad eccezione delle ultime otto righe. Tutta la motivazione resa dalla corte meneghina viene ignorata e, dunque, le considerazioni espresse con il secondo motivo restano inidonee a svolgere la funzione di motivo di censura rispetto alla sentenza in parte qua. Sicché, il motivo è inammissibile anche sotto tale profilo una volta consolidatasi la motivazione sull’esegesi dell’art. 29 in relazione allo svolgimento della vicenda inter partes, il motivo sulle prove resta a sua volta inammissibile, in quanto la corte ha spiegato nelle quattro righe che precedono le ultime tre della pagina 6 che la prova per testi era irrilevante alla stregua di quanto sin ora esposto , cioè per l’esegesi fatta sulla questione relativa alla clausola contrattuale inoltre, la sentenza dice che le prove erano generiche e lo stesso ricorso pag. 16 riferisce che il primo giudice aveva impedito la prova rigettando la richiesta di prova per testi la stessa sentenza dice che parte ricorrente si era limitata a riproporre le istanze di prime cure, mentre sarebbe stato necessario un motivo di appello, di cui il motivo non riferisce. E ciò a prescindere dal fatto che le censure oggetto del terzo motivo sono dedotte in violazione dell’art. 366c.p.c., n. 6, dato che nulla si deduce sui capitoli di prova. Infine, quanto ai documenti, tra l’altro riferiti in modo generico, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, per giurisprudenza pacifica, il vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 a partire da Cass. Sezioni Unite 2014 richiamata sussiste altresì la responsabilità aggravata dei ricorrenti ex art. 96 c.p.c., comma 3, che hanno agito - tramite il legale - senza la exacta diligentia esigibile in relazione ad una prestazione professionale altamente qualificata come è quella dell’avvocato, in particolare se cassazionista in proposito, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 20732 del 14/10/2016, Rv. 642925-01 infatti, nel caso non viene in rilievo, ai fini dell’applicazione della citata disposizione, la mera inammissibilità del ricorso, bensì la palese violazione dell’art. 366 c.p.c. - che si traduce in errore grossolano - di regole di redazione dell’atto introduttivo che non possono essere ignorate da un difensore a riguardo, Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 18960 dell’8/6/2017 e Cass. Sez. 6 - 3, n. 29812 del 18/11/2019 . Deriva da quanto ora esposto la condanna dei ricorrenti al pagamento dell’ulteriore somma di Euro 2.000,00 in favore della controricorrente va affermata la sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge e alle spese ex art. 96 c.p.c. pari ad Euro 2000,00 in favore della controricorrente. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.