Datate le minacce di morte subite: niente protezione per l’attivista dell’associazione

Respinta definitivamente la richiesta presentata da un cittadino del Mali. Decisiva la constatazione che le minacce di morte da lui subite risalgono a nove anni prima, a fronte del il contesto generale del Paese di origine.

Minacciato di morte a causa dell’operato in un Paese africano come attivista per un’associazione impegnata a contrastare il terribile fenomeno delle mutilazioni genitali femminili. Ciò non è sufficiente per presumere il rischio di persecuzioni al ritorno in patria e per concedere, quindi, protezione in Italia Cassazione, ordinanza n. 7856/20, sez. I Civile, depositata il 16 aprile . Pesercuzioni. Protagonista della vicenda è un cittadino del Mali, che, approdato in Italia, presenta domanda per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato o, almeno, la protezione. La richiesta viene però respinta su questo punto concordano i giudici di merito. In particolare, in Appello, viene osservato che non è più attuale, in base alla vicenda personale narrata dallo straniero, il rischio paventato , rischio connesso, secondo quanto raccontato, all’ essere fuggito dal proprio Paese perché minacciato di morte i quanto attivista di un’associazione impegnata contro la mutilazione genitale femminile . Decisiva, per i giudici, la valutazione della sostanzialmente tranquilla situazione generale del Mali, e la constatazione che le persecuzioni subite dallo straniero erano ormai datate. Rischio. Proprio l’elemento temporale è centrale nel ricorso proposto dal legale del cittadino del Mali. In sostanza, nel contesto della Cassazione viene criticata la decisione pronunciata in Appello, osservando che pur ritenendo credibile il racconto dello straniero ci si è soffermati solo sulla documentazione attestante che le persecuzioni da lui subite risalivano a nove anni prima . Eppure, aggiunge il legale, è noto che le persecuzioni già subite rendono concreto il rischio che esse verranno reiterate in caso di rimpatrio , e invece, in questo caso, il giudice si è limitato a richiamare solo il contesto generale del Paese di origine dello straniero, senza tener conto che lì è molto diffusa la pratica della mutilazione genitale femminile . A queste obiezioni i Giudici del ‘Palazzaccio’ ribattono richiamando un dato ritenuto decisivo in Appello, cioè che l’associazione di cui faceva parte lo straniero era presente in ogni parte del Mali e in quel territorio le persone che lo avevano introdotto nell’associazione non avevano subito vessazioni . Logico, quindi, escludere l’esistenza sia di elementi fondanti il rifugio sia di un ipotetico danno grave in caso di ritorno in patria.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 20 novembre 2019 – 16 aprile 2020, numero 7856 Presidente Di Virgilio – Relatore Parise Fatti di causa 1. Con sentenza numero 2604/2017 depositata il 20-11-2017 la Corte di Appello di Firenze ha respinto l'appello proposto da Ka. Mo., cittadino del Mali, avverso la sentenza del Tribunale di Firenze che aveva rigettato la sua domanda avente ad oggetto in via gradata il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria. La Corte d'appello ha ritenuto che fosse non più attuale, in base alla vicenda personale narrata, il rischio paventato dal richiedente, il quale riferiva di essere fuggito dal proprio Paese perché minacciato di morte in quanto era attivista di un'associazione contro la mutilazione genitale femminile. La Corte d'appello ha ritenuto che non ricorressero i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione, avuto anche riguardo alla situazione generale del Mali, descritta nel decreto impugnato, con indicazione delle fonti di conoscenza. 2. Avverso il suddetto provvedimento, il ricorrente propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, nei confronti del Ministero dell'Interno, che è rimasto intimato. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta Violazione di legge 360 numero 3 Art. 3 D.Lgs. 251/2007 articolo 8 D.Lgs. 25/2008”. Con il secondo motivo lamenta Violazione di legge e falsa applicazione 360 numero 3 Art. 2 lett. e D.Lgs. 251/2007 - Art. 1 Convenzione di Ginevra violazione di legge 360 numero 3 Artt. 7, 14 D.Lgs. 251/2007”. Con il terzo motivo lamenta Violazione di legge 360 numero 3 principio di diritto internazionale consuetudinario del non refoulement, articolo 33 comma 1 Convenzione di Ginevra articolo 19 comma 1 D.Lgs. 286/1998 articolo 3 CEDU”. Rileva il ricorrente che la Corte d'appello, pur ritenendo credibile il racconto dell'appellante, ha affermato solo che la documentazione attestante le persecuzioni subite risalivano a nove anni prima, omettendo ogni doverosa attivazione del potere istruttorio ufficioso su riscontri oggettivi dei fatti narrati. Richiama la normativa di riferimento sulla nozione di rifugiato, rileva che le persecuzioni già subite rendono concreto il rischio che verranno reiterate in caso di rimpatrio e lamenta che la Corte territoriale abbia svolto accertamenti istruttori ufficiosi solo in ordine al contesto generale del Paese. 