Illecito deontologico permanente e prescrizione dell’azione di accertamento della violazione

L'avvocato che si appropria dell'importo dell’assegno emesso a favore del cliente, omettendo persino di informarlo dell'esito del processo, realizza una condotta che viola la norma deontologica continuamente e che si protrae fino alla messa a disposizione del cliente delle somme dovute.

Tra le questioni di massimo interesse per gli avvocati vi sono quelle legate alle sanzioni disciplinari per violazione delle norme del codice deontologico. Ciò è quello che accade nel caso sottoposto di recente alla Suprema Corte e di cui ora ci si occupa sentenza n. 5200/19 depositata il 21 febbraio . La vicenda. In particolare, avveniva che, a causa dell'esposto presentato da un ex cliente di un avvocato, veniva avviato il procedimento disciplinare contro quest'ultimo. In particolare, i motivi sui quali si fondava l’esposto dell’ex cliente erano i seguenti. Questi preliminarmente esponeva di aver conferito mandato al legale, interessato dall’esposto, affinché questi intraprendesse un’azione di risarcimento nei confronti del responsabile di un sinistro stradale, in cui era stato danneggiato l’auto del cliente, e che ovviamente la richiesta risarcitoria doveva essere diretta anche nei confronti della compagnia assicurativa che copriva la responsabilità civile dell'autovettura dell'investitore. Tuttavia, continuava nell'esposto il cliente, egli era stato costretto a chiedere ripetute notizie del giudizio al legale, dal quale non aveva mai ragguagli e lamentava che, ad ogni richiesta, l’avvocato si limitava a riferire genericamente che il processo era in corso e che il ritardo nella sua definizione era dovuto alle note lungaggini processuali. A quel punto, insospettito da tale comportamento, il cliente conferiva mandato ad un altro legale affinché effettuasse le opportune verifiche sul giudizio. Era a seguito degli accertamenti realizzati da quest'ultimo professionista che il cliente veniva a conoscenza che il giudizio era stato già definito dal competente ufficio del giudice di pace, il quale aveva condannato la compagnia al risarcimento del danno e anche al pagamento delle spese del processo in favore del difensore che aveva anticipato le stesse. Dopo la condanna dinanzi al COA di riferimento, inutile si presentava il successivo ricorso, ad opera del legale ritenuto responsabile, al Consiglio Nazionale Forense. Infatti, anche quest’ultimo Ente confermava le conclusioni raggiunte dal provvedimento di primo grado e, così, respingeva il ricorso del legale. Ma ciò che è interessante analizzare sono le motivazioni che hanno portato il CNF a ribadire la fondatezza dell'addebito all'avvocato. Nello specifico, il CMS rilevava innanzitutto come dal materiale probatorio in ispecie, dalla dichiarazione dell'Istituto di credito che aveva negoziato l’assegno emergesse chiaramente che l'assegno era stato inviato dall'assicurazione al legale e che quest’ultimo lo aveva riscosso mediante accredito per l'intero su un proprio conto corrente. Rilevava, ancora, il Consiglio Nazionale che tale circostanza documentale, tra l'altro, non risultava smentita dalla prova testimoniale avversa. Inoltre, sempre dal materiale documentale emergeva che al versamento al legale dell'intero ammontare dell'assegno, all'epoca della negoziazione del titolo, non era seguita alcuna ripartizione di somme tra avvocato e parte assistita giacché, diversamente, il legale avrebbe dovuto accreditare una ingente somma a favore del proprio cliente. Versamento che, invece, risultava inesistente e, comunque, non provato. Inoltre, il CNF riteneva di assoluta non verosimiglianza la tesi difensiva dell'incolpato secondo cui egli sarebbe stato vittima di un tentativo di estorsione da parte del cliente il quale, prima della querela ed esposto al Consiglio dell'Ordine territoriale, gli avrebbe contestato una presunta appropriazione indebita richiedendo una somma assolutamente sproporzionate ed ingiustificata, pari ad oltre il triplo della sorte capitale, pur già riscossa, minacciando altrimenti la denuncia dei fatti all'autorità giudiziaria. La questione arriva sino alla Corte di Cassazione che, dal proprio canto, conclude la vicenda giudiziaria de qua rigettando il ricorso dell'incolpato