Responsabilità aggravata: c’è abuso del diritto di impugnazione solo in caso di vacuità e pretestuosità delle argomentazioni difensive

Nella sentenza n. 18745 del 2019 la Terza Sezione della Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso e decidendo nel merito, elimina la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata ex art. 96, comma 3, c.p.c. a carico della parte soccombente nel giudizio di appello.

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 18745/19 depositata il 12 luglio. Il Collegio esclude che la mera conoscenza della esistenza di contrastanti orientamenti di merito, alcuni espressione di una posizione contraria a quella fatta propria dell’impugnante, sia di per sé sufficiente a qualificare la proposizione dell’appello come abuso del mezzo di impugnazione, perché solo la vacuità e la vuota pretestuosità delle argomentazioni utilizzate potrebbero portare a tanto qualora si spingessero ai confini della mala fede diversamente opinando, lo strumento dell’art. 96, comma 3, c.p.c., nato per contenere l’abuso degli strumenti processuali di per sé leciti, verrebbe adattato all’uso distorto di dissuadere ogni tentativo di sovvertire, a mezzo della impugnazione, un precedente orientamento giurisprudenziale”. Nella sentenza impugnata la condanna del soccombente per responsabilità aggravata è stata fondata sulla mancata presa in considerazione di uno specifico orientamento seguito dal singolo estensore della sentenza secondo il Giudice di legittimità, tale criterio è errato perché in caso di unico giudicante implicherebbe una inammissibile colpevolizzazione, sotto il profilo della condanna pecuniaria, di ogni tentativo di modificare un precedente orientamento giurisprudenziale”, mentre, in caso di ripartizione non contestata della materia tra diverse sezioni di un medesimo ufficio giudiziario, l’orientamento contrario di un singolo magistrato dell’ufficio sarebbe di per sé irrilevante, anche in ragione dell’automaticità dell’assegnazione delle cause”. La decisione. La Corte di Cassazione ricorda che l’abuso del diritto di impugnazione consiste nello sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali ed in un ingiustificato aumento del contenzioso che ostacoli la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione”, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Per argomentare le proprie statuizioni il Collegio richiama alcuni precedenti in materia. La responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate. Sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione Cass., sez. unite civ., 20 aprile 2018, n. 9912, in CED Cass., Rv. 648130 . Tale condanna è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della potestas agendi con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede consapevolezza dell’infondatezza della domanda o della colpa grave per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza , venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione Cass., sez. unite civ., 13 settembre 2018, n. 22405, in CED Cass., Rv. 650452 .

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 23 maggio – 12 luglio 2019, n. 18745 Presidente De Stefano – Relatore Rubino Ragioni in fatto e in diritto della decisione D.C. proponeva opposizione all’esecuzione, ex art. 615 c.p.c., avverso due cartelle di pagamento notificate da Equitalia Sud s.p.a. relative al mancato pagamento di sanzioni amministrative comminate per violazioni del codice della strada, rilevando che non le fossero mai stati notificati i relativi verbali. L’opposizione veniva accolta, con condanna solidale alle spese di Roma Capitale e dell’Agente per la riscossione. Equitalia Sud s.p.a. propone tre motivi di ricorso per cassazione contro la sentenza di appello del Tribunale di Roma, n. 5226/2016, resa nei confronti di D.C. e di Roma Capitale. Con la predetta sentenza il tribunale rigettava l’appello dell’Agente per la riscossione avverso la sentenza del giudice di pace sul capo che portava la condanna solidale, di questo e dell’ente impositore, al pagamento delle spese di lite sul presupposto che l’incaricato per la riscossione abbia un autonomo dovere di controllo sulla validità del titolo posto in esecuzione, condannando l’Agente sia al pagamento delle spese di lite del secondo grado sia al pagamento di una ulteriore somma, ex art. 96 c.p.c., comma 3. Resistono Roma Capitale e la D. con controricorso. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 10, 12, 24, 25 e 26, ed in particolare, che la condanna solidale alle spese anche nei suoi confronti, pur essendo stata l’opposizione accolta per vizi procedimentali afferenti al comportamento dell’ente impositore, presupponga un insussistente, in capo ad Equitalia, dovere di controllo sulla legittimità della iscrizione a ruolo non avendo, al contrario, la società né il dovere di indagare sulla legittimità o meno della pretesa impositiva, né la facoltà di sospendere le azioni intraprese, essendo la riscossione tramite ruolo gestita direttamente dalla Agenzia delle Entrate, che la esercita tramite Equitalia. In particolare, ribadisce la propria estraneità a qualsiasi attività inerente la notifica dei verbali di accertamento delle violazioni contestate e la conseguente iscrizione a ruolo. Con il secondo motivo, denuncia la violazione dell’art. 91 c.p.c., per essere stata condannata in difetto di una propria soccombenza, pur non avendo in alcun modo dato causa con il proprio comportamento all’accoglimento dell’opposizione. I primi due motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi e sono infondati, alla luce della più che consolidata giurisprudenza di questa Sezione sul punto, salva una correzione della motivazione laddove si assume la sussistenza di un obbligo di controllo formale dell’atto per cui si procede prospettato come incombente sull’agente di riscossione, non sussistente nei termini prospettati dal tribunale. Va invero applicato anche alla fattispecie il seguente principio di diritto nella controversia con cui il debitore contesti l’esecuzione esattoriale, in suo danno minacciata o posta in essere, non integra ragione di esclusione della condanna alle spese di lite, né - di per sé sola considerata - di compensazione delle stesse, nei confronti dell’agente della riscossione la circostanza che l’illegittimità dell’azione esecutiva sia da ascrivere all’ente creditore interessato restano peraltro ferme, da un lato, la facoltà dell’agente della riscossione di chiedere a quest’ultimo di manlevarlo anche dall’eventuale condanna alle spese in favore del debitore vittorioso e, dall’altro, la possibilità, per il giudice, di compensare le spese del debitore vittorioso nei confronti con l’agente della riscossione e condannare al pagamento delle spese del debitore vittorioso soltanto l’ente creditore interessato o impositore quando questo è presente in giudizio, ove sussistano i presupposti di cui all’art. 92 c.p.c., diversi ed ulteriori rispetto alla sola circostanza che l’opposizione sia stata accolta per ragioni riferibili all’ente creditore interessato o impositore . La soluzione è ormai recepita da questa Corte in numerose pronunce, tra le quali da ultimo Cass. n. 1580 del 2019, che a sua volta richiama Cass. 19/05/2017, n. 12612, sulla collocazione sistematica dei rapporti tra agente della riscossione ed ente creditore a svariate altre precedenti. In ogni caso, non vi è un dubbio di controllo degli atti in capo in agente della riscossione. Peraltro, ha una sua rilevanza, nella fattispecie concreta, anche quanto evidenziato dalla controricorrente D. nel caso di specie l’atto veniva notificato all’esattore soltanto a titolo di litis denuntiatio, mentre questi interveniva volontariamente, ad adiuvandum dell’ente impositore, e quindi con tale iniziativa processuale questi ne faceva volontariamente proprie le sorti processuali, anche sotto il profilo della condivisione della condanna solidale al pagamento delle spese di giudizio. Con il terzo motivo, Equitalia denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ovvero contesta che sussistessero i presupposti per la condanna per responsabilità aggravata, per aver agito senza la normale prudenza, avendo il tribunale ravvisato gli estremi del comportamento imprudente nella stessa proposizione della impugnazione, che riconduce addirittura all’abuso del diritto. Richiama numerose pronunce di legittimità in cui si afferma che l’agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela, all’esame giudiziario, infondata, non costituisce condotta di per sé rimproverabile Cass. n. 21570 del 2012, Cass. n. 24546 del 2014, Cass. n. 1115 del 2016 . In particolare, il tribunale ascrive a