La domanda giudiziale per fare valere la distanza minima tra costruzioni è diversa da quella relativa al rispetto delle distanze per le vedute

Lo scopo di una domanda giudiziale per fare valere il rispetto della distanza minima di costruzione tra edifici è quello di evitare la creazione di intercapedini potenzialmente dannose per le persone.

Diversamente, l’azione volta alla verifica del rispetto della distanza di costruzione di vedute rispetto al confine è motivata dalla necessità di tutelare il proprietario/attore dalla potenziale intrusione visiva da parte del vicino e quindi salvaguardare la sua privacy. Le due azioni hanno presupposti e fini diversi e non sono interscambiabili. Incorre, conseguentemente, in un vizio di ultrapetizione un Giudice che, a fronte di una richiesta di verifica del rispetto delle distanze di una veduta, si pronunci sulla violazione del convenuto del rispetto delle distanze di edificazione dal confine. I giudizi di primo e secondo grado del caso analizzato. Una proprietaria conveniva in giudizio i vicini lamentando come questi, nel sopraelevare il proprio immobile sito al confine con la proprietà attorea, avessero conseguito una illegittima servitù di veduta sul suo fondo. Conseguentemente la proprietaria/attrice domandava al decidente l’eliminazione di tale veduta. Si costituivano i convenuti sconfessando le argomentazioni di parte attrice e affermando come tra la loro veduta e il fondo di controparte insistesse una distanza pari a 2 metri, superiore quindi a quella prescritta dall’articolo 905 c.c Il Tribunale adito, all’esito del processo, accoglieva la domanda attorea condannando la parte convenuta alla costruzione di un muro tanto alto da non consentire la veduta dall’ultimo piano della propria abitazione. In grado di appello, sostanzialmente, si assisteva alla conferma di quanto già accaduto in primo grado. La Corte d’Appello, adita dai soccombenti, rigettava la domanda e condannava gli appellanti alle spese del giudizio. In particolare il Giudice del riesame aveva affermato che nel caso concreto la parte appellante avrebbe dovuto costruire la propria abitazione nel rispetto del Piano Regolatore, che prevedeva – ratione temporis – l’obbligo di costruzione a distanza non inferiore di 5 metri dal confine. Siccome la parte esponente aveva realizzato la sopraelevazione in seguito all’edificio principale, e non aveva usufruito della sanatoria per condonare la violazione del PRG, allora tale costruzione sarebbe stata realizzata in violazione delle distanze previste e sarebbe stata quindi illegittima. La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso e rinviava ad altra sezione della Corte d’Appello per un nuovo giudizio. Alla luce della duplice soccombenza i convenuti depositavano atto di citazione in appello volto ad ottenere la riforma della summenzionata sentenza. Il ricorso era incentrato sulla asserita violazione da parte della Corte d’Appello degli art. 905 e 873 c.c Secondo i ricorrenti, infatti, la Corte e similmente il giudice di prime cure avrebbero erroneamente considerato analoghe le citate previsioni e confuso i due rimedi. A detta dei ricorrenti, infatti, la domanda dell’attrice sarebbe stata volta a lamentare l’illegittimità della realizzazione della veduta e la sua presunta contiguità al confine, nessuna menzione invece era stata fatta rispetto all’eventuale mancato rispetto delle distanze da parte della costruzione in sopraelevazione stessa. Giuridicamente quindi il fondamento della domanda di primo grado sarebbe stato l’art. 905 c.c. e non anche l’art. 873 c.c L’art. 905 c.c. prevede al primo comma che Non si possono aprire vedute dirette verso il fondo chiuso o non chiuso e neppure sopra il tetto del vicino, se tra il fondo di questo e la faccia esteriore del muro in cui si aprono le vedute dirette non vi è la distanza di un metro e mezzo diversamente l’articolo 873 c.c. afferma che Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore . La Corte di Cassazione, con la sentenza 11 giugno 2018 n. 15070 accoglieva il ricorso sopra descritto. Secondo la Cassazione, infatti, la Corte d’Appello avrebbe errato nel non