Illegittimo l’articolo 92 c.p.c. nella parte in cui non consente al Giudice di compensare le spese se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni oltre a quelle tipizzate.
Con la sentenza del 19 aprile 2018, numero 77 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 92, comma 2, c.p.c. nella parte in cui, dopo la riforma del 2014, non prevede che il Giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni a quelle tipizzate mutamento della giurisprudenza o novità della questione . A prima vista la sentenza potrebbe apparire come un parziale passo indietro rispetto alla linea di tendenza che si era andata delineando nel processo civile in questi anni consistente nella riduzione del margine di discrezionalità del Giudice nel compensare le spese di giudizio. La compensazione delle spese di giudizio che, in caso di soccombenza totale, deve essere evento eccezionale e giustificato anche perché incide su un principio fondamentale del processo che è quello in base al quale la parte che ha ragione non deve rimetterci né dalla necessità del processo e, quindi, deve essere tenuto indenne dalle spese sostenute né dal tempo del processo. Principio che, a mio avviso, deve essere prevalente sull’altro pericolo evocato dalla Consulta rappresentato dalla «prospettiva [che] la condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti». Natura servente e accessoria. Ma esaminiamo la motivazione della sentenza. Orbene, per la Corte Costituzionale la condanna alle spese del soccombente realizza il principio victus victori è giusto, secondo un principio di responsabilità e di causalità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa. Condanna alle spese che è «processualmente accessoria alla pronuncia del Giudice che la definisce in quanto tale ed è anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito» e che rappresenta il «normale complemento» dell’accoglimento della domanda. Regola assoluta? Tuttavia, per la Corte questa «non è una regola assoluta proprio in ragione del carattere accessorio della pronuncia sulle spese di lite» e non è inderogabile ne deriva che essa è variamente modulabile dalla discrezionalità del legislatore che, peraltro, nel dettare norme processuali è “ampia”. Giusti motivi per compensare le spese. La Corte ricorda che per lungo tempo le deroghe alla regola sono state affidate ad una clausola generale che chiamava in gioco la discrezionalità del Giudice al momento della decisione della causa quei “giusti motivi” già presenti nel codice del 1865 e riproposti in quello del 1940 ove il comma 2 dell’articolo 92 c.p.c. nella formulazione originaria prevedeva che «se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il Giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti». Clausola generale che chiamava in gioco la discrezionalità del Giudice, ma che diede luogo a forme di ricorso “abusivo” alla formula senza che vi fosse una qualche motivazione con l’avallo della giurisprudenza per la quale la valutazione dei «giusti motivi» per la compensazione, totale o parziale, delle spese processuali rientrava nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiedeva specifica motivazione, restando perciò incensurabile in sede di legittimità, salvo che risultasse violata la regola secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa. E ciò sino alla modifica dell’articolo 92 operata da legislatore del 2005 che introdusse la regola per la quale i «giusti motivi» dovessero essere «esplicitamente indicati nella motivazione» e alla sentenza delle Sezioni Unite del 2008 secondo cui la decisione di compensazione, totale o parziale, delle spese di lite per «giusti motivi» dovesse comunque dare conto della relativa statuizione mediante argomenti specificamente riferiti a questa ovvero attraverso rilievi che, sebbene riguardanti la definizione del merito, si risolvano in considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare tale compensazione delle spese. Nel 2009 poi il legislatore interviene nuovamente e limita ulteriormente la discrezionalità del giudice prevedendo che «se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti». Per la Corte questa tendenza riformatrice si spiega nel quadro di una «consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera». Misure che si esprimono nell’introduzione di istituti processuali diretti, in chiave preventiva, a favorire la composizione della lite in altro modo, quali le misure di ADR mediazione, la negoziazione assistita, il trasferimento della lite alla sede arbitrale e la proposta di conciliazione del giudice articolo 185-bis c.p.c. . Da ultimo, nel 2014 il legislatore torna sull’articolo 92 restringendo ulteriormente il perimetro della deroga alla regola che vuole che le spese di lite gravino sulla parte totalmente soccombente non più la clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni», ma due ipotesi nominate oltre quella della soccombenza reciproca che non è mai mutata , ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti e ciò perché – si legge nella Relazione - «nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione». Scelta irragionevole perché rigida. Ma per la Corte Costituzionale questa scelta viola il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, perché nella sua rigidità ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa. Secondo la Corte vi sono altre ipotesi che condividono l’eadem ratio sottesa alle ipotesi tipizzate del mutamento della giurisprudenza e dell’assoluta novità della questione trattata e che necessariamente devono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice della controversia perché presuppongono un sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti. Volendo esemplificare nella motivazione si leggono queste ipotesi una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva una pronuncia di della Corte Costituzionale, in particolare se di illegittimità costituzionale una decisione di una Corte europea una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea altre analoghe sopravvenienze una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza e semmai anche in diritto o in fatto della lite . In conclusione per la Corte contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza articolo 3, comma 