per i seguenti motivi. Prescrizione. con riferimento all'eccezione sollevata dal legale e relativa alla prescrizione dell'azione disciplinare che notoriamente avviene nel termine di cinque anni decorrenti dal giorno di realizzazione dell'illecito oppure, quando questi consiste in una condotta protratta nel tempo dalla data di cessazione della condotta stessa, la Suprema Corte ne ribadisce la infondatezza. La motivazione è la seguente la norma deontologica contestata all'incolpato non può essere interpretata nel senso della irrilevanza del successivo indebito trattenimento del denaro incassato. Vieppiù che ben due circostanze importanti sono state dimostrate e, precisamente, che il legale per diverso tempo dall’accredito per intero dell’assegno non aveva versato al cliente quanto a questi dovuto e che ancora alla attualità il cliente non era stato soddisfatto nel proprio credito. Comportandosi in tal modo, il legale ha assunto una condotta destinata a protrarsi fino alla restituzione delle somme, che già il professionista avrebbe dovuto mettere a disposizione del cliente. In conclusione, comportandosi in tal modo il professionista ha, di fatto, continuato a violare ripetutamente la norma deontologica e la sua condotta ha assunto natura di illecito permanente. Pertanto, per le Sezioni Unite della Suprema Corte correttamente la sentenza impugnata aveva escluso il carattere istantaneo della condotta addebitata al professionista e rigettato l'eccezione di prescrizione. Infatti, gli Ermellini ricordano che per costante orientamento l'avvocato il quale si appropria dell'importo dell'assegno emesso a favore del proprio assistito, dalla controparte soccombente in giudizio civile, omettendo di informare il cliente dell'esito del processo che lo aveva visto vittorioso e di restituire le somme di sua pertinenza, pone essere una condotta connotata dalla continuità della violazione deontologica, destinata a protrarsi fino alla messa a disposizione del cliente delle somme di sua spettanza. Sicchè, ove tale comportamento persiste fino alla decisione del consiglio dell'ordine, non decorre il termine di legge dei cinque anni per l'accertamento della violazione deontologica e non si può parlare di prescrizione. A fronte di ciò pure gli Ermellini hanno escluso che la condotta dell’avvocato avesse il carattere istantaneo della violazione, scartando anche la minima possibilità di una potenziale avvenuta prescrizione dell’azione.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 12 – 21 febbraio 2019, n. 5200 Presidente Schirò – Relatore Giusti Fatti di causa 1. - Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Napoli, con decisione in data 5 marzo 2013, ha inflitto all’avvocato C.A. la sanzione disciplinare della sospensione per mesi quattro dall’esercizio dell’attività professionale, perché, in violazione delle norme del codice deontologico, si era appropriato - apponendo o facendo apporre, sull’assegno emesso dalla Fondiaria Assicurazioni, la firma apocrifa del proprio assistito D.R. - della somma di Euro 3.200, e comunque perché non aveva informato il cliente circa la definizione del giudizio. 2. - Il procedimento disciplinare era stato avviato a seguito di un esposto presentato il 7 settembre 2010 dal D. , il quale aveva riferito - di avere conferito mandato nell’anno 2001 all’avvocato C. affinché intraprendesse un’azione legale nei confronti del responsabile di un sinistro stradale in cui era stata danneggiata la propria autovettura che la richiesta avrebbe dovuto essere finalizzata al risarcimento dei danni subiti anche nei confronti della Fondiaria Assicurazioni, che copriva la responsabilità civile dell’autovettura dell’investitore - di avere richiesto notizie del procedimento civile intrapreso dall’avvocato C. , il quale aveva sempre riferito che il giudizio era in corso per le note lungaggini processuali, e di essersi perciò rivolto, insospettito per tale comportamento, all’avvocato M.L. perché effettuasse le opportune verifiche - che quest’ultima aveva effettuato accertamenti ed era venuta a conoscenza che il giudizio era stato definito dal Giudice di pace di Napoli, il quale, con sentenza in data 17 marzo 2003, aveva condannato i convenuti al risarcimento del danno ed al pagamento delle spese di giudizio in favore del difensore antistatario. 