valutare che la domanda volta a far valere il rispetto delle distanze tra costruzioni è domanda affatto diversa da quella invece finalizzata a far valere la violazione della distanza da veduta, essendo la prima diretta ad evitare la formazione di intercapedini dannose art. 873 c.c. , l’altra a tutelare il proprietario del bene dall’indiscrezione del vicino art. 907 c.c. . Nel caso in oggetto la domanda dell’attrice era volta unicamente a sanzionare l’illegittima realizzazione della veduta in quanto a distanza inferiore a quella legale. La Corte d’Appello, tuttavia, aveva erroneamente condannato la parte convenuta sulla base del presupposto della inferiore distanza di costruzione dell’edificio in sopraelevazione, senza che tale domanda fosse mai stata avanzata. Nel processo civile, è noto, vige il principio della domanda in ragione del quale il decisum non può che essere derivante e dipendente dal petitum . Erra, quindi, il giudice di merito che pronunci la propria sentenza ultrapetitum ossia dando una risposta giudiziale ben al di là della tutela richiesta dalla parte attrice. La sentenza in commento, quindi, accoglieva il ricorso proposto dalle parti soccombenti in grado di appello e, cassata la sentenza di secondo grado, rinviava il giudizio per una nuova valutazione di merito.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 5 aprile – 11 giugno 2018, n. 15070 Presidente Matera – Relatore Criscuolo Ragioni in fatto ed in diritto 1. G.C. conveniva in giudizio dinanzi al Pretore di S. Teresa di Riva, D.B.G. e Gi. , deducendo di essere proprietaria di un fabbricato per civile abitazione in omissis , posto a confine con il fabbricato delle convenute che, nel realizzare qualche anno addietro la sopraelevazione del loro immobile, avevano aperto una finestra che consentiva un’illegittima ed abusiva servitù di veduta sul suo fondo, chiedendone pertanto l’eliminazione. Le convenute si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto della domanda, assumendo che tra la veduta ed il fondo dell’attrice vi era una distanza pari a due metri, superiore a quella minima di cui all’art. 905 c.c All’esito dell’istruttoria, subentrato al Pretore il Tribunale di Messina quale giudice unico, questi con sentenza n. 525 del 23 gennaio 2003, accoglieva la domanda attorea, condannando le convenute all’eliminazione della servitù di veduta mediante la costruzione sul confine di un muretto pieno per tutta l’altezza del terzo piano. A seguito di appello proposto da D.B.G. oltre che dagli eredi della defunta Di.Be.Gi. , C.G. , C.C. , M.G. e M.A. , gli ultimi due quali eredi a loro volta della defunta C.L. , figlia di Di.Be.Gi. , la Corte d’Appello di Messina con la sentenza n. 631 del 22 dicembre 2011 rigettava l’appello, condannando gli appellati anche al rimborso delle spese del grado. Disattesa l’eccezione di tardività dell’appello, in relazione al primo motivo di appello, con il quale si evidenziava che risultava rispettata la distanza di metri due tra la veduta ed il fondo attoreo, sul presupposto altresì dell’inapplicabilità delle disposizioni di cui al PRG del Comune di Furci Siculo, risalendo la realizzazione della finestra ad una data anteriore all’entrata in vigore dello strumento urbanistico, la Corte distrettuale riteneva condivisibile l’assunto del giudice di prime cure, a sua volta conformatosi alla valutazione del CTU, il quale aveva sostenuto che la finestra era stata realizzata in epoca successiva al 1980, allorquando era entrato in vigore il PRG. A tal fine la presentazione della domanda di sanatoria solo nel 1985 deponeva per una costruzione avvenuta in epoca anteriore, come peraltro confermato dalla diversa consistenza dei materiali costruttivi del fabbricato delle originarie parti convenute. Inoltre se la data dell’opera risaliva agli inizi degli anni ‘70, come invece sostenuto dagli appellanti, non si sarebbe compresa la ragione per la quale si era atteso solo il 1985 per avanzare istanza di condono, non avvalendosi delle precedenti previsioni normative di analogo tenore. Inoltre, anche le deposizioni dei testi addotti da parte attrice confortavano l’avvenuta costruzione