Condanna per lite temeraria: disciplina incostituzionale?

La somma al cui pagamento il giudice può condannare la parte soccombente in favore della parte vittoriosa per lite temeraria ha sufficiente base legale la prescrizione della riserva relativa di legge prevista dalla Costituzione è, quindi, rispettata.

Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, con la sentenza numero 139, depositata il 6 giugno 2019. Lite temeraria il giudice ha troppa discrezionalità? La pronuncia in commento trae origine dalla questione di legittimità costituzionale dell’articolo 96, comma 3, c.p.c. nella parte in cui – stabilendo che «[i]n ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata» – non prevede l’entità minima e quella massima della somma oggetto della condanna. Secondo il rimettente la disposizione censurata, assegnando al giudice un potere ampiamente discrezionale senza fissare né un massimo né un minimo della somma al cui pagamento la parte soccombente può essere condannata, violerebbe la riserva di legge prescritta dall’articolo 23 Cost., nonché il principio di legalità di cui all’articolo 25, comma 2, Cost La riserva di legge in materia penale non vale per la condanna per lite temeraria. La questione sollevata dal giudice a quo con riferimento al principio di legalità di cui all’articolo 25, comma 2, Cost., recante la più stringente prescrizione della riserva di legge, che è assoluta, è inammissibile. Tale parametro, infatti, è stato evocato impropriamente dal momento che riguarda le sanzioni penali, nonché quelle amministrative “di natura sostanzialmente punitiva” cfr. Corte Cost., numero 223/2018 e non già prestazioni personali e patrimoniali imposte per legge, alle quali fa invece riferimento l’articolo 23 Cost L’obbligazione di corrispondere la somma prevista dall’articolo 96 c.p.c., pur perseguendo una finalità punitiva, costituendo un “peculiare strumento sanzionatorio” con una “concorrente finalità indennitaria” così Corte Cost., numero 152/2016 , non identifica una sanzione in senso stretto, espressione di un potere sanzionatorio. Si tratta, invece, di un’attribuzione patrimoniale in favore della parte vittoriosa nella controversia civile e a carico della parte soccombente prestazione che, in quanto istituita per legge, ricade nell’ambito dell’altro parametro evocato dal rimettente, l’articolo 23 Cost., recante la prescrizione della riserva di legge, che è solo relativa Corte Cost., numero 269/2017, numero 69/2017 e numero 83/2015 . La Consulta ricostruisce il contesto normativo. L’articolo 91 c.p.c. prevede in generale che il giudice, con la sentenza che chiude il processo, condanni la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquidi l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave – aggiunge l’articolo 96, comma 1, c.p.c. – il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza. Per lungo tempo il regime della soccombenza si è retto su questo doppio binario quello ordinario del rimborso delle spese di lite e quello aggravato del risarcimento del danno in caso di lite temeraria. Con la legge numero 69/2009, è stato introdotto il terzo comma dell’articolo 96 c.p.c. che – come già ricordato – prevede che «[i]n ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata». La funzione di questa somma è quella di sanzionare l’abuso del processo ad opera della parte soccombente mediante la condanna di quest’ultima, anche d’ufficio, al pagamento di tale somma in favore della controparte, oltre al o indipendentemente dal risarcimento del danno per lite temeraria. Danno da lite temeraria come opera l’equità? L’equità, alla quale fa riferimento la disposizione censurata, non è assimilabile al parametro di valutazione, previsto in generale dall’articolo 1226 cod. civ., come alternativo e sussidiario rispetto ai criteri legali di quantificazione del danno risarcibile. Secondo tale ultima disposizione, se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con “valutazione equitativa”. Si tratta di un criterio di misurazione di qualcosa il danno contrattuale o aquiliano che esiste nell’an, ma che il danneggiato non riesce a provare come perdita subita e mancato guadagno secondo il canone legale degli articolo 1223 e 2056 cod. civ. Può supplire allora un criterio di liquidazione alternativo e sussidiario di tale grandezza predata, quale oggetto di un’obbligazione civile che trova la sua fonte nella generale disciplina della responsabilità contrattuale o extracontrattuale la valutazione equitativa. Ciò che peraltro può occorrere proprio in ipotesi di risarcimento del danno da lite temeraria, ai sensi dell’articolo 96, comma 1, c.p.c Il terzo comma dell’articolo 96 c.p.c., invece, prevede che è il giudice a determinare l’an e il quantum della prestazione