3. - Con sentenza depositata in segreteria il 16 giugno 2018, il Consiglio nazionale forense ha respinto il ricorso dell’incolpato. 3.1. - Il giudice disciplinare ha innanzitutto disatteso l’eccezione di prescrizione, rilevando che la condotta addebitata non ha carattere istantaneo, ma si protrae nel tempo fino alla restituzione delle somme che l’avvocato avrebbe dovuto mettere immediatamente a disposizione del cliente. Il Consiglio nazionale forense ha ribadito la fondatezza dell’addebito rilevando - che dalla dichiarazione della Banca Intesa S. Paolo in data 25 gennaio 2011 emerge che l’assegno in questione, dell’importo di Euro 3.200, era stato negoziato in circolarità in data 21 ottobre 2005 ed accreditato per l’intero sul conto corrente intestato all’avvocato C. - che tale circostanza documentale, non smentita dalla prova testimoniale assunta il 21 settembre 2017, consente di ritenere fondata la prospettazione dell’esponente di non essere stato a conoscenza dell’avvenuto incasso della somma che lo stesso versamento dell’intero ammontare dell’assegno dimostra che all’epoca della negoziazione del titolo non vi sia stata alcuna ripartizione di somme tra avvocato e parte assistita, giacché, altrimenti, avrebbe potuto essere accreditata la minor somma di Euro 2.451,31 Euro 3.200 meno Euro 746,69 o l’avvocato C. avrebbe potuto dimostrare l’uscita dal conto corrente dell’importo da riversare al cliente. Il CNF ha ritenuto di assoluta non verosimiglianza, oltre che non dimostrata ed anzi contraddetta dai vari elementi acquisiti, la tesi difensiva dell’incolpato, secondo cui egli sarebbe stato vittima di un tentativo di estorsione da parte del D. , il quale, prima della querela e dell’esposto al Consiglio dell’ordine territoriale, gli avrebbe contestato una presunta appropriazione indebita richiedendo una somma assolutamente sproporzionata ed ingiustificata, pari ad oltre il triplo della sorte capitale, pur già riscossa, minacciando altrimenti la denuncia dei fatti all’Autorità giudiziaria. Secondo il CNF, anche considerazioni di ordine logico inducono a ritenere credibile e veritiera la versione dell’esponente innanzitutto il fatto che il D. dovrebbe avere atteso, consapevolmente, ben cinque anni dalla negoziazione del titolo 21 ottobre 2005 per reclamare le somme di propria spettanza a seguito di un sinistro che era occorso nel 2001, e cioè nove anni prima , e poi, in attuazione di tale disegno luciferino , avrebbe dato corso nel medesimo anno ad un’azione civile contro l’istituto di credito millantando falsamente l’apocrifia autoindotta della firma esponendosi a tutti i rischi conseguenti al solo fine di locupletare ulteriori Euro 746,69, non avendo ottenuto risultato l’estorsione tentata in tesi nei confronti dell’avvocato C. . D’altra parte, secondo il CNF, l’avvocato C. avrebbe potuto richiedere la prova liberatoria, e non lo ha fatto, dimostrando l’autenticità della firma e quindi il consenso del cliente presente alla negoziazione, ma in nessuna sede tale prova è stata richiesta, tant’è vero che il giudizio civile davanti al Giudice di pace si è concluso negativamente per l’avvocato C. infatti con sentenza del 13 gennaio 2012 è stata accertata l’illegittima negoziazione in data 21 ottobre 2005 da parte della banca all’avvocato C. , e l’istituto è stato condannato al pagamento della somma di Euro 3.200 in favore del D. , con rivalsa a carico dell’avvocato . 4. - Per la cassazione della sentenza del CNF il C. ha proposto ricorso, con atto notificato il 28 agosto 2018, sulla base di due motivi. Nessuno degli intimati ha depositato controricorso. Ragioni della decisione 1. - Con il primo motivo violazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 51, convertito nella L. 22 gennaio 1934, n. 36 violazione degli artt. 132, 156 e 161 cod. proc. civ. e art. 118 disp. att. cod. proc. civ., nonché dell’art. 125 cod. proc. pen. vizio di motivazione ex art. 111 Cost., artt. 132, 156 e 161 cod. proc. civ. e art. 118 disp. att. cod. proc. civ. il ricorrente si duole che la sentenza impugnata non abbia riconosciuto l’intervenuta prescrizione quinquennale dell’azione disciplinare, nonostante - a fronte di un illecito consistente nell’incasso abusivo di un assegno