1, Cost. la scelta del legislatore del 2014 di aver tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata. La rigidità di tale tassatività ridonda anche in violazione del canone del giusto processo articolo 111, comma 1, Cost. e del diritto alla tutela giurisdizionale articolo 24, comma 1, Cost. perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti. Sarà poi compito doveroso anche ex articolo 111 Cost. del Giudice motivare in ordine all’esistenza nel caso concreto di quelle ragioni che giustificano la deroga al principio generale. Da ultimo, quell’impressione iniziale che la sentenza possa rappresentare un parziale passo indietro deve essere spero fugata dalla valorizzazione del passaggio secondo cui soltanto le situazioni impreviste ed imprevedibili potranno dar luogo a compensazione dove l’imprevedibilità, però, deve far valutare anche il comportamento delle parti rispetto all’evento rilevante per la compensazione.
Corte Costituzionale, sentenza 7 marzo – 19 aprile 2018, numero 77 Presidente Lattanzi – Redattore Amoroso Sentenza Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, del codice di procedura civile, come modificato dall’articolo 13 del decreto-legge 12 settembre 2014, numero 132 Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile , convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, numero 162, promossi dal Tribunale ordinario di Torino in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 30 gennaio 2016 e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritte rispettivamente al numero 132 del registro ordinanze 2016 e al numero 86 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numero 28, prima serie speciale, dell’anno 2016 e numero 25, prima serie speciale, dell’anno 2017. Visti gli atti di costituzione di Antonio Benedetto, della REAR società cooperativa a rl, di Elvira Rasulova, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e della Confederazione generale italiana del lavoro CGIL udito nella udienza pubblica del 7 marzo 2018 il Giudice relatore Giovanni Amoroso uditi gli avvocati Alberto Piccinini e Amos Andreoni per Elvira Rasulova, Vincenzo Martino e Amos Andreoni per Antonio Benedetto, Giorgio Frus per la REAR società cooperativa a rl e l’avvocato dello Stato Vincenzo Rago per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.− Il Tribunale ordinario di Torino ed il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, entrambi in funzione di giudice del lavoro, con le ordinanze rispettivamente del 30 gennaio 2016 e del 28 febbraio 2017, iscritte al numero 132 del 2016 e al numero 86 del 2017 del registro ordinanze, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’articolo 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, numero 132 Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile , convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, numero 162 disposizione questa che prevede che il giudice, se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti, può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero. Le ordinanze fanno riferimento a plurimi parametri in parte coincidenti. Il Tribunale ordinario di Torino richiama gli articolo 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione il Tribunale ordinario di Reggio Emilia deduce gli articolo 3, primo e secondo comma, 24, 25, primo comma, 102, 104 e 111 Cost., nonché gli articolo 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea CDFUE , proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e gli articolo 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali CEDU , firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, numero 848, questi ultimi come parametri interposti per il tramite dell’articolo 117, primo comma, Cost. Entrambi i giudici rimettenti incentrano i dubbi di legittimità costituzionale della disposizione censurata sulla mancata previsione, in caso di soccombenza totale, del potere del giudice di compensare le spese di lite tra le parti anche in casi ulteriori rispetto a quelli ivi previsti. Il solo Tribunale di Reggio Emilia deduce altresì la mancata considerazione del lavoratore ricorrente come parte “debole” del rapporto controverso al fine della regolamentazione delle spese processuali. 2.− In particolare, il Tribunale ordinario di Torino è investito del ricorso proposto da un socio lavoratore di una società cooperativa, con mansioni di addetto al controllo ingressi e alla viabilità, avente ad oggetto, in via principale, la domanda di ricalcolo retributivo in base ad un contratto collettivo diverso da quello applicato dalla datrice di lavoro, con conseguente richiesta di condanna della società resistente al pagamento delle relative differenze retributive in via subordinata, il ricorso ha ad oggetto la domanda di condanna della società resistente al pagamento delle integrazioni contrattuali delle indennità legali di infortunio e malattia computate con riferimento al contratto collettivo applicato dalla società. A fondamento della domanda il socio lavoratore ricorrente ha dedotto che la società aveva fatto applicazione di un contratto collettivo sottoscritto da organizzazioni datoriali e sindacali non sufficientemente rappresentative ed ha quindi chiesto l’applicazione, ai fini della verifica della congruità retributiva, di altro diverso contratto collettivo, già utilizzato in vertenze similari. La società si è costituita ed ha chiesto il rigetto delle domande indicando, sempre ai fini del giudizio di congruità della retribuzione, quale termine di raffronto, un contratto collettivo ulteriormente diverso da quello invocato dal ricorrente. Quanto alla domanda subordinata, la resistente ha osservato che l’esclusione dell’integrazione contrattuale delle indennità legali di malattia e di infortunio aveva fatto seguito ad una delibera assembleare del 20 giugno 2011, approvata per garantire la sopravvivenza della società messa in stato di crisi, in conformità all’articolo 6, comma 1, lettere d ed e , della legge 3 aprile 2001, numero 142 Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore . Ciò premesso, il rimettente, dopo aver disposto consulenza contabile, ha rigettato entrambe le domande con sentenza qualificata “non definitiva” e, con separata ordinanza, ha disposto la