Qualora l’appellante non compaia a due udienze consecutive il gravame è improcedibile

Nell’ipotesi di mancata comparizione la Corte d’Appello deve necessariamente applicare l’art. 348, comma 2, codice di rito senza alcuna discrezionalità al fine di garantire un corretto funzionamento della macchina giudiziaria e in ossequio al principio della ragionevole durata del processo. L’unico limite all’applicazione di tale disposizione può essere rinvenuto nella mancata comparizione per causa non imputabile al difensore.

Sul punto la Corte di Cassazione con ordinanza n. 6439/19, depositata il 6 marzo. La fattispecie. Nel caso in esame la Corte d’Appello aveva dichiarato improcedibile il gravame stante la mancata comparizione del difensore dell’appellante alle due udienze fissate ai sensi dell’art. 348, comma 2, codice di rito. L’errata indicazione del numero della sentenza nel dispositivo. In primo luogo la Corte ha ritenuto infondata la censura, sollevata dal ricorrente, relativa alla pretesa nullità della sentenza resa dal Giudice di gravame stante l’erroneo richiamo del numero errato della decisione resa dal Tribunale. Detto consiste in una mera irregolarità che non produce vizi qualora, nella motivazione, si indichi il numero corretto della decisione e, dalla disamina della stessa, si comprende chiaramente che si fa riferimento a quest’ultima. L’applicazione necessaria dell’art. 348, comma 2, codice di rito. Il supremo Collegio, inoltre, ha precisato che qualora l’appellante non compaia alle udienze il Giudice di gravame non potrà far altro che applicare l’art. 348, comma 2, codice di procedura civile senza alcuna discrezionalità. Tale disposizione processual-civilistica è conforme al principio del giusto processo e alla ragionevole durata dello stesso. Difatti se una parte, pur avendo dato impulso alla fase di gravame, non compare per ben due volte di seguito avanti al Giudice è ragionevole ritenere che tale impulso sia venuto meno. Una conclusione differente conferirebbe all’appellante il potere di rallentare lo svolgimento del processo sine die. La mancata comparizione per causa non imputabile. L’unico limite applicabile alla menzionata norma può essere individuato nella mancata comparizione per causa non imputabile” ma tale impossibilità oggettiva deve essere ben argomentata e precisata nel ricorso per cassazione dalla parte che ne ha interesse.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 3, ordinanza 22 novembre 2018 – 6 marzo 2019, n. 6439 Presidente Frasca - Relatore Graziosi Rilevato che Con sentenza del 3 luglio 2017 la Corte d’appello di Roma ha dichiarato improcedibile l’appello proposto da T.C. avverso sentenza del Tribunale di Roma n. 14005/2016, la quale aveva rigettato la sua domanda, proposta avverso Immobiliare di P.G. & amp C. s.a.s., di condanna a pagargli la somma di Euro 361.587 per le quote che di tale società egli avrebbe avuto al momento della sua estromissione da essa, essendo stata a suo avviso illegale tale estromissione. La corte territoriale ha dichiarato l’improcedibilità per mancata comparizione del difensore dell’appellante alle due udienze fissate ai sensi dell’art. 348 c.p.c., comma 2. Il T. ha proposto ricorso basato su due motivi, da cui si è difesa Immobiliare di P.G. & amp C. s.a.s. con controricorso. La società ha depositato pure memoria. Ritenuto che 1.1 Il motivo sub A denuncia nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, perché la sentenza della Corte d’appello di Roma nel suo dispositivo si riferisce non solo alla sentenza n. 14005/2016 del Tribunale di Roma - ovvero a quella impugnata -, ma anche ad un’altra sentenza sempre del Tribunale di Roma, la n. 18709/2016. Da ciò deriverebbe l’integrale nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 156 c.p.c., comma 2 viene invocato pure l’art. 111 Cost., in quanto nella motivazione della sentenza d’appello manca ogni riferimento alla sentenza n. 18709/2016. 1.2 Il dispositivo della sentenza d’appello è riportato nella prima pagina dal ricorso. Esso si articola in tre parti, la seconda e la terza relative alle spese di lite e al contributo unificato. La prima parte è come segue dichiara improcedibile l’appello proposto da T.C. nei confronti della sentenza n. 18709/2016 resa dal Tribunale di Roma, n. 14005/2016 pubblicata in data 12.07.2016 . È più che evidente l’errore materiale in cui è incorsa la corte territoriale, e che consiste nel riferimento in dispositivo - e non invece nella motivazione, come lo stesso ricorrente riconosce -, oltre che alla sentenza impugnata, la n. 14005/2016, ad un’altra pronuncia. La nullità discende soltanto dalla discrasia tra motivazione e dispositivo che impedisca di individuare le statuizioni contenute nel provvedimento v., per es., Cass. sez. 1, 17 febbraio 2008 n. 29490 . Nel caso in cui, invece, nulla osta alla comprensione della sostanza del giudizio si è dinanzi appunto ad un mero errore materiale, riconducibile quindi all’art. 287 c.p.c. e non qualificabile error in iudicando in quanto non incide affatto sul reale contenuto del provvedimento cfr. Cass. sez. 1, 26 settembre 2011 n. 19601 e Cass. sez. 2, 11 aprile 2002 n. 5196 . E tale è il caso in esame, in quanto, come già si accennava, lo stesso ricorrente ammette che la motivazione non diventa per nulla un elemento di discrasia infatti, come si esprime proprio il motivo in esame, manca radicalmente nelle motivazioni della sentenza che qui si impugna qualsivoglia riferimento alla sentenza n. 18709/2016 del Tribunale di Roma . Il motivo, pertanto, risulta manifestamente infondato. 