Niente protezione per lo straniero nonostante l’omosessualità sia punita in patria

Per i Giudici va messa in discussione la credibilità del racconto fatto dallo straniero, originario del Senegal. Allo stesso tempo, però, va chiarito che il singolo rapporto omosessuale a pagamento non è sufficiente per ipotizzare una persecuzione a carico dello straniero, che, peraltro, ha dichiarato di non essere gay.

La prostituzione gay non è elemento sufficiente per riconoscere protezione allo straniero, nonostante nel suo Paese l’omosessualità sia sanzionata a livello penale Cassazione, ordinanza n. 8683/20, sez. I Civile, depositata l’8 maggio . Sul tavolo dei Giudici la vicenda riguardante un giovane cittadino del Senegal che, una volta approdato in Italia, ha chiesto protezione , spiegando di non voler far ritorno in patria per il timore di subire ritorsioni da parte delle autorità del suo Paese per avere avuto un rapporto sessuale con un uomo per motivi di denaro – comportamento considerato lì reato e punito con una pena detentiva – pur non essendo omosessuale . Sia in primo che in secondo grado, però, la domanda di protezione viene ritenuta priva di fondamento. Ciò perché da un lato il racconto fatto dallo straniero è ritenuto poco credibile e dall’altro, comunque, difetta la prova di una persecuzione personale . In sostanza, non vi sono elementi per ipotizzare una specifica situazione di vulnerabilità personale né per presumere l’esistenza di un potenziale grave danno in caso di ritorno nel Paese d’origine . Inutile si rivela il ricorso proposto in Cassazione dal cittadino senegalese. Inutile, in particolare, la sottolineatura che il Senegal sanziona con una pena detentiva il compimento di atti omosessuali e che ciò rappresenta un atto di persecuzione . L’uomo evidenzia che la previsione di una sanzione penale per gli atti omosessuali costituisce una violazione del diritto fondamentale di vivere liberamente il proprio orientamento sessuale e spiega che, di conseguenza, è fondato il suo timore di una persecuzione in patria a causa del proprio comportamento sessuale . Sacrosanto, quindi, a suo dire, il riconoscimento di protezione da parte dell’Italia in suo favore. Dalla Cassazione ribattono però che, a parte la mancanza di credibilità dell’intera vicenda , va considerato che l’atto sessuale posto in essere dallo straniero appartiene alla sua sfera privata, avendo egli stesso affermato di non essere omosessuale . E questo dettaglio è sufficiente per negare protezione al cittadino senegalese.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 31 gennaio – 8 maggio 2020, n. 8683 Presidente Giancola – Relatore Fidanzia Fatti di causa La Corte d'Appello di Milano, con sentenza depositata il 12.6.2018, ha confermato il provvedimento di primo grado di rigetto della domanda di Sa. Di., cittadino del Senegal, volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria. E' stata, in primo luogo, rigettata la domanda per il riconoscimento in capo al ricorrente dello status di rifugiato, in relazione alla ritenuta non credibilità del suo racconto e difettando, comunque, la prova di una persecuzione personale e diretta ai sensi della Convenzione di Ginevra il richiedente aveva riferito di non voler far ritorno in Senegal per il timore di subire ritorsioni da parte della autorità del suo paese per aver avuto un rapporto sessuale con un uomo per motivi di denaro - comportamento considerato reato punito con una pena detentiva - pur non essendo omosessuale . Inoltre, con riferimento alla richiesta di protezione sussidiaria, la Corte d'Appello di Milano ha evidenziato l'insussistenza del pericolo del ricorrente di essere esposto a grave danno in caso di ritorno nel paese d'origine. Infine, il ricorrente non è stato altresì ritenuto meritevole del permesso per motivi umanitari, non essendo stata allegata una specifica situazione di vulnerabilità personale. Ha proposto ricorso per cassazione Sa. Di. affidandolo a due motivi. Il Ministero dell'Interno non ha svolto difese. Ragioni della decisione 1. E' stata dedotta la violazione degli artt. 3,5,7,8 e 14 D.Lgs. n. 251/07, degli artt. 8 e 26 D.Lgs. n. 25/08, dell'art. 5 comma 6. D.Lgs. n. 286/1998 e 3 CEDU, nonché l'omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ. in relazione alla protezione umanitaria. Contesta, in primo luogo, il ricorrente la valutazione di non credibilità del suo racconto, fondandosi tale giudizio su una valutazione del tutto parziale delle dichiarazioni dai medesimo rilasciate. Espone, inoltre, il ricorrente che la circostanza che il Senegal sanzioni con una pena detentiva il compimento di atti omosessuali costituisce un atto di persecuzione. In particolare, la previsione