prosecuzione del giudizio per la definizione del regolamento delle spese di lite all’esito di discussione orale ha sollevato, d’ufficio, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo novellato dall’articolo 13, comma 1, del citato d.l. numero 132 del 2014, quale convertito in legge. Ad avviso del rimettente si configurerebbe la violazione dell’articolo 3, primo comma, Cost., sotto il profilo del principio di ragionevolezza, in quanto sussisterebbe una sproporzione tra il fine perseguito − quello di «disincentivare l’abuso del processo» − e lo strumento normativo utilizzato, consistito nella «limitazione estrema ed oltre ogni misura delle ipotesi di compensazione» delle spese di lite. Mentre il testo, come modificato dalla legge 18 giugno 2009, numero 69 Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile , era già «del tutto sufficiente a scongiurare eventuali abusi, da parte del giudice, nell’uso dello strumento della compensazione contenendo essa già una regolamentazione del tutto rigorosa ed appropriata». Il medesimo parametro sarebbe poi violato – secondo il giudice rimettente − sotto il profilo del principio di eguaglianza, avuto riguardo alle situazioni contemplate dalla norma raffrontate, quali tertia comparationis, con quelle escluse, di pari gravità ed eccezionalità, individuate dalla giurisprudenza di legittimità. Il tribunale rimettente deduce altresì la violazione dell’articolo 24, primo comma, Cost., in quanto la riduzione delle ipotesi di compensazione soltanto a due oltre a quella tradizionale della soccombenza reciproca «tende [] a scoraggiare in modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria, divenendo così uno strumento deflattivo e punitivo incongruo» nelle ipotesi in cui la condotta della parte, poi risultata soccombente, non integra casi di abuso del processo, ma sia improntata a correttezza, prudenza e buona fede. Parimenti sarebbe violato l’articolo 111, primo comma, Cost., sotto il profilo del principio del giusto processo, in quanto la disposizione censurata, consentendo la compensazione nei soli casi indicati, «limita il potere - dovere del giudice di rendere giustizia, anche in ordine al regolamento delle spese di lite, in modo appropriato al caso concreto». 3.− Nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale promosso dal Tribunale ordinario di Torino si sono costituite le parti del giudizio a quo, che hanno depositato memorie. Il lavoratore socio ha aderito alle censure mosse dall’ordinanza di rimessione, ribadendo ciò con successiva memoria e concludendo per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ. La società resistente ha rilevato in via preliminare che la regolamentazione delle spese di lite non è suscettibile di autonomo distinto giudizio, richiamando a tal proposito l’ordinanza numero 314 del 2008 di questa Corte. Nel merito sottolinea come la disposizione censurata non costituisca uno «strumento punitivo incongruo», essendo ragionevole porre, di regola, i costi del processo a carico di colui che lo ha attivato con esito negativo, e limitare la possibile compensazione delle spese di lite ad ipotesi tassativamente previste, stante il carattere eccezionale delle medesime. È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale. In particolare la difesa dell’interveniente afferma la ragionevolezza della individuazione da parte del legislatore, nell’esercizio dell’ampia discrezionalità di cui egli gode in materia processuale, di ipotesi specifiche e tassative che giustifichino la compensazione delle spese di lite. Si tratterebbe di una scelta che non entra in collisione con i parametri costituzionali che il giudice rimettente assume essere violati e che integrerebbe il giusto mezzo per conseguire la finalità deflativa al fine di «disincentivare» l’abuso del processo. È intervenuta ad adiuvandum la Confederazione generale italiana del lavoro CGIL , concludendo per l’ammissibilità dell’intervento e, nel merito, per la dichiarazione di illegittimità costituzionale della censurata disposizione. 4.− Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia è investito di una controversia avente ad oggetto l’impugnazione del licenziamento, azionata mediante ricorso proposto ai sensi dell’articolo 1, commi 48 e seguenti, della legge 28 giugno 2012, numero 92 Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita . Si tratta di una lavoratrice che ha impugnato il licenziamento intimatole in data 30 novembre 2015 dalla Italservizi srl poi Agriservice MO srl in liquidazione con decorrenza dal 31 dicembre 2015. In particolare la lavoratrice ha agito nei confronti di numerosi convenuti Burani Interfood spa, Servizi Commerciali Integrati srl, Agriservice MO srl e Burani Stefano Luigi personalmente ed in proprio , affermando l’esistenza «di un unico centro di imputazione giuridica o gruppo d’imprese e la contemporanea utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutti i convenuti», sicché l’intervenuto licenziamento era da porre nel nulla nei confronti di ognuno dei soggetti chiamati in causa. Si è costituita, tra le altre parti, la Burani Interfood spa, che ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso essendo intervenuta il 25 gennaio 2016 la revoca del licenziamento da parte della Agriservice MO srl successivamente in liquidazione . All’esito della prima fase del procedimento a cognizione sommaria il rimettente ha pronunciato un’ordinanza di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse ad agire della ricorrente per mancanza del licenziamento e, in merito alle spese di lite, ha condannato la lavoratrice al rimborso di quelle sostenute dalla attuale almeno formalmente datrice di lavoro Agriservice MO srl in liquidazione, mentre le ha compensate con riferimento alle altre parti convenute. Nei confronti del capo dell’ordinanza relativo alla liquidazione delle spese della fase sommaria, la sola Burani Interfood spa ha proposto opposizione per la mancanza dei presupposti richiesti a tal fine dall’articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ. e per l’assenza di motivazione in merito alla disposta compensazione per le altre parti, censurando infine la disparità di trattamento rispetto alla Agriservice MO srl. Nel giudizio di opposizione si è costituita la