della sopraelevazione nel 1980, prevalendo tali deposizioni su quelle dei testi invece addotti dalle convenute. Ne derivava pertanto l’applicabilità delle previsioni del PRG che prevedono una distanza di 5 metri dal confine in caso di pareti finestrate, che non risulta essere rispettata dalla finestra delle convenute. Quanto alla deduzione di parte appellante, di cui al secondo e terzo motivo di appello, secondo cui la servitù de qua sarebbe stata esercitata già in precedenza da un sovrastante terrazzo munito di parapetto, e per un tempo utile ad usucapire il relativo diritto, la sentenza, ritenuta ammissibile la deduzione sub specie di eccezione riconvenzionale, liberamente proponibile anche in grado di appello, trattandosi di procedimento sottoposto alle norme processuali vigenti in data anteriore al 30 aprile 1995, la riteneva tuttavia priva di fondamento in quanto alla luce di quanto anche emergeva dalle foto in atti, la concreta struttura del muretto preesistente non consentiva una comoda possibilità di affaccio, attesa l’altezza dello stesso, dovendosi escludere quindi che fossero possibili l’inspectio e la prospectio, mancando quindi i requisiti per l’acquisto per usucapione della servitù di veduta. Era infine disatteso anche l’ultimo motivo di appello concernente le spese del giudizio di primo grado, ritenendosi quindi necessario porre a carico degli appellanti anche le spese del giudizio di appello. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione C.C. e B.C. , quest’ultima quale erede di D.B.G. deceduta nelle more del giudizio, sulla base di tre motivi. Ha resistito con controricorso G.C. . Gli altri intimati non hanno svolto difese in questa sede. Entrambe le parti costituite hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c 2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 905 ed 873 c.c. ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c. Si deduce che erroneamente i giudici di merito hanno ritenuto violate le norme in tema di distanze delle vedute, sulla base dell’applicazione delle previsioni di cui al locale strumento urbanistico, che, nella parte in cui prevede il distacco di dieci metri tra edifici e di cinque metri dal confine, in caso di pareti finestrate, fa chiaramente riferimento alla diversa ipotesi di rispetto delle distanze tra costruzioni. Nella fattispecie, invece, come si evince chiaramente dal tenore della domanda introduttiva, l’attrice aveva lamentato l’illegittima creazione di una servitù di veduta a seguito della collocazione di una finestra nella sopraelevazione realizzata dalle convenute, ponendo quindi a fondamento della pretesa il mancato rispetto delle distanze di cui all’art. 905 c.c., e non anche di quanto invece prescritto dall’art. 873 c.c Deve pertanto escludersi che il regolamento locale possa integrare la disciplina in materia di distanze tra costruzioni trattandosi di discipline giuridiche autonome che fondano la proposizione di domande a loro volta distinte. Il secondo motivo lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza nella parte in cui è stata disposta la sola realizzazione di un muro al fine di impedire l’esercizio della veduta trascurandosi la contraddittorietà intrinseca della domanda attorea. Infatti, posto che la G. aveva lamentato la sola violazione delle distanze in tema di vedute, in relazione alla quale non sussisteva alcuna illegittimità, essendo le finestra posta a due metri dal confine, è implicito il riconoscimento della legittimità della costruzione della sopraelevazione, in quanto altrimenti si sarebbe dedotta anche la violazione dell’art. 873 c.c Si deduce altresì che la motivazione sarebbe contraddittoria nella parte in cui ha ritenuto che la sopraelevazione fosse avvenuta nel 1980, in epoca successiva all’entrata in vigore del PRG, essendosi valorizzato l’argomento rappresentato dalla mancata presentazione in epoca anteriore della domanda di condono. La decisione gravata, oltre ad omettere di indicare le norme in base alle quali sarebbe stato possibile avanzare precedentemente istanza di condono, omette di considerare che trattasi di scelta che potrebbe essere stata