di una sanzione penale per gli atti omosessuali costituisce una violazione del diritto fondamentale di vivere liberamente il proprio orientamento sessuale. Appare quindi fondato timore del ricorrente di persecuzione nel paese d'origine a causa del suo comportamento sessuale, con conseguente necessità di riconoscere allo stesso lo status di rifugiato. In subordine, il ricorrente ha chiesto il riconoscimento della protezione sussidiaria a norma dell'art. 14 D.Lgs. n. 251/07, in ragione del fondato timore di subire un danno grave e, segnatamente, il rischio di incarcerazione in patria per l'atto sessuale compiuto e comunque trattamenti inumani e degradanti. In ulteriore subordine, il ricorrente ha rivendicato il diritto al riconoscimento della protezione umanitaria in virtù della sua condizione di vulnerabilità. 2. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 3 comma 3. e 4. D.Lgs. n 25/2007 e 8 e 27 D.Lgs. n. 25/08. Lamenta il ricorrente che la Corte d'Appello si è astenuta dal compiere le verifiche istruttorie richieste dalla legge nell'esame delle domande di protezione internazionale. 3. Entrambi i motivi, da esaminare unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate sono inammissibili. Va preliminarmente osservato che, in ordine alla domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato, la Corte d'Appello ha rigettato il gravame sulla base di due autonome rationes decidendi, avendo ritenuto, da un lato, la mancanza di credibilità dell'intera vicenda narrata dal richiedente, e, dall'altro, che comunque l'atto sessuale asseritamente posto in essere dal medesimo apparterrebbe alla sfera privata, avendo egli stesso affermato di non essere omosessuale. Orbene, le censure svolte dal ricorrente sulla prima ratio decidendi non credibilità del narrato si appalesano inammissibili. In proposito, va osservato che, anche recentemente, questa Corte ha statuito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, ex art. 3, comma. 5, lettera c del D.Lgs. n. 251 del 2007. Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l'ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. Cass. n. 3340 del 05/02/2019 . Nel caso di specie, il ricorrente ha solo genericamente contestato la valutazione di non credibilità effettuata dal giudice di merito, non allegando neppure eventuali gravi anomalie motivazionali del provvedimento impugnato nei termini sopra illustrati dalla giurisprudenza di questa Corte , che sono le uniche attualmente denunciabili nei ristretti limiti consentiti dall'attuale formulazione dell'art. 360 comma 1. n. 5 cod. proc. civ Inoltre, il ricorrente, con l'apparente censura della violazione da parte del Tribunale di norme di legge, ovvero l'art. 3 comma 5. D.Lgs. n. 251/2007 e l'art. 8 D.Lgs. n. 25/2008, ha, in realtà, svolto delle censure di merito, in quanto finalizzate a prospettare una diversa lettura delle sue dichiarazioni. L'accertata inammissibilità delle censure attinenti la prima ratio decidendi determinano l'inammissibilità anche di quelle vertenti sulla seconda ratio. In proposito, è orientamento consolidato di questa Corte che qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza o inammissibilità delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l'intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa vedi Cass. n. 11493 del 11/05/2018 . Quanto alla domanda di protezione sussidiaria ex art. 14 lett. b D.Lgs. n. 251/07, va osservato che avendo il ricorrente fondato il timore per la propria incolumità sulla rappresentazione di una situazione soggettiva personale ritenuta non credibile dal giudice di merito, le censure svolte sul punto dallo stesso richiedente si appalesano inammissibili in quanto finalizzate a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella operata dai giudici di merito. Analogo ragionamento deve svolgersi con riferimento alla richiesta protezione umanitaria, avendo il ricorrente dedotto una situazione di vulnerabilità legato al suo rischio di incarcerazione che si fonda sempre sulla vicenda narrata ritenuta non attendibile. Né, infine, può rilevare il dedotto livello di integrazione raggiunto nel paese d'accoglienza, elemento che, secondo il costante orientamento di questa Corte, può essere si considerato in una valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza della situazione di vulnerabilità, ma non può, tuttavia, da solo esaurirne il contenuto vedi sempre Cass. n. 4455 del 23/02/2018 . La declaratoria di inammissibilità del ricorso non comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, non essendosi il Ministero costituito in giudizio. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto, a norma del comma 1. bis dello stesso articolo 13.