2.1 Il motivo sub B denuncia violazione o falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente che, in forza di una corretta interpretazione del principio costituzionale del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., non sarebbe giusto qualunque processo che si limiti ad essere formalmente regolare giusto processo sarebbe una formula cui è assegnato il significato pratico di processo coerente con quei valori di civiltà giuridica, che in un determinato contesto storico sono espressi o condivisi dalla collettività , id est dal popolo in nome del quale la giustizia viene amministrata ai sensi dell’art. 101 Cost., comma 1. In quest’ottica, l’applicazione meccanica e immediata dell’art. 348 c.p.c., comma 2, diventa una falsa e strumentale applicazione della norma che lede i più elementari principi costituzionali . La prima ragione di ciò deriverebbe dal fatto che il processo civile sarebbe proveniente da un teleologico assetto delle forme, di cui il terzo comma dell’art. 156 c.p.c., costituirebbe una traccia evidente non può esservi nullità di atto processuale se questo atto ha raggiunto il suo scopo. La seconda ragione risiederebbe nel fatto che le norme processuali, se fossero ambigue, dovrebbero comunque essere interpretate nel senso di far raggiungere una decisione in merito ciò perché costituiscono solo lo strumento per garantire la giustizia della decisione, non il fine stesso del processo al riguardo si invoca un passo motivazionale di S.U. 12 dicembre 2014 n. 26242 sul necessario superamento della primazia delle norme processuali sul diritto sostanziale . La terza ragione consiste nel dovere il diritto processuale come anche quello sostanziale essere interpretato alla luce delle regole sovranazionali imposte dal diritto comunitario . Il Trattato sull’Unione Europea, c.d. Trattato di Lisbona, art. 6, comma 3, ratificato e reso esecutivo dalla L. 2 agosto 2008, n. 130, stabilisce che i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali . E l’art. 6 CEDU sancisce il principio della effettività della tutela giurisdizionale nell’interpretazione di quest’ultima norma, la Corte di Strasburgo ha ripetutamente affermato che il principio di effettività della tutela giurisdizionale va inteso quale esigenza che la domanda di giustizia dei consociati debba, per quanto possibile, essere esaminata sempre e preferibilmente nel merito , evitandosi quindi gli eccessi di formalismo, in particolare quanto all’ammissibilità e alla ricevibilità dei ricorsi, dovendosi per quanto possibile garantire una concreta esplicazione al diritto di accesso a un tribunale previsto proprio dall’art. 6 CEDU. Quindi la sentenza 28 giugno 2005, Zednik c. Repubblica Ceca, pronunciata dalla Corte di Strasburgo nella causa 74328/2001, ha affermato che le cause di nullità o di inammissibilità non possono restringere l’accesso alla giustizia fino al punto di vulnerare l’essenza stessa del diritto fatto valere le suddette cause sarebbero compatibili con l’art. 6 CEDU, § 1, solo se dirette a un fine legittimo e se sussiste un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo scelto. Sulla stessa linea si sono poste altre sentenze della Corte EDU, cioè la sentenza Koskina c. Grecia del 21 febbraio 2008 in causa 2/6/02/2006 e la sentenza Kemp c. Granducato di Lussemburgo del 24 agosto 2008 in causa 17140/2005. 2.2 Va premesso che, in ordine all’applicazione, da parte del giudice d’appello, dell’art. 348 c.p.c., che disciplina appunto l’improcedibilità dell’appello e di cui è pertinente qui il comma 2 Se l’appellante non compare alla prima udienza, benché si sia anteriormente costituito, il collegio, con ordinanza non impugnabile, rinvia la causa ad una prossima udienza, della quale il cancelliere dà comunicazione all’appellante. Se anche alla nuova udienza all’appellante non compare, l’appello è dichiarato improcedibile anche d’ufficio , il ricorrente, nella premessa del ricorso, asserisce Il difensore dell’odierno ricorrente non si è presentato alla prima udienza per un disguido col suo sostituto e non ricevendo l’avviso ex art. 348 c.p.c., comma 2, non si è presentato nemmeno alla seconda udienza fissata a breve scadenza dalla prima, impedendo la Corte allo stesso difensore di argomentare e giustificare la sua assenza la seconda udienza, pervenendo così il processo all’applicazione automatica dell’improcedibilità dell’appello ricorso, pagina 4 . Questo passo è palesemente generico per quanto concerne sia il disguido sia la pretesa mancata ricezione dell’avviso, nulla indicando il ricorrente sulle ragioni, in particolare, per cui l’avviso non sarebbe stato ricevuto, e non allegandolo al ricorso. In effetti, lo stesso ricorrente, a ben guardare, non sostiene che la corte territoriale abbia violato l’art. 348 c.p.c., comma 2, bensì censura tale norma alla radice, come meccanismo di rito la cui automatica applicazione integrerebbe un formalismo contrastante con i principi costituzionali ed eurounitari. 