colpevole mancanza di prudenza l’aver proposto l’impugnazione ignorando la costante giurisprudenza contraria della sezione cui apparteneva il giudice che ha emesso la decisione. Rileva il ricorrente innanzitutto che le cause in materia di opposizione a cartelle esattoriali relative a sanzioni amministrative appartenevano, all’interno del Tribunale di Roma, alla competenza di ben tre sezioni diverse, all’interno delle quali, sul problema delle spese, erano maturati orientamenti differenziati, e ribadisce che non sussiste il requisito della colpa processuale, per non aver controllato la regolarità del ruolo trasmesso, e in particolare la pregressa avvenuta notifica dei verbali, non trattandosi di profilo afferente alla mala fede processuale e, a monte, non trattandosi di comportamento esigibile dall’agente per la riscossione. Il terzo motivo è fondato. La nozione di abuso del diritto di impugnazione, legittimante la condanna ex art. 96, comma 3, a carico della parte soccombente in sede di impugnazione, è stata definita da questa Corte come consistente nello sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali ed in un ingiustificato aumento del contenzioso che ostacoli la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione. Dovrebbe aversi un vero e proprio abuso della potestas agendi, attraverso un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli per i quali il potere stesso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte v. in questo senso Cass. n. 9912 del 2018 La responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione e Cass. n. 22405 del 2018 La condanna ex art. 96 c.p.p., comma 3, è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della potestas agendi con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede consapevolezza dell’infondatezza della domanda o della colpa grave per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza , venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello, che aveva escluso la condanna, nonostante l’artificiosa evocazione in giudizio di una parte, peraltro senza proporre domanda contro di essa, finalizzata a bloccare le azioni promosse all’estero, in quanto la pretestuosità sarebbe dovuta essere eccepita dalla stessa parte invece rimasta contumace . La semplice conoscenza delle esistenza di contrastanti orientamenti di merito, alcuni espressione di una posizione contraria a quella fatta propria dall’impugnante, non è di per sé sufficiente a qualificare la proposizione dell’appello come abuso del mezzo di impugnazione. Solo la vacuità e la vuota pretestuosità delle argomentazioni utilizzate, potrebbero portare a tanto qualora si spingessero ai confini della mala fede. Diversamente opinando, lo strumento dell’art. 96 c.p.c., comma 3, nato per contenere l’abuso degli strumenti processuali di per sé leciti, verrebbe adattato all’uso distorto di dissuadere ogni tentativo di sovvertire, a mezzo della impugnazione, un precedente orientamento giurisprudenziale. Si aggiunga che la sentenza sembra attribuisca alla attuale ricorrente la responsabilità aggravata per non aver voluto tener conto dello specifico orientamento seguito dal singolo estensore della sentenza sul punto criterio di giudizio doppiamente errato, perché in caso di unico giudicante implicherebbe una inammissibile colpevolizzazione, sotto il profilo della condanna pecuniaria, di ogni tentativo di modificare un precedente orientamento giurisprudenziale, in caso di ripartizione non contestata della materia tra diverse sezioni di un medesimo ufficio giudiziario, l’orientamento contrario di un singolo magistrato dell’ufficio sarebbe di per sé irrilevante, anche in ragione dell’automaticità dell’assegnazione delle cause. L’accoglimento del terzo motivo del ricorso conduce alla cassazione della sentenza sul punto con decisione nel merito che conduce alla eliminazione della statuizione di condanna di Equitalia per responsabilità processuale aggravata. In ragione del solo parziale accoglimento del ricorso, le spese del presente giudizio possono essere integralmente compensate. P.Q.M. Rigetta i primi due motivi, accoglie il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione e, decidendo nel merito, elimina la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, a carico di Equitalia Sud s.p.a Compensa le spese di lite tra le parti.