bancario negoziato il 21 ottobre 2005 - l’azione disciplinare sia stata avviata dopo oltre cinque anni, essendo stato l’invito a rendere chiarimenti redatto in data 1 marzo 2011 ed essendo stata la citazione a comparire, con la formulazione dell’incolpazione, notificata il 5 novembre 2012. Ad avviso del ricorrente, la condotta contestata avrebbe natura appropriativa, consistendo nel trafugamento di somme destinate al proprio cliente mediante l’apposizione della firma apocrifa di costui e a sua insaputa, e avrebbe quindi natura istantanea, tanto più che il danneggiato non ha mai richiesto la restituzione delle somme, avendo attivato la propria pretesa giudiziaria contro l’istituto bancario, con atto di citazione notificato in data 19 ottobre 2010. La sentenza impugnata sarebbe viziata non solo da violazione di legge, per l’erronea interpretazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 51, ma anche da omessa motivazione rispetto al devoluto. 1.1. - Il motivo è infondato. Ai sensi del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 51, l’azione disciplinare nei confronti dell’avvocato si prescrive nel termine di cinque anni, che decorrono dal giorno di realizzazione dell’illecito, ovvero, se questo consista in una condotta protratta, definibile in termini penalistici permanente o continuata, dalla data di cessazione della condotta stessa Cass., Sez. U., 1 ottobre 2003, n. 14620 Cass., Sez. U., 26 novembre 2008, n. 28159 Cass., Sez. U., 2 febbraio 2015, n. 1822 . Contrariamente all’assunto del ricorrente, la norma deontologica contestata all’incolpato non può essere interpretata nel senso della irrilevanza del successivo indebito trattenimento del denaro incassato. La condotta del professionista, nel caso in esame, presenta i connotati tipici della continuità della violazione deontologica, per tale sua natura destinata a protrarsi fino alla restituzione delle somme che il medesimo avrebbe dovuto mettere a disposizione del cliente cfr. Cass., Sez. U., 30 giugno 2016, n. 13379 . Invero, la condotta appropriativa posta in essere dall’avvocato non si è esaurita nell’incasso dell’assegno destinato al proprio cliente, ma si è accompagnata ad una mancata messa a disposizione delle somme riscosse, realizzata attraverso l’omessa informazione circa la definizione del processo civile in esito del quale l’assegno era stato emesso dalla controparte soccombente in quel giudizio. Correttamente, pertanto, la sentenza impugnata ha escluso il carattere istantaneo della condotta addebitata al professionista e rigettato l’eccezione di prescrizione. Infatti, l’avvocato il quale si appropri dell’importo dell’assegno emesso a favore del proprio assistito dalla controparte soccombente in un giudizio civile, omettendo di informare il cliente dell’esito del processo che lo aveva visto vittorioso e di restituirgli le somme di sua pertinenza, pone in essere una condotta connotata dalla continuità della violazione deontologica, destinata a protrarsi fino alla messa a disposizione del cliente delle somme di sua spettanza, sicché, ove tale comportamento persista fino alla decisione del Consiglio dell’ordine, non decorre la prescrizione di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 51. 2. - Con il secondo mezzo violazione di legge in relazione agli artt. 132, 156 e 161 cod. proc. civ., art. 118 disp. att. cod. proc. civ. e art. 125 cod. proc. pen. violazione dell’art. 533 cod. proc. pen. nullità della sentenza per omessa motivazione, in relazione agli artt. 132, 156 e 161 cod. proc. civ., art. 118 disp. att. cod. proc. civ. e art. 125 cod. proc. pen. vizio di motivazione ex art. 111 Cost., artt. 132, 156 e 161 cod. proc. civ. e art. 118 disp. att. cod. proc. civ. il ricorrente censura che - nonostante la prova liberatoria fornita dal teste N.A. all’epoca dei fatti funzionario della banca dove fu negoziato l’assegno in questione , il quale ha riferito che, secondo la prassi bancaria, l’incasso del titolo risultava impossibile da parte del C. senza la presenza del beneficiario - il CNF abbia ritenuto irrilevante la deposizione, sul rilievo che il teste non avrebbe saputo riferire in ordine alla presenza fisica del beneficiario all’atto dell’operazione bancaria. Ad avviso del ricorrente, poiché l’incasso del titolo risultava impossibile per l’avvocato senza la presenza del beneficiario, dalla sentenza impugnata non sarebbe dato evincere attraverso quali modalità la condotta appropriativa in contestazione si sarebbe realizzata. La ricostruzione del fatto storico nella sua materialità - modalità e circostanze della negoziazione dell’assegno - non sarebbe neppure ipotizzata nella sentenza del CNF, e ciò ad onta della deposizione testimoniale. La motivazione della sentenza sarebbe del tutto omessa. 