patrimoniale imposta alla parte soccombente, già obbligata ex lege al rimborso delle spese processuali e al risarcimento integrale del danno da lite temeraria. La valutazione equitativa del giudice, quindi, non si limita a quantificare una grandezza predata, ma dà vita a una nuova obbligazione avente a oggetto una prestazione patrimoniale ulteriore e distinta. Valutazione equitativa del giudice e riserva di legge. Il rispetto della riserva di legge, seppur relativa, prescritta dall’articolo 23 Cost. richiede che la fonte primaria stabilisca sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, richiedendosi in particolare che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dalla legge cfr. Corte Cost., numero 83/2015 e numero 115/2011 . Come precisato dalla giurisprudenza di legittimità, anche recente, il terzo comma dell’articolo 96 cod. proc. civ., rinviando all’equità, richiama il criterio di proporzionalità secondo le tariffe forensi e, quindi, la somma prevista da tale disposizione va rapportata alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa Cass. Civ., numero 25177/2018 e numero 25176/2018 . Questo criterio, ricavato in via interpretativa dalla giurisprudenza, è, peraltro, coerente e omogeneo rispetto sia a quello originariamente previsto dal quarto comma dell’articolo 385 c.p.c. che contemplava il limite del doppio dei massimi tariffari , sia a quello attualmente stabilito dal primo comma dell’articolo 26 cod. proc. amm. che similmente prevede il limite del doppio delle spese di lite liquidate secondo le tariffe professionali . Pertanto, si può concludere che la somma al cui pagamento il giudice può condannare la parte soccombente in favore della parte vittoriosa ha sufficiente base legale e quindi – ferma restando la discrezionalità del legislatore di calibrare meglio, in aumento o in diminuzione, la sua quantificazione – è comunque rispettata la prescrizione della riserva relativa di legge di cui all’articolo 23 Cost

Corte Costituzionale, sentenza 8 maggio – 6 giugno 2019, numero 139 Presidente Lattanzi – Redattore Amoroso Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 23 gennaio 2018, il Tribunale ordinario di Verona ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 96, terzo comma, del codice di procedura civile per contrasto con gli articolo 23 e 25, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui – stabilendo che «[i]n ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata» – non prevede l’entità minima e quella massima della somma oggetto della condanna. Il giudice, premesso di dover decidere su una domanda di restituzione di somme percepite a titolo di interessi nel corso di un rapporto di conto corrente bancario proposta da G. L. nei confronti del Banco popolare società cooperativa, riferisce che «nel caso di specie, data l’inconsistenza degli assunti attorei, viene in rilievo il disposto dell’articolo 96, terzo comma, codice di procedura civile introdotto dalla legge numero 69/2009». Il Tribunale rimettente – ritenendo che il terzo comma dell’articolo 96 cod. proc. civ. debba essere letto congiuntamente al primo sul risarcimento del danno in caso di temerarietà della lite – ravvisa la sussistenza di tale presupposto nella palese incompatibilità tra la pretesa fatta valere con la citazione e l’impegno assunto con l’istituto bancario a mezzo del contratto scritto di conto corrente. In particolare – riferisce il giudice rimettente – l’attore ha lamentato l’applicazione di interessi passivi ultralegali non pattuiti, variati unilateralmente in misura superiore al tasso soglia, nonché l’utilizzo del criterio della capitalizzazione. L’istituto convenuto ha invece dimostrato, mediante produzione documentale, che le condizioni contestate erano state pattuite ed erano conformi alla delibera del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio CICR che individua le modalità e i criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria. Ricorda, quindi, che la natura prevalentemente sanzionatoria dell’obbligazione pecuniaria prevista dalla disposizione censurata è stata riconosciuta da questa Corte nella sentenza numero 152 del 2016 e che le sezioni unite della Corte di cassazione hanno, a loro volta, riconosciuto, nella sentenza 5 luglio 2017, numero 16601, la natura polifunzionale della tutela risarcitoria, caratterizzata da una finalità non esclusivamente riparatoria, ma anche sanzionatoria cosiddetti danni punitivi . In tale ultima pronuncia è stato puntualizzato che «[o]gni imposizione di prestazione personale esige una “intermediazione legislativa”, in forza del principio di cui all’articolo 23 Cost., correlato agli articoli 24 e 25 , che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario». Pertanto, «deve