dettata anche da altre ragioni, quali ad esempio l’indisponibilità all’epoca di denaro per farvi fronte. Inoltre, se la costruzione era risalente ad epoca anteriore, non appare comprensibile per quale ragione l’attrice non abbia deciso di agire per la violazione delle distanze di cui all’art. 873 c.c In tal senso il pur evidenziato dubbio circa l’epoca di realizzazione della sopraelevazione, emergente dal complesso delle deposizioni testimoniali, ben poteva essere superato valorizzando tale argomento, invece del tutto pretermesso dai giudici di appello. Il terzo motivo infine, assume che, quale conseguenza dell’accoglimento dei precedenti motivi, debba rideterminarsi anche la sorte delle spese di lite, ponendole a carico dell’originaria parte attrice. 3. Il primo motivo è fondato. Ed, infatti, va ribadito in tal senso il costante principio di questa Corte per il quale cfr. da ultimo Cass. n. 10622/2017 la domanda volta a far valere il rispetto delle distanze tra costruzioni è domanda affatto diversa da quella invece finalizzata a far valere la violazione della distanza da veduta, essendo la prima diretta ad evitare la formazione di intercapedini dannose art. 873 c.c. , l’altra a tutelare il proprietario del bene dall’indiscrezione del vicino art. 907 c.c. , con la conseguenza che incorre evidentemente nel vizio di extra petizione l’eventuale sentenza che, a fronte di una domanda che denuncia la violazione delle distanze per le vedute, condanni il convenuto per la violazione dell’art. 873 c.c. così da ultimo Cass. n. 16808/2016 . Nel caso in esame, come si ricava in maniera pacifica sia dal tenore della sentenza gravata che da quello delle difese spese, era stata avanzata da parte dell’attrice solo la domanda volta ad ottenere l’eliminazione dell’illegittima servitù di veduta, scaturente dalla avvenuta sopraelevazione del fabbricato delle convenute, senza che però fosse stata avanzata anche domanda finalizzata al rispetto della disciplina in tema di distanze tra costruzioni. Entrambe le sentenze di merito hanno accolto la domanda attorea, con la condanna delle convenute all’adozione di un accorgimento tecnico finalizzato ad escludere l’esercizio della veduta elevazione di un muretto pieno per tutta l’altezza del terzo piano oggetto della sopraelevazione ravvisando l’illegittimità della condotta delle odierne ricorrenti, prescindendo dall’applicazione della norma codicistica in tema di distanza per le vedute, ma facendo applicazione della diversa, e ben maggiore distanza, prevista dallo strumento urbanistico locale PRG del Comune di Furci Siculo che prevedeva, sebbene con riferimento alle costruzioni, una distanza di cinque metri dal confine. La valutazione dei giudici di merito è stata quindi nel senso che, pur in presenza di una disciplina codicistica che appunto prevede per l’apertura di vedute una distanza di un metro e mezzo dal fondo confinante, la distanza di cui all’art. 905 c.c. fosse integrata ed ampliata ai sensi della disciplina urbanistica locale dettata in tema di distanze per le costruzioni, nel caso in cui appunto la medesima contenga una specifica previsione in tema di distacco assoluto dal confine. Con ordinanza interlocutoria del 29/12/2017, la Corte, ravvisando l’esistenza di una questione avente carattere potenzialmente nomofilattico, ha ritenuto di dover rimettere la decisione della controversia, inizialmente devoluta alla trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380 bis.1 c.p.c., alla pubblica udienza, essendosi evidenziato che nella giurisprudenza di questa Sezione si contrapponevano due diversi orientamenti in ordine alla possibilità o meno di ritenere integrata la normativa in materia di distanze per le vedute con la disciplina prevista invece in tema di distanze tra costruzioni. Reputa, tuttavia il Collegio, e ciò in risposta alle sollecitazioni sia del Procuratore Generale che di parte ricorrente, che, sebbene non possa negarsi l’esistenza del segnalato contrasto, trattasi però di contrapposizione tra pronunce della stessa Sezione e relative a materia che risulta rientrare nella esclusiva competenza tabellare della sezione, così