2. Con il quarto motivo lamenta Violazione di legge 360 numero 3 articolo 5 comma 6 D.Lgs. 286/1998 articolo 19 Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici ICCPR articolo 10 CEDU”. Con il quinto motivo lamenta Violazione e mancata applicazione di legge 360 numero 3 artt. 3,4,5,7,8,14 D.Lgs. 251/2077 artt. 8,7,32 d. Igs.numero 35/2008 violazione e falsa applicazione articolo 360, c.1 numero 5, omessa o insufficiente o apparente motivazione su punto decisivo della controversia”. Censura la sentenza impugnata anche con riferimento al mancato riconoscimento della protezione umanitaria, richiama la normativa, anche internazionale, di riferimento, rilevando che gli obblighi internazionali dello Stato in materia sono diritto cogente, la cui applicazione non può subordinarsi alla quantità di risorse destinabili. Si duole della mancata considerazione della sua situazione personale e della situazione generale del Mali, valutata in base ad informazioni incomplete essendo molto diffusa nel Paese la pratica della mutilazione genitale femminile, e deduce che la motivazione è apparente e il dispositivo antigiuridico. 3. I primi tre motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili. 3.1. Le deduzioni che il ricorrente svolge per censurare le statuizioni di diniego di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria non si confrontano con la ratio deciderteli della sentenza impugnata. La Corte d'appello ha affermato che, proprio in base a quanto riferito dal richiedente, l'associazione contro la mutilazione genitale femminile, a cui il medesimo partecipava, era presente all'attualità in ogni parte del Mali, che la moglie e il sig.Bo. Di., che lo aveva introdotto in detta associazione, erano in Mali, vicino Koroboto, e che non avevano subito vessazioni. Dunque, con accertamento di fatto non censurabile perché adeguatamente motivato, i Giudici di merito hanno ritenuto insussistenti, sia gli elementi fondanti il rifugio, sia il danno grave ai sensi dell'articolo 14 lett. b D.Lgs.numero 251/2007, esaminando gli stessi fatti allegati dal ricorrente. Non vi è ragione di attivare il dovere di cooperazione istruttoria sulla credibilità estrinseca dei fatti narrati se, come nella specie, non rileva la questione della credibilità nel senso precisato, ossia in quanto i Giudici di merito hanno fondato il proprio convincimento proprio su quanto riferito dal ricorrente. La Corte territoriale ha inoltre escluso, con accertamento di fatto ugualmente incensurabile in quanto idoneamente motivato Cass. numero 30105/2018 la ricorrenza delle situazioni rilevanti ai sensi di cui al citato articolo 14 lett. c , con indicazione delle fonti di conoscenza. Le argomentazioni svolte in ricorso con i primi tre motivi risultano estranee al percorso argomentativo infra riassunto e si risolvono, altresì, tramite le doglianze di vizio di violazione di legge, in una inammissibile richiesta di rivalutazione del merito. 4. Anche i motivi quarto e quinto sono inammissibili. 4.1. Le doglianze relative al diniego della protezione umanitaria sono formulate del tutto genericamente, con mero richiamo alla normativa di riferimento e alle fonti sulla diffusione della pratica della mutilazione genitale femminile, ma senza indicazione di alcuno specifico profilo di vulnerabilità, che la Corte territoriale ha escluso, con idonea motivazione Cass. S.U. numero 8053/2014 , in base alle allegazioni del ricorrente e ai fatti accertati. 5. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, nulla dovendosi disporre circa le spese del presente giudizio, stante la mancata costituzione del Ministero. 6. Ai sensi dell'articolo 13, comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma I-bis dello stesso articolo 13, ove dovuto Cass. numero 23535/2019 . P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi dell'articolo 13, comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, ove dovuto. Così deciso in Roma il 20 novembre 2019.