esservi precisa perimetrazione della fattispecie tipicità e puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne irrogabili prevedibilità ». Alla luce di tali affermazioni, il rimettente osserva che mentre le condotte che integrano la responsabilità processuale aggravata primo comma dell’articolo 96 cod. proc. civ. risultano sufficientemente determinate, per contro, le conseguenze che gravano sul soccombente, ove il giudice faccia applicazione del terzo comma dell’articolo 96 cod. proc. civ., non sono preventivabili, atteso che la norma non indica l’entità minima e massima della somma oggetto della condanna da ciò, la violazione dei parametri indicati, senza che sia possibile un’interpretazione adeguatrice della norma censurata. 2.– Con atto depositato il 15 gennaio 2019, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o comunque manifestamente infondate. In punto di ammissibilità, l’Avvocatura generale rileva che il Tribunale non ha illustrato i motivi di contrasto della disposizione impugnata rispetto ai parametri costituzionali invocati. Nel merito, sostiene che le questioni sarebbero infondate. Richiama la sentenza numero 152 del 2016 di questa Corte, evidenziando che la condanna di cui all’articolo 96, terzo comma, cod. proc. civ. «“[] è testualmente e sistematicamente , inoltre, collegata al contenuto della “pronuncia sulle spese di cui all’articolo 91” e la sua adottabilità “anche d’ufficio” la sottrae all’impulso di parte e ne conferma, ulteriormente, la finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende o non è, comunque, esclusivamente quello della parte stessa, e si colora di connotati innegabilmente pubblicistici”». Quanto ai criteri di quantificazione, l’Avvocatura osserva che la disposizione riconosce al giudice un potere discrezionale, funzionale alla definizione, caso per caso, dell’entità della somma oggetto della condanna. Richiama in particolare la giurisprudenza Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 13 settembre 2018, numero 22272 sulla liquidazione equitativa del danno ai sensi dell’articolo 1226 del codice civile. Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 23 gennaio 2018, il Tribunale ordinario di Verona ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 96, terzo comma, del codice di procedura civile per contrasto con gli articolo 23 e 25, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui – stabilendo che «[i]n ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata» – non prevede l’entità minima e quella massima della somma oggetto della condanna. Secondo il rimettente la disposizione censurata, assegnando al giudice un potere ampiamente discrezionale senza fissare né un massimo né un minimo della somma al cui pagamento la parte soccombente può essere condannata, violerebbe la riserva di legge prescritta dall’articolo 23 Cost., nonché il principio di legalità di cui all’articolo 25, secondo comma, Cost. 2.– Va preliminarmente respinta l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato. Il Tribunale rimettente ha puntualmente descritto l’oggetto della controversia e ha plausibilmente ritenuto che l’azione promossa dall’attore avesse la connotazione della lite temeraria ai sensi dell’articolo 96, primo comma, cod. proc. civ. Su questo presupposto di fatto, il Tribunale ritiene di poter fare applicazione, in particolare, del terzo comma di tale disposizione che prevede che il giudice, in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91 cod. proc. civ., può, anche d’ufficio, condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, oltre alle spese di lite. Sussiste, quindi, la rilevanza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, avendo il Tribunale puntualmente motivato in ordine alla ritenuta applicabilità della disposizione censurata e sufficientemente argomentato il dubbio di non manifesta infondatezza delle questioni in ordine ai due invocati parametri. Parimenti, con motivazione altrettanto plausibile, ha escluso la possibilità di un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata. Sotto ogni profilo, quindi, le questioni sollevate sono ammissibili. 3.