lavoratrice per contestare in fatto e in diritto l’opposizione e ha sollevato eccezione di illegittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ., evidenziando come un’interpretazione rigida di tale disposizione determinerebbe un’illegittima riduzione della discrezionalità del giudice nella valutazione degli elementi idonei a giustificare la compensazione delle spese di lite. Anche il Tribunale ordinario di Reggio Emilia chiede alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo modificato dall’articolo 13, comma 1, del d.l. numero 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nella legge numero 162 del 2014, nella parte in cui − nelle cause di lavoro o di previdenza, nelle quali l’attore in primo grado è quasi sempre il lavoratore – non prevede il potere del giudice di valutare «i gravi ed eccezionali motivi» per compensare le spese di lite. Ad avviso del rimettente si configurerebbe la violazione degli articolo 3, primo e secondo comma, 24 e 111 Cost., in quanto la disposizione censurata «priva irragionevolmente il Giudice della essenziale funzione di giustizia, ovvero quella di adeguare la pronunzia alle peculiarità del modello processuale ed alle condizioni personali e circostanze concrete del caso di specie» dà luogo alla manifesta violazione del principio di uguaglianza sostanziale «che esigerebbe un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il soggetto più debole e costretto ad agire giudizialmente» per vedere accertata l’illegittimità del provvedimento datoriale, trattandosi, di regola, di «controversie a “controprova”» «esercita di fatto una gravissima limitazione del diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia in danno del lavoratore», già gravato dagli oneri economici, non detraibili, del pagamento del contributo unificato, dell’anticipazione delle spese legali e dell’IVA limita il diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia «in termini di pesante “deterrenza” in modo proporzionalmente e vieppiù irragionevolmente maggiore per quanto minore sia la capacità economica del lavoratore» colpisce, irragionevolmente, anche la parte incolpevole che non ha «abusato» del processo o che non ha invocato diritti, «che a priori, sapeva essere inesistenti». Inoltre, sempre ad avviso del rimettente, sarebbero violati gli articolo 25, primo comma, 102 e 104 Cost., in quanto l’intervenuto d.l. numero 132 del 2014 costituirebbe un’ingerenza del potere legislativo su quello giudiziario comprimendo oltremodo la discrezionalità del giudice. Il tribunale rimettente deduce poi la violazione dell’articolo 117, primo comma, Cost. in relazione all’articolo 47 CDFUE che esige l’effettività del diritto d’azione e di accesso alla giustizia e l’equità del processo, «quest’ultima irragionevolmente lesa da una sanzione che colpisce una parte che non ha “responsabilità” processuale nelle cause “a controprova” » nonché in relazione agli articolo 6 e 13 CEDU, in rapporto al «diritto all’equo processo» ed al diritto ad un «ricorso effettivo», in quanto la modifica dell’articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ. in chiave specificamente deflativa, rappresenta un mezzo sproporzionato rispetto allo scopo perseguito. Altresì sarebbero violati gli articolo 14 CEDU e 21 CDFUE, in relazione al principio di non discriminazione, derivante dal divieto per il giudice di tener conto della condizione personale del lavoratore, «così pregiudicandone il diritto di azione proprio in ragione della limitata capacità economica, anche a prescindere da ragioni di “colpevolezza processuale”». Il rimettente poi osserva che nel processo del lavoro sono frequenti le controversie cosiddette “a controprova”, nel senso che il lavoratore deve introdurle non disponendo di tutti i dati che incidono sulla legittimità, o meno, del provvedimento datoriale che egli ha già subito e di cui chiede al giudice il controllo di legittimità, da operare appunto all’esito dell’assolvimento della prova da parte del datore di lavoro convenuto in giudizio. Con specifico riferimento alle controversie di lavoro, il rimettente deduce inoltre che il lavoratore, per introdurre la causa in primo grado, deve, di regola, sostenere l’onere del contributo unificato, l’anticipazione delle spese legali e spesso di quelle per conteggi, oltre all’IVA sulla prestazione dei professionisti e tutti questi oneri, come pure quello eventuale delle spese di soccombenza, non sono detraibili. Al contrario, il datore, di regola, potrà recuperare l’IVA sulle prestazioni del difensore e detrarrà dal reddito la relativa parcella, come le spese di eventuale soccombenza. In riferimento al principio di non discriminazione sancito nella CEDU, il rimettente osserva come la discriminazione vietata dall’articolo 14 della Convenzione consista nel trattare in modo differente, salvo una giustificazione obiettiva e ragionevole, le persone che si trovano in situazioni simili o analoghe e che una distinzione è discriminatoria se non persegua uno scopo legittimo o se non sussiste un rapporto di ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo che si è prefissata. Quanto alla rilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale, il giudice a quo pone in rilievo che la lavoratrice, originaria ricorrente nel procedimento per l’impugnazione del licenziamento, è convenuta in opposizione, dalla società cui non è stato ritenuto riconducibile il licenziamento, per essere condannata alla rifusione delle spese processuali sia della prima fase sommaria , sia di quella attuale di opposizione il rimettente afferma che la vicenda riveste una peculiarità oggettiva tale da rendere difficile una ricostruzione in fatto degli avvenimenti, per i numerosi passaggi subiti dal lavoratore da una società all’altra nonché per la necessità di procedere alla ricostruzione delle trasformazioni e cessioni societarie avvenute, in forza delle quali le plurime aziende coinvolte, tra loro collegate di fatto o in diritto, hanno cambiato nome, assetto e composizione societaria, ceduto rami d’azienda ed effettuato altre intricate modifiche interne. 5.