2.3 La dichiarazione di improcedibilità ex art. 348 c.p.c., comma 2, confliggerebbe, quindi, con il principio del raggiungimento di scopo. Questa prima ragione indicata nel motivo in esame è palesemente inconsistente, dal momento che tale principio si applica al vizio di nullità, e non a quello di improcedibilità. D’altronde, non essendo il difensore dell’attuale ricorrente comparso in nessuna delle due udienze, non si vede come possa riscontrarsi in quanto è avvenuto il sanante raggiungimento di scopo, a meno che - e allora con un più che evidente eccesso, conducente alla irragionevolezza - si intenda sostenere che lo scopo è stato già raggiunto con la proposizione dell’appello, prospettando così, irragionevolmente appunto, che, una volta proposto l’appello, il relativo giudizio non debba essere governato da alcuna regola presidiata da sanzione, ma anzi possa essere rallentato - id est intralciato - ad libitum dalla parte che l’ha promosso. 2.4 La seconda e la terza ragione attingono sia ai principi costituzionali sia ai principi eurounitari per sostenere - in sintesi - che le regole di rito, per quanto possibile, non possono essere ostacolo a raggiungere una decisione di merito. Il principio non è discutibile sotto alcun profilo, dal momento che le norme di rito sono ontologicamente strumentali, e disciplinano appunto lo strumento processuale che è garantito dall’ordinamento per la tutela effettiva del diritto sostanziale. Ma proprio per garantire quest’ultima il processo non può non essere regolato, per evitare che ne sia fatto abuso e che quindi la complessiva macchina giudiziaria sia inceppata e rallentata, così da riverberare anche sugli altri processi il disordine che in ciascuno di essi si manifesterebbe. L’applicazione corretta di norme di rito, a ben guardare, se queste sono rispettose dei principi del giusto processo, costituisce il più efficiente strumento di tutela delle norme sostanziali. E pertanto il comma 1 dell’art. 111 Cost., come inserito dalla L. Cost. 23 novembre 1999, n. 2, in sintonia con il diritto ad un processo equo prescritto e descritto nell’art. 6 CEDU, enuncia che il giusto processo è regolato dalla legge e i principi che la legge deve osservare nel regolare il processo civile sono in massima parte quelli indicati dal successivo comma 2. Corrispondente, allora, al principio del giusto processo è il contraddittorio tra le parti in parità davanti a giudice imparziale ma la legge deve anche garantire la ragionevole durata di tale esercizio del contraddittorio tra le parti e della conseguente attività giurisdizionale. Se una parte, allora, pur avendo dato impulso mediante la proposizione di un’impugnazione ed essersi costituita, per due volte di seguito non compare davanti al giudice, è ragionevole ritenere che l’impulso sia venuto meno, poiché altrimenti si conferirebbe all’appellante la facoltà di rallentare lo svolgimento del processo dopo che questo già per due udienze lo ha atteso per lo sviluppo del contraddittorio e la susseguente decisione giurisdizionale e quindi un siffatto rallentamento supererebbe sine dubio i confini della ragionevole durata del processo. D’altronde, l’unico limite individuabile nell’applicazione di questo canone temporale racchiuso nell’art. 348 c.p.c., comma 2, sarebbe l’esistenza di una sopravvenuta oggettiva impossibilità dell’appellante di comparire in quelle due udienze, ovvero la causa non imputabile cui fa riferimento, per i termini perentori, l’art. 153 c.p.c In tal caso sarebbe da valutare se il principio di rimessione in termini sia estensibile pure alla fattispecie dell’art. 348 c.p.c., comma 2 allo stato, l’art. 153 c.p.c. - come l’analogo previgente art. 184 bis c.p.c. - non ha raggiunto una tale espansione per l’art. 348, comma 1, invece, v. per tutti S.U. 5 agosto 2016 n. 16598 ma di una simile impossibilità oggettiva, come già sopra accennato, il ricorrente non fa menzione. Anche questo motivo, pertanto, non merita accoglimento. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del grado - liquidate come da dispositivo alla controricorrente sussistono altresì D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis. dello stesso articolo. P.Q.M. Rigetta il ricorso, condannando il ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese processuali, liquidate in complessivi Euro 8000, oltre a Euro 200 per gli esborsi e al 15% per spese generali, nonché agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.