– È invece inammissibile la questione sollevata dal giudice rimettente con riferimento al principio di legalità di cui all’articolo 25, secondo comma, Cost., recante la più stringente prescrizione della riserva di legge, che è assoluta sentenza numero 180 del 2018 parametro questo impropriamente evocato perché riguarda le sanzioni penali, nonché quelle amministrative «di natura sostanzialmente punitiva» sentenza numero 223 del 2018 e non già prestazioni personali e patrimoniali imposte per legge, alle quali fa invece riferimento l’articolo 23 Cost. L’obbligazione di corrispondere la somma prevista dalla disposizione censurata, pur perseguendo una finalità punitiva, costituendo un «peculiare strumento sanzionatorio» con una «concorrente finalità indennitaria» sentenza numero 152 del 2016 , non identifica una sanzione in senso stretto, espressione di un potere sanzionatorio. Si tratta invece di un’attribuzione patrimoniale in favore della parte vittoriosa nella controversia civile e a carico della parte soccombente prestazione che, in quanto istituita per legge, ricade nell’ambito dell’altro parametro evocato dal rimettente, l’articolo 23 Cost., recante la prescrizione della riserva di legge, che è solo relativa sentenze numero 269 e numero 69 del 2017, e numero 83 del 2015 . 4.– Passando al merito della questione sollevata con riferimento a tale ultimo parametro, va premesso il contesto normativo in cui si colloca la disposizione censurata e che concerne il regime della soccombenza della parte nella lite civile. L’articolo 91 cod. proc. civ. prevede in generale che il giudice, con la sentenza che chiude il processo, condanni la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquidi l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave – aggiunge l’articolo 96, primo comma, cod. proc. civ. – il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza. Per lungo tempo il regime della soccombenza si è retto su questo doppio binario quello ordinario del rimborso delle spese di lite e quello aggravato del risarcimento del danno in caso di lite temeraria. Nel 2006, in occasione di un intervento riformatore del giudizio civile di cassazione, il legislatore aveva introdotto, per la prima volta, una prescrizione inedita a corredo di tale regime della soccombenza. Infatti, l’articolo 385 cod. proc. civ., nel disciplinare le spese di lite con il richiamo dell’ordinario regime del codice di rito, aveva previsto, al quarto comma, aggiunto dall’articolo 13 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, numero 40 Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della L. 14 maggio 2005, numero 80 , che «[q]uando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all’articolo 375, la corte, anche d’ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave» disposizione questa che – «diretta a disincentivare il ricorso per cassazione» ordinanza numero 435 del 2008 – era destinata ad avere vita breve perché abrogata dall’articolo 46, comma 20, della legge 18 giugno 2009 numero 69 Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile . La misura suddetta si traduceva in una somma diretta a sanzionare sia il ricorrente che, con colpa grave, avesse proposto il ricorso per cassazione, sia il resistente che parimenti versasse in colpa grave nel resistere con controricorso somma che era sì determinata secondo un criterio equitativo, ma con un limite ben preciso parametrato al doppio del massimo delle tariffe professionali. In giurisprudenza Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 7 ottobre 2013, numero 22812 si è qualificata tale somma come «una vera e propria sanzione processuale dell’abuso del processo perpetrato da una delle due parti» abuso che, nella specie, si è ritenuto sussistere, ad esempio, nella proposizione di un ricorso inammissibile perché tardivo. Le sezioni unite civili Corte di cassazione, sentenza 4 febbraio 2009, numero 2636 hanno fatto applicazione di tale disposizione in un caso in cui il ricorso era inammissibile perché la procura non era stata rilasciata in epoca anteriore alla notificazione del ricorso. In entrambi questi precedenti la somma aggiuntiva è stata determinata secondo un criterio equitativo sì, ma nel rispetto del limite massimo di legge. 5.– Come accennato, nel 2009 tale disposizione è stata abrogata, ma contestualmente una norma analoga, seppur non identica, è stata prevista nell’ordinaria disciplina delle spese di lite riferita a tutti i giudizi e non più solo al giudizio di cassazione. È stato così introdotto, dall’articolo 45, comma 12, della legge numero 69 del 2009, il terzo comma dell’articolo 96 cod. proc. civ. che – come già ricordato – prevede che «[i]n ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata». La funzione di questa somma è rimasta la stessa di quella prevista dal quarto comma dell’articolo 385 cod. proc. civ. una sanzione per l’abuso del processo a opera della parte soccombente mediante la condanna di quest’ultima, anche d’ufficio, al pagamento di tale somma in favore della controparte, oltre al o indipendentemente dal risarcimento del danno per lite temeraria. Però, rispetto al quarto comma dell’articolo 385 cod. proc. civ., il terzo comma dell’articolo 96 cod. proc. civ. presenta un duplice elemento differenziale. Da una parte, non si prevede più, come presupposto della condanna, la «colpa grave» della parte soccombente, perché l’incipit della disposizione censurata fa riferimento a «ogni caso», scilicet, di responsabilità aggravata che, come enunciato nella rubrica della disposizione, ne costituisce l’oggetto, sicché devono intendersi richiamati i presupposti del primo comma aver la parte soccombente agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 aprile 2018, numero 9912 . D’altra parte, soprattutto rileva, al fine della questione in esame, che il criterio di quantificazione della somma, oggetto della possibile condanna, è rimasto solo equitativo, non essendo più previsto il limite del doppio dei massimi tariffari. 