2.1. - La censura è priva di fondamento. Il Consiglio nazionale forense è pervenuto alla conferma del giudizio di responsabilità disciplinare del C. sulla base di un analitico e penetrante esame valutativo del compendio probatorio, rappresentato dalle risultanze documentali e dalla deposizione del teste N. , escusso dallo stesso Consiglio nazionale all’udienza del 21 settembre 2017. Il CNF ha a tal fine valorizzato la dichiarazione della Banca Intesa S. Paolo circa l’avvenuto accredito per l’intero sul conto corrente intestato all’avvocato dell’importo dell’assegno di Euro 3.200 intestato al D. , desumendo dal versamento dell’intero ammontare dell’assegno la conferma che, all’epoca della negoziazione del titolo, non vi è stata alcuna ripartizione di somme tra avvocato e parte assistita. Il giudice disciplinare ha poi considerato l’esito del giudizio promosso dinanzi al Giudice di pace dal D. conclusosi negativamente per l’avvocato C. , essendo stata accertata l’illegittima negoziazione del titolo da parte della banca, con condanna dell’istituto di credito e rivalsa a carico del C. , giudizio nel quale l’incolpato avrebbe potuto richiedere la prova liberatoria, e non lo ha fatto, dimostrando l’autenticità della firma e quindi il consenso del cliente presente alla negoziazione . Il CNF ha valutato la deposizione del teste N. , sottolineando che lo stesso non ha confermato l’assunto dell’incolpato in ordine alla presenza del D. al momento della negoziazione dell’assegno essendosi il teste limitato a ribadire l’impossibilità da parte dell’avvocato C. di incassare l’assegno secondo la prassi bancaria, ma nulla avendo aggiunto circa la presenza fisica della parte assistita . Il Consiglio nazionale forense, infine, ha evidenziato le considerazioni di ordine logico che militano nel senso della veridicità dell’esposto del D. e l’assoluta non verosimiglianza della tesi difensiva dell’incolpato. La valutazione operata dal giudice disciplinare di ogni fatto rilevante è affidata ad una motivazione coerente e congrua, priva di mende logiche e giuridiche. Il ricorrente critica l’esito al quale è pervenuta la sentenza impugnata, dolendosi, per un verso, che non sia stato dato rilievo alla deposizione del teste N. , il quale avrebbe escluso in via categorica che l’incolpato avesse potuto incassare il titolo senza la presenza fisica del beneficiario, così incrinando irrimediabilmente l’assunto accusatorio , e sostenendo, per l’altro verso, che sarebbe mancata la ricostruzione del fatto storico nella sua materialità in relazione alle modalità e circostanze della negoziazione dell’assegno . In realtà, così come articolata, la doglianza del ricorrente, nel contestare la persuasività del convincimento fondato dal giudice disciplinare sull’esame delle risultanze probatorie e nel contrapporvi la propria tesi difensiva, finisce per attingere il piano della sufficienza motivazionale, ciò che non è più ammesso nel regime di sindacato minimale ex art. 360 cod. proc. civ., n. 5 novellato. La giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai consolidata Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053 Cass., Sez. U., 18 aprile 2018, n. 9558 Cass., Sez. U., 31 dicembre 2018, n. 33679 nell’affermare che - il novellato testo dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma nel giudizio di legittimità è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, in quanto attiene all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione. 3. - Il ricorso è rigettato. 4. - Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, non avendo l’intimato Consiglio dell’ordine territoriale svolto attività difensiva in questa sede. 5. - Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002 - della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.