che, pur apparendo necessario addivenire con la presente ad una soluzione del contrasto, non appare opportuno che della questione vengano investite le Sezioni Unite. Al riguardo si segnala come all’orientamento più risalente nel tempo cfr. Cass. n. 5518/1998 Cass. n. 741/1988 Cass. n. 6734/1987 Cass. n. 1462/1986 secondo cui la disposizione normativa di cui all’art. 873 c.c. in tema di distanze tra fabbricati, diretta a tutelare interessi generali di igiene, decoro e sicurezza degli abitanti, e tale da consentire anche una più rigorosa valutazione in sede locale, non ha alcuna correlazione con la norma di cui all’art. 905 c.c. relativa alla distanza delle vedute, volta a salvaguardare il fondo finitimo dalle indiscrezioni attuabili mediante la realizzazione e l’uso di un’ opera obbiettivamente destinata a tale scopo , con la conseguenza che, ove la maggior distanza tra costruzioni imposta dai regolamenti locali non sia riferita, specificamente, anche al confine, ma risulti sancita in via assoluta, indipendentemente dalla dislocazione delle costruzioni nei rispettivi fondi, la distanza delle vedute dal confine deve intendersi regolata, in via esclusiva, dalla norma di cui al citato art. 905, ossia in misura di un metro e mezzo, di recente si sia affiancato un diverso orientamento che invece propende per l’applicazione anche alle vedute delle maggiori distanze previste agli strumenti urbanistici locali, sebbene a determinate condizioni. In tal senso Cass. n. 4967/2015 ha affermato che la disciplina delle distanze tra fabbricati, in quanto diretta a tutelare interessi generali di igiene, decoro e sicurezza degli abitati, pur dettata in via generale dall’art. 873 cod. civ. che richiede una distanza non minore di tre metri , può essere resa più rigorosa dalle disposizioni dei regolamenti locali, mentre la disciplina della distanza delle vedute dal confine, in quanto finalizzata alla tutela del mero interesse privato alla salvaguardia del fondo vicino dalle indiscrezioni dipendenti dalla loro apertura, trova la sua fonte esclusivamente nell’art. 905 cod. civ. che richiede una distanza di un metro e mezzo , salvo che la maggior distanza delle costruzioni, prevista dai regolamenti locali, sia riferita specificamente al confine, nel qual caso le norme regolamentari regolano anche la distanza delle vedute dal confine. Reputa però il Collegio che debba darsi continuità alla tesi che reputa insuscettibile di estensione alle distanze per le vedute l’eventuale e più rigorosa disciplina prevista per le distanze tra costruzioni cfr. altresì Cass. n. 18595/2012 . In primo luogo si rileva che in realtà il precedente di questa Corte n. 5551/1998, sebbene la massima, forse per una non perfetta compilazione, possa far trasparire l’affermazione di un principio conforme a quello di cui al precedente del 2015, nella parte in cui si legge che la disciplina di cui all’art. 873 c.c., come integrata dagli strumenti urbanistici locali, non ha alcuna correlazione con la norma di cui all’art. 905 cod. civ. relativa alla distanza delle vedute, volta a salvaguardare il fondo finitimo dalle indiscrezioni attuabili mediante la realizzazione e l’uso di un’ opera obbiettivamente destinata a tale scopo , ma ciò nell’ipotesi in cui la maggior distanza tra costruzioni imposta dai regolamenti locali non sia riferita, specificamente, anche al confine, ma risulti sancita in via assoluta, indipendentemente dalla dislocazione delle costruzioni nei rispettivi fondi, lasciando intendere quindi che la soluzione dovrebbe essere diversa nel caso in cui la distanza di cui all’art. 873 c.c. sia dettata in termini assoluti rispetto al confine, in realtà la lettura della motivazione per esteso di tale precedente evidenzia come la Corte anche in tale circostanza ha inteso ribadire il principio dell’inapplicabilità delle distanze di cui all’art. 873 c.c. alle vedute. Ed, in questo senso si è anche pronunciata Cass. n. 2765/2001, pur richiamata nella decisione del 2015, la quale ha ritenuto che Cass. n. 5518/1998 in realtà avesse ribadito il principio per il quale una norma che concerne le distanze tra i fabbricati non incide