6.– Tale nuova disposizione articolo 96, terzo comma, cod. proc. civ. è stata inizialmente riprodotta – in termini analoghi, anche se non identici – nell’articolo 26, secondo comma, dell’Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, numero 104 Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, numero 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo che ha parimenti previsto, nei giudizi innanzi al giudice amministrativo, la possibilità per il giudice, nel pronunciare sulle spese, di condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati. Al pari dell’articolo 96, terzo comma, cod. proc. civ., anche l’articolo 26 cod. proc. amm. prevedeva solo il criterio equitativo per la quantificazione della somma suddetta e, inizialmente, non conteneva alcun limite, diversamente dal quarto comma dell’articolo 385 cod. proc. civ. Ciò è apparso al legislatore costituire una manchevolezza da emendare. È quanto emerge chiaramente dai lavori preparatori del disegno di legge 2486-A, di conversione in legge del decreto-legge 24 giugno 2014, numero 90 Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari , convertito, con modificazioni, in legge 11 agosto 2014, numero 114. Nel parere del Comitato per la legislazione si segnala l’opportunità di fissare criteri di quantificazione della somma in questione. Si ha, allora, che l’articolo 41 del d.l. numero 90 del 2014, recante una disposizione di contrasto dell’abuso del processo, nel testo formulato in sede di conversione in legge, ha novellato l’articolo 26 cod. proc. amm., il cui secondo periodo del primo comma, nella formulazione attualmente vigente, prevede che «il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati». Mette conto anche ricordare che l’articolo 31 del decreto legislativo 26 agosto 2016, numero 174 Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, numero 124 , recante disposizioni per la regolazione delle spese processuali nei giudizi innanzi alla Corte dei conti, contiene, al comma 4, una norma analoga a quella censurata il giudice, quando pronuncia sulle spese, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte, o se del caso dello Stato, di una somma equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati. Quanto al processo tributario, l’articolo 15, comma 2-bis, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, numero 546 Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, numero 413 , nel testo da ultimo sostituito dall’articolo 9, comma 1, lettera f , numero 2 , del decreto legislativo 24 settembre 2015, numero 156, recante «Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10, comma 1, lettere a e b , della legge 11 marzo 2014, numero 23», prevede che si applicano le disposizioni di cui all’articolo 96, commi primo e terzo, cod. proc. civ. Tutte queste disposizioni – che integrano la disciplina delle spese di lite in sistemi processuali distinti civile, amministrativo, contabile, tributario , ma ormai tra loro comunicanti dopo l’introduzione della translatio iudicii articolo 59 della legge numero 69 del 2009 – seppur declinate con alcune varianti, hanno una matrice comune il contrasto dell’abuso del processo, sanzionato, in particolare, con la condanna della parte soccombente a favore della parte vittoriosa di una somma equitativamente determinata dal giudice. 7.– Questa obbligazione, che si affianca al regime del risarcimento del danno da lite temeraria, ha natura sanzionatoria dell’abuso del processo, commesso dalla parte soccombente, non disgiunta da una funzione indennitaria a favore della parte vittoriosa sentenza numero 152 del 2016 . Ciò perché l’attribuzione patrimoniale – a differenza di varie altre norme del codice di procedura civile che sanzionano con pene pecuniarie specifiche ipotesi di abuso del processo, quali quelle dell’inammissibilità o rigetto della ricusazione del giudice articolo 54, terzo comma, cod. proc. civ. e dell’arbitro articolo 815, quinto comma, cod. proc. civ. , o dell’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza impugnata articolo 283, secondo comma, e 431, quinto comma, cod. proc. civ. , o dell’inammissibilità, improcedibilità o rigetto dell’opposizione di terzo articolo 408 cod. proc. civ. – è riconosciuta proprio in favore della parte vittoriosa, al di là del danno risarcibile per lite temeraria, e non già – come si sarebbe portati a ritenere – in favore dell’Erario, benché sia anche l’amministrazione della giustizia a subire un pregiudizio come disfunzione e intralcio al suo buon andamento. Questa natura sanzionatoria della previsione censurata risulta, in tal modo, ibridata da una funzione indennitaria, realizzando complessivamente un assetto non irragionevole sentenza numero 152 del 2016 . 