− Nel giudizio incidentale si è costituita la lavoratrice, depositando anche memoria, ed ha concluso per la fondatezza della questione. È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale. La difesa dell’interveniente svolge sostanzialmente le medesime argomentazioni già prospettate nell’altro giudizio incidentale, deducendo, in particolare, che nell’ambito di controversie in materia di lavoro, dove una delle parti in causa potrebbe risultare economicamente svantaggiata rispetto all’altra, l’indicazione tassativa delle ipotesi in cui è possibile procedere alla compensazione delle spese di lite non determina un effetto preclusivo del ricorso alla tutela giurisdizionale. Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 30 gennaio 2016, iscritta al numero 132 del registro ordinanze 2016, il Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli articolo 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’articolo 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, numero 132 Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile , convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, numero 162, nella parte in cui non consente, in caso di soccombenza totale, la compensazione delle spese di lite anche in altre ipotesi di gravi ed eccezionali ragioni, analoghe a quelle indicate in modo tassativo dalla disposizione stessa, ossia l’«assoluta novità della questione trattata» e il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti». La questione è stata sollevata nel corso di un giudizio civile promosso da un socio lavoratore di una società cooperativa, per ottenere la condanna di quest’ultima al pagamento di differenze di compenso per l’attività svolta calcolate sulla base delle tariffe del contratto collettivo ritenute applicabili ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, numero 142 Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore , e dell’articolo 7, comma 4, del decreto-legge 31 dicembre 2007, numero 248 Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria , convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 2008, numero 31. In via subordinata lo stesso ricorrente aveva chiesto il riconoscimento di un’integrazione contrattuale delle indennità previste in caso di infortunio e di malattia. Il tribunale, pronunciandosi nell’instaurato contraddittorio delle parti, ha rigettato, con sentenza qualificata “non definitiva”, sia la domanda principale che quella subordinata, ed ha disposto la prosecuzione del giudizio per la definizione della questione residua, concernente il regolamento delle spese di lite. In tale sede, ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ., con riferimento ai parametri suddetti ritenendo che la limitazione a due sole ipotesi tassative della possibilità per il giudice di compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale sia contraria al principio di ragionevolezza e di eguaglianza, nonché a quello del giusto processo e comporti un’eccessiva remora a far valere i propri diritti in giudizio. Secondo il tribunale rimettente, nella specie, l’esito della lite, sfavorevole al lavoratore, è dipeso da elementi di fatto nuovi, non previsti né prevedibili da una parte una contrattazione collettiva utilizzata parametricamente dal consulente tecnico d’ufficio per calcolare le rivendicate differenze retributive, la quale era diversa sia da quella applicata dalla società, sia da quella allegata dal lavoratore a sostegno della sua pretesa d’altra parte una non conosciuta delibera della società che aveva legittimamente sospeso l’erogazione del trattamento integrativo di malattia e di infortunio, parimenti rivendicato dal lavoratore. 2.− Con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritta al numero 86 del registro ordinanze 2017, il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato analoghe questioni di legittimità costituzionale della medesima disposizione, per contrasto con gli articolo 3, primo e secondo comma 24 25, primo comma 102 104 e 111 Cost. nonché degli articolo 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea CDFUE , proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e degli articolo 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali CEDU , firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, numero 848, questi ultimi come parametri interposti per il tramite dell’articolo 117, primo comma, Cost. La questione è stata sollevata nel corso di una controversia di lavoro avente ad oggetto l’impugnativa di un licenziamento, promossa con il rito di cui all’articolo 1, comma 48, della legge 28 giugno 2012, numero 92 Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita , da una lavoratrice nei confronti non solo della società che aveva intimato il licenziamento, ma anche di altre società, sull’asserito presupposto di un unico centro di imputazione giuridica del rapporto di lavoro, stante la contemporanea utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutte le società convenute. La fase sommaria si concludeva con un’ordinanza di inammissibilità del ricorso per essere stato il licenziamento revocato. Quanto alle spese di lite il tribunale condannava la lavoratrice al pagamento delle spese nei confronti della società che aveva formalmente intimato – e poi revocato – il licenziamento invece le compensava tra la lavoratrice e le altre società convenute in giudizio. Avverso questa ordinanza proponeva opposizione una sola di queste ultime società, dolendosi della compensazione delle spese di lite e chiedendo la condanna della lavoratrice, originaria ricorrente, al pagamento delle stesse. Quest’ultima ha resistito all’opposizione eccependo, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ. eccezione che il giudice dell’opposizione ha accolto promuovendo l’incidente di legittimità costituzionale con riferimento ai parametri sopra indicati e muovendo censure analoghe a quelle del Tribunale di Torino, nonché lamentando che non venga in rilievo la posizione del lavoratore quale parte “debole” del rapporto controverso. Secondo il tribunale rimettente l’utilizzazione delle prestazioni lavorative da parte non solo della società datrice di lavoro, ma anche di altre società, aveva creato l’apparenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro con conseguente grave incertezza in ordine a chi fosse il reale datore sicché non ingiustificata appariva l’evocazione in giudizio delle varie società interessate. 