su quelle tra le vedute e il fondo altrui, stante la diversità dei presupposti, degli ambiti e degli scopi delle discipline dell’una e dell’altra materia. È verosimile ritenere che la formulazione fuorviante della massima derivi dal passo del precedente del 1998, nel quale si afferma che In ogni caso, se la maggiore distanza delle costruzioni non sia dai regolamenti locali riferita esclusivamente al confine - il che verrebbe a coinvolgere, ma solo indirettamente e per necessità materiale, le vedute che fossero aperte nei fabbricati posti a distanza inferiore a quella prescritta - bensì, come nella specie, imposta in assoluto, indipendentemente dalla dislocazione delle costruzioni, la distanza delle vedute dal confine deve intendersi regolata esclusivamente dalla norma dell’articolo 905 c.c. e quindi fissata nella misura di un metro e mezzo , passo che ove invece rettamente inteso ribadisce che la maggiore distanza prevista dallo strumento urbanistico locale per le costruzioni può solo di riflesso ripercuotersi sulle vedute, laddove però la parte interessata agisca invocando il mancato rispetto, in relazione ad una nuova costruzione, del rispetto delle distanze tra costruzioni, ottenendo in tal modo anche l’eliminazione delle vedute eventualmente realizzate nel manufatto illegittimo, ma ciò in quanto parti integranti di quest’ultimo, ed insuscettibili di poter conservare una loro autonoma disciplina, una volta che sia stata ordinata la regolarizzazione del corpo di fabbrica nel quale sono incluse. Ben diversa è invece la situazione che ricorre nel caso di specie, nel quale, ancorché la veduta che si assume essere illegittima sia stata realizzata a seguito di una sopraelevazione, la parte ha inteso denunziare la sola violazione dell’art. 905 c.c., senza cumulare anche una domanda ai sensi dell’art. 873 c.c Per l’effetto, e ribadendo quanto sopra esposto, e cioè che cfr. ex multis Cass. n. 4401/1997 a differenza dell’art. 873 c.c. che è volto ad evitare la formazione di intercapedini dannose, e a tutelare gli interessi generali dell’igiene, decoro e sicurezza degli abitanti, consentendo agli enti locali di stabilire distanze maggiori, secondo una valutazione particolare degli interessi collettivi, l’art. 905 c.c. è diretto a salvaguardare i fondi dalle indiscrezioni derivanti dall’apertura di vedute negli edifici vicini ed a tutelare interessi esclusivamente privati, non vi è spazio per una integrazione della previsione di cui all’art. 905 c.c. con le eventuali e più restrittive previsioni in tema di distanze tra costruzioni, deponendo in tal senso anche l’assenza nel testo della norma di un rinvio, che è invece contemplato nell’art. 873 c.c., ad un’integrazione, sebbene in chiave più restrittiva, da parte dei regolamenti locali. D’altronde la possibilità di siffatta integrazione si spiega proprio alla luce della differenza degli interessi a tutela dei quali sono poste le norme, in quanto solo l’esigenza di salvaguardia di interessi generali legittima l’adozione di criteri più prescrizioni rigorose in quanto ritenute funzionali a preservare l’igiene, il decoro e la sicurezza degli abitanti, esigenza che invece non si pone per la tutela di interessi esclusivamente privati e che il legislatore, con una valutazione a monte, ha reputato siano assicurati con il rispetto della distanza dettata dall’art. 905 c.c Ne deriva pertanto che il motivo è meritevole di accoglimento, avendo la sentenza gravata ravvisato la violazione della prescrizione di cui all’art. 905 c.c., non già avuto riguardo al distacco imposto da tale norma, ma reputando invece applicabile la maggiore distanza dettata dallo strumento urbanistico locale ad integrazione della disciplina di cui all’art. 873. Per l’effetto la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Messina. 4. L’accoglimento del primo motivo implica poi evidentemente l’assorbimento dei restanti motivi. 5. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio. P.Q.M. Accoglie il primo motivo, ed assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata con rinvio, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte d’Appello di Messina.