8.– Ciò premesso, la questione sollevata con riferimento all’articolo 23 Cost. non è fondata. 9.– Va innanzi tutto precisato che – diversamente da quanto sembra ritenere l’Avvocatura generale – l’equità, alla quale fa riferimento la disposizione censurata, non è assimilabile al parametro di valutazione, previsto in generale dall’articolo 1226 del codice civile, come alternativo e sussidiario rispetto ai criteri legali di quantificazione del danno risarcibile. Secondo tale ultima disposizione, se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con «valutazione equitativa». Si tratta di un criterio di misurazione di qualcosa il danno contrattuale o aquiliano che esiste nell’an, ma che il danneggiato non riesce a provare come perdita subita e mancato guadagno secondo il canone legale degli articolo 1223 e 2056 cod. civ. Può supplire allora un criterio di liquidazione alternativo e sussidiario di tale grandezza predata, quale oggetto di un’obbligazione civile che trova la sua fonte nella generale disciplina della responsabilità contrattuale o extracontrattuale la valutazione equitativa. Ciò che peraltro può occorrere proprio in ipotesi di risarcimento del danno da lite temeraria, ai sensi del primo comma dell’articolo 96 cod. proc. civ., che ben potrebbe essere determinato con valutazione equitativa del giudice ai sensi dell’articolo 1226 cod. civ. Né, per la stessa ragione, la norma censurata è assimilabile alla «valutazione equitativa delle prestazioni» ai sensi dell’articolo 432 cod. proc. civ., che parimenti presuppone che sia certo il diritto, ma non sia possibile determinare la somma dovuta dalla parte obbligata. Analoga può essere la valutazione equitativa del giudice nel caso di accoglimento dell’azione di classe prevista dall’articolo 140-bis, comma 12, del decreto legislativo 6 settembre 2005, numero 206 Codice del consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003, numero 229 . Invece, il terzo comma dell’articolo 96 cod. proc. civ, disposizione censurata, prevede che è il giudice a determinare l’an e il quantum della prestazione patrimoniale imposta alla parte soccombente, già obbligata ex lege al rimborso delle spese processuali e al risarcimento integrale del danno da lite temeraria. La valutazione equitativa del giudice non si limita a quantificare una grandezza predata, ma dà vita a una nuova obbligazione avente a oggetto una prestazione patrimoniale ulteriore e distinta. 10.– Né tanto meno si tratta di una pronuncia “secondo equità”, alternativa, in via derogatoria, alla pronuncia “secondo diritto”, quale quella di cui all’articolo 113 cod. proc. civ., ovvero quella richiesta dalle parti in caso di diritti disponibili ai sensi dell’articolo 114 cod. proc. civ. In tal caso l’equità viene in rilievo come canone di giudizio per la decisione della lite. È questo, in generale, il parametro valutativo che il giudice di pace è chiamato a utilizzare per la decisione di controversie di minor valore parametro che peraltro deve ritenersi necessariamente integrato dai «principi informatori della materia» sentenza numero 206 del 2004 , divenuti «principi regolatori della materia» articolo 339, terzo comma, cod. proc. civ. dopo la già citata riforma processuale del 2006. Anche la decisione degli arbitri può essere pronunciata secondo equità articolo 822 cod. proc. civ. , mentre le regole di diritto relative al merito della controversia vengono in rilievo, all’opposto, solo se espressamente previste dalle parti, nel compromesso o nella clausola compromissoria, o dalla legge articolo 829, terzo comma, cod. proc. civ. . Ma in tutte queste ipotesi l’equità come canone di giudizio non dà luogo ad alcuna nuova prestazione patrimoniale, differentemente dalla disposizione attualmente censurata. Parimenti su un piano diverso operano le misure di coercizione indiretta, quale quella di cui all’articolo 614-bis cod. proc. civ., che prevede che il giudice fissa, su richiesta della parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento, dove peraltro rileva, all’opposto, un criterio di non manifesta iniquità della somma così determinata. In breve, nel terzo comma dell’articolo 96 cod. proc. civ., oggetto della questione in esame, l’equità – lungi dall’essere criterio di misurazione di una grandezza predata ovvero parametro di giudizio alternativo alle regole di diritto o astreinte processuale – costituisce criterio integrativo di una fattispecie legale consistente – com’è appunto nella norma censurata – in una prestazione patrimoniale imposta in base alla legge. Viene allora in rilievo la riserva relativa di legge di cui all’articolo 23 Cost., parametro correttamente evocato dal giudice rimettente nel solco della già richiamata pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione Cassazione, sezioni unite civili, 5 luglio 2017, numero 16601 . 11.– Con riferimento a tale parametro va ribadito il principio secondo cui «[l]a riserva di legge, di carattere relativo, prevista dall’articolo 23 Cost. non consente di lasciare la determinazione della prestazione imposta all’arbitrio dell’ente impositore, ma solo di accordargli consistenti margini di regolazione delle fattispecie. La fonte primaria non può quindi limitarsi a prevedere una prescrizione normativa “in bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini, ma deve invece stabilire sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, idonei a delimitare la discrezionalità dell’ente impositore nell’esercizio del potere attribuitogli, richiedendosi in particolare che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dai pertinenti precetti legislativi» sentenza numero 69 del 2017 . Il rispetto della riserva di legge, seppur relativa, prescritta dall’articolo 23 Cost. richiede che la fonte primaria stabilisca sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, richiedendosi in particolare che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dalla legge sentenze numero 83 del 2015 e numero 115 del 2011 . Numerose sono le pronunce di illegittimità costituzionale di prestazioni imposte senza una sufficiente determinazione dei criteri per la loro quantificazione ex plurimis, sentenze numero 174 del 2017, numero 83 del 2015, numero 33, numero 32 e numero 22 del 2012 . Si tratta però di fattispecie di prestazioni varie, essenzialmente di natura tributaria, la cui quantificazione era stata rimessa all’autorità amministrativa. Invece, l’articolo 96, terzo comma, cod. proc. civ. assegna al giudice, nell’esercizio della sua funzione giurisdizionale, il compito di quantificare la somma da porre a carico della parte soccombente e a favore della parte vittoriosa sulla base di un criterio equitativo. Il legislatore, esercitando la sua discrezionalità particolarmente ampia nella conformazione degli istituti processuali ex plurimis, sentenza numero 225 del 2018 , ha fatto affidamento sulla giurisprudenza che, nell’attività maieutica di formazione del diritto vivente, soprattutto della Corte di cassazione sentenza numero 102 del 2019 , può specificare – così come ha già fatto – il precetto legale. Si ha, infatti, che nella fattispecie, la giurisprudenza di legittimità, anche recente, ha, appunto, precisato che il terzo comma dell’articolo 96 cod. proc. civ., rinviando all’equità, richiama il criterio di proporzionalità secondo le tariffe forensi e quindi la somma da tale disposizione prevista va rapportata «alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa» Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanze 11 ottobre 2018, numero 25177 e numero 25176 . Questo criterio, ricavato in via interpretativa dalla giurisprudenza, è peraltro coerente e omogeneo rispetto sia a quello originariamente previsto dal quarto comma dell’articolo 385 cod. proc. civ. che contemplava il limite del doppio dei massimi tariffari , sia a quello attualmente stabilito dal primo comma dell’articolo 26 cod. proc. amm. che similmente prevede il limite del doppio delle spese di lite liquidate secondo le tariffe professionali . Può dirsi, pertanto, che la somma al cui pagamento il giudice può condannare la parte soccombente in favore della parte vittoriosa ha sufficiente base legale e quindi – ferma restando la discrezionalità del legislatore di calibrare meglio, in aumento o in diminuzione, la sua quantificazione – è comunque rispettata la prescrizione della riserva relativa di legge di cui all’articolo 23 Cost. Per questi motivi la Corte Costituzionale 1 dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 96, terzo comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento all’articolo 25, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Verona con l’ordinanza indicata in epigrafe 2 dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 96, terzo comma, cod. proc. civ., sollevata, in riferimento all’articolo 23 Cost., dal Tribunale ordinario di Verona con l’ordinanza indicata in epigrafe.