3.– Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, sono in larga parte sovrapponibili e quindi si rende opportuna la loro trattazione congiunta mediante riunione dei giudizi. 4.– Va preliminarmente considerato che nel giudizio di legittimità costituzionale originato dall’ordinanza di rimessione del giudice del lavoro di Torino è intervenuta ad adiuvandum la Confederazione generale italiana del lavoro CGIL , aderendo alle argomentazioni contenute nell’ordinanza di rimessione e chiedendo l’accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale. L’Avvocatura generale dello Stato e la difesa della società costituita hanno eccepito l’inammissibilità di tale intervento. L’intervento è inammissibile. La costante giurisprudenza di questa Corte tra le tante, le ordinanze allegate alle sentenze numero 16 del 2017, numero 237 e numero 82 del 2013, numero 272 del 2012, numero 349 del 2007, numero 279 del 2006 e numero 291 del 2001 è nel senso che la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale articolo 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale . A tale disciplina è possibile derogare − senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità − soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura. Pertanto, l’incidenza sulla posizione soggettiva dell’interveniente deve derivare non già, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla disposizione denunciata, dalla pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma dall’immediato effetto che la pronuncia della Corte produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo. Nella specie – essendo la CGIL titolare non di un interesse direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale, bensì di un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti – il suo intervento in questo giudizio deve essere dichiarato inammissibile. 5.– Ancora in via preliminare l’Avvocatura generale dello Stato ha sollevato eccezione di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per mancata interpretazione adeguatrice della disposizione censurata. L’eccezione non è fondata. Entrambi i giudici rimettenti hanno, con motivazione plausibile, escluso la possibilità di interpretazione adeguatrice della disposizione censurata osservando che il recente ripetuto intervento del legislatore sulla disposizione censurata, di cui si dirà oltre, mostra chiaramente che si è inteso restringere sempre più la discrezionalità del giudice della controversia fino a definire le sole ipotesi che facoltizzano il giudice, in caso di soccombenza totale, a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite ipotesi che quindi sono tassative la soccombenza reciproca ovvero l’assoluta novità della questione trattata o il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Non è possibile pertanto estendere in via interpretativa tale facoltà del giudice ad altre ipotesi che parimenti consentano la compensazione delle spese di lite. Tanto è sufficiente per ritenere l’ammissibilità della questione, anche in ragione della più recente giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che, se è vero che le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime «perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali e qualche giudice ritenga di darne », ciò però non significa che «ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito» sentenza numero 42 del 2017 nello stesso senso, sentenza numero 83 del 2017 . 6.− L’Avvocatura generale dello Stato ha inoltre eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per insufficiente descrizione della fattispecie. L’eccezione non è fondata. Entrambi i giudici rimettenti hanno descritto in dettaglio la fattispecie al loro esame nei termini sopra riportati ed hanno chiaramente evidenziato la necessità di applicare nei giudizi a quibus la disposizione censurata in ordine alla quale hanno motivatamente argomentato i loro dubbi di legittimità costituzionale. Le sollevate questioni di legittimità costituzionale sono quindi ammissibili, sotto l’indicato profilo, e sussiste altresì la loro rilevanza. 7.− C’è poi un ulteriore, più delicato, profilo di ammissibilità concernente le questioni oggetto dell’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Torino, che – come già rilevato − ha deciso con sentenza, qualificata “non definitiva”, tutto il merito della causa ed ha riservato solo la decisione sulle spese di lite, in riferimento alla quale, con distinta ordinanza, ha posto la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ. Deve rilevarsi al riguardo che questa Corte nell’ordinanza numero 395 del 2004 ha affermato che la regolamentazione delle spese, in quanto accessoria alla decisione di merito, non è suscettibile di un autonomo giudizio. La citata ordinanza ha riguardato una situazione analoga quella di un giudice rimettente di primo grado che, nel censurare il medesimo articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ., aveva parimenti deciso, con sentenza, il merito della causa disponendo con ordinanza la sospensione del processo limitatamente alla pronuncia accessoria sulle spese legali, perché, ritenendo di dover fare uso della facoltà di compensarle, ai sensi della citata disposizione nel testo originario, dubitava della legittimità costituzionale di tale norma, «così come interpretata dalla giurisprudenza pressoché univoca e costante della Suprema Corte», secondo cui non vi era alcun obbligo di motivare il capo della sentenza col quale fosse disposta la compensazione delle spese «per giusti motivi», trattandosi di statuizione discrezionale, assistita da una presunzione di conformità a diritto. Questa Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, affermando che «il “diritto vivente” in questione [] si risolve in una regola − insindacabilità della compensazione delle spese non motivata − della quale è diretto destinatario il giudice dell’impugnazione, e solo indirettamente il giudice munito del potere discrezionale di disporre la compensazione delle spese del giudizio da lui definito». Sicché il canone dell’insindacabilità della motivazione della compensazione delle spese di lite, all’epoca ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità, costituiva regola di giudizio per il giudice dell’impugnazione, legittimato in ipotesi a sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale, ma non già per un giudice di primo grado, quale era il giudice rimettente. Da ciò, l’inammissibilità manifesta della questione di legittimità costituzionale. La Corte però ha poi aggiunto – seppur senza che ciò costituisse, o concorresse a costituire, la ratio decidendi della pronuncia di inammissibilità − che il giudice rimettente comunque «aveva consumato il suo potere decisorio». In ragione di ciò si potrebbe ora sostenere che anche il Tribunale ordinario di Torino abbia esaurito il suo potere decisorio dopo essersi pronunciato su tutto il merito della causa, di talché la questione di legittimità costituzione sarebbe, sotto tale profilo, inammissibile. 8.− In realtà, la questione è ammissibile anche sotto questo profilo. Nel processo civile una sentenza non definitiva è possibile allorché il giudice di primo grado – qual è il rimettente Tribunale ordinario di Torino ‒ limiti la sua decisione alla questione di giurisdizione, o a questioni pregiudiziali o preliminari di merito, o anche solo ad alcune questioni di merito impartendo distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa articolo 279, secondo comma, cod. proc. civ. . Il giudice infatti può limitare la decisione ad alcune domande, se riconosce che per esse soltanto non sia necessaria un’ulteriore istruzione e sempre che la loro «sollecita definizione» sia di «interesse apprezzabile» per la parte che ne abbia fatto istanza articolo 277, secondo comma, cod. proc. civ. . Ma se il giudice decide totalmente il merito della causa, accogliendo o rigettando tutte le domande, emette una sentenza definitiva, alla quale si accompagna la pronuncia sulle spese di lite, che – come già rilevato da questa Corte nell’ordinanza numero 314 del 2008, richiamata dalla difesa della società costituita – ha «natura accessoria» rispetto alla decisione sul merito. Non di meno però la decisione sulle spese di lite ha una sua distinta autonomia nella misura in cui è possibile l’impugnativa di questo solo capo della sentenza definitiva sicché, in tale evenienza, il giudizio di impugnazione è destinato ad avere ad oggetto la sola regolamentazione delle spese di lite. Questo legame di accessorietà della pronuncia sulle spese alla sentenza che decida tutte le questioni di merito non è quindi indissolubile e, in particolare, è recessivo allorché il giudice – come il Tribunale ordinario di Torino – abbia un dubbio non manifestamente infondato in ordine soltanto alla disposizione che governa le spese di lite e di cui egli debba fare applicazione. Il principio della ragionevole durata del processo articolo 111, secondo comma, Cost. , coniugato con il favor per l’incidente di legittimità costituzionale ‒ il quale preclude che alcun giudice possa fare applicazione di una disposizione di legge della cui legittimità costituzionale dubiti – suggerisce che non sia ritardata la decisione del merito della causa rispondendo ciò all’«interesse apprezzabile» delle parti alla «sollecita definizione» di quanto possa essere deciso senza fare applicazione della disposizione indubbiata ex articolo 277, secondo comma, citato . Del resto, come argomento a fortiori, può richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto, al fine dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, che il potere decisorio del giudice rimettente non venga meno neppure quando egli abbia, al contempo, adottato la misura cautelare richiesta da una parte e, con separato provvedimento, abbia sospeso il giudizio cautelare investendo questa Corte con incidente di legittimità costituzionale proprio sulla disposizione di cui abbia fatto applicazione provvisoria e temporanea ex plurimis, sentenze numero 83 del 2013, numero 236 del 2010, numero 351 e numero 161 del 2008 ordinanza numero 25 del 2006 . Si ha quindi che, nella specie, non erroneamente il Tribunale ordinario di Torino non ha sacrificato l’interesse delle parti alla sollecita decisione del merito – segnatamente, di tutto il merito – della causa ed ha legittimamente limitato la sospensione del giudizio, obbligatoria ex articolo 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, numero 87 Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale , a quanto strettamente necessario per la decisione della questione di legittimità costituzionale. La pur imprecisa qualificazione, ad opera dello stesso tribunale, della sentenza che ha deciso tutto il merito della causa, come pronuncia “non definitiva” anziché “definitiva” ex articolo 279 cod. proc. civ., rileva al fine non già dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, ma del regime dell’impugnazione di tale pronuncia quanto alla possibilità, o no, della riserva facoltativa d’appello ex articolo 340 cod. proc. civ. 9.− Nel merito la questione, sollevata congiuntamente dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, è fondata. 10.– La regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile risponde alla regola generale victus victori fissata dall’articolo 91, primo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui – ripetendo l’analoga prescrizione dell’articolo 370, primo comma, del codice di procedura civile del 1865 − prevede che «il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa». Quindi la soccombenza si accompagna, di norma, alla condanna al pagamento delle spese di lite. L’alea del processo grava sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto della parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente. È giusto, secondo un principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa. Questa Corte ha in proposito affermato che «il costo del processo deve essere sopportato da chi ha reso necessaria l’attività del giudice ed ha occasionato le spese del suo svolgimento» sentenza numero 135 del 1987 . La regolamentazione delle spese di lite è processualmente accessoria alla pronuncia del giudice che la definisce in quanto tale ed è anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito articolo 24 Cost. . Il «normale complemento» dell’accoglimento della domanda – ha affermato questa Corte sentenza numero 303 del 1986 – è costituito proprio dalla liquidazione delle spese e delle competenze in favore della parte vittoriosa. Ma non è una regola assoluta proprio in ragione del carattere accessorio della pronuncia sulle spese di lite, come emerge dalla giurisprudenza di questa Corte che ha esaminato un’ipotesi di contenzioso − il processo tributario prima della riforma del 1992 − in cui non era affatto prevista la regolamentazione delle spese di lite sì che la parte soccombente non ne sopportava l’onere e la parte vittoriosa non ne era ristorata. Ha infatti affermato questa Corte sentenza numero 196 del 1982 che «l’istituto della condanna del soccombente nel pagamento delle spese ha bensì carattere generale, ma non è assoluto e inderogabile» come è consentito al giudice di compensare tra le parti le spese di lite ricorrendo le condizioni di cui al secondo comma dell’articolo 92 cod. proc. civ. disposizione attualmente censurata , così rientra nella discrezionalità del legislatore modulare l’applicazione della regola generale secondo cui alla soccombenza nella causa si accompagna la condanna al pagamento delle spese di lite. Analogamente, con riferimento al giudizio di opposizione a sanzioni amministrative, questa Corte ordinanza numero 117 del 1999 ha ribadito che «l’istituto della condanna del soccombente al pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere generale, non ha portata assoluta ed inderogabile, potendosene profilare la derogabilità sia su iniziativa del giudice del singolo processo, quando ricorrano giusti motivi ex articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ., sia per previsione di legge − con riguardo al tipo di procedimento − in presenza di elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola generale». Parimenti è stata ritenuta non illegittima una regola di settore che, all’opposto, escludeva in ogni caso la compensazione delle spese di lite in ipotesi di accoglimento della domanda di risarcimento del danno esercitata nel processo penale dalla parte offesa costituitasi parte civile nel regime precedente la riforma del codice di procedura penale del 1987 sentenza numero 222 del 1985 . Ampia quindi è la discrezionalità di cui gode il legislatore nel dettare norme processuali ex plurimis, sentenze numero 270 del 2012, numero 446 del 2007 e numero 158 del 2003 e segnatamente nel regolamentare le spese di lite. Sicché è ben possibile – ha affermato questa Corte sentenza numero 157 del 2014 − «una deroga all’istituto della condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, in presenza di elementi che la giustifichino sentenze numero 270 del 2012 e numero 196 del 1982 , non essendo, quindi, indefettibilmente coessenziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione di dette spese sentenza numero 117 del 1999 ». 11.− Muovendo da questa affermata possibile derogabilità della regola che prescrive la condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, vanno ora esaminate le censure mosse alla disposizione indubbiata dai giudici rimettenti, che sono centrate proprio sulle possibili deroghe a tale regola. Le quali, da epoca risalente e per lungo tempo, sono state affidate ad una clausola generale che chiamava in gioco la discrezionalità del giudice al momento della decisione della causa. Disponeva infatti il secondo comma dell’articolo 370 cod. proc. civ. del 1865 «Quando concorrono motivi giusti, le spese possono dichiararsi compensate in tutto o in parte». Il secondo comma dell’articolo 92 cod. proc. civ. del 1940 ha ripetuto la stessa norma derogatoria «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti». Nella relazione al Guardasigilli per la redazione del nuovo codice di procedura civile si espresse l’opzione di dare continuità all’analoga disposizione del codice di rito del 1865 e, con riferimento alla facoltà demandata al giudice di compensare le spese di lite, oltre al caso di soccombenza parziale, anche quando ricorressero «motivi giusti» – che, con mera inversione testuale sarebbero diventati «giusti motivi» − si evidenziò che «tale regola [] risponde ad un evidente criterio di giustizia», ritenendo non «attendibili» alcune osservazioni in senso critico rivolte da una parte della dottrina contro questa clausola generale, la quale affidava tale criterio derogatorio, nel momento della decisione della lite, al prudente apprezzamento del giudice, che era quello che meglio conosceva le peculiarità della causa. La norma espressa dal secondo comma dell’articolo 92 cod. proc. civ., attualmente oggetto delle censure di illegittimità costituzionale, è rimasta per lungo tempo invariata anche in occasioni di profonde riforme del codice di rito, quale quella del 1950 apportata con la legge 14 luglio 1950, numero 581 Ratifica del decreto legislativo 5 maggio 1948, numero 483, contenente modificazioni e aggiunte al Codice di procedura civile e quella del 1990 introdotta con la legge 26 novembre 1990, numero 353 Provvedimenti urgenti per il processo civile ma non è rimasta immune da critiche di parte della dottrina. Ed in effetti, già nella vigenza dell’articolo 370 cod. proc. civ. del 1865, un’autorevole dottrina del tempo aveva denunciato l’abuso nella pratica della compensazione per i motivi più vari. Il punctum dolens era la motivazione dei «giusti motivi» che facoltizzavano il giudice a compensare, totalmente o parzialmente, le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Il principio di diritto, che era stato alla fine fissato in una tralaticia massima di giurisprudenza, affermava che la valutazione dei «giusti motivi» per la compensazione, totale o parziale, delle spese processuali rientrava nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiedeva specifica motivazione, restando perciò incensurabile in sede di legittimità, salvo che risultasse violata la regola secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa argumenta, ex plurimis, da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 15 luglio 2005, numero 14989 . Sempre più però si poneva in discussione questo orientamento giurisprudenziale fino al radicarsi di un vero e proprio contrasto, poi composto dalle sezioni unite della Corte di cassazione, che operarono una significativa correzione di rotta affermando che la decisione di compensazione, totale o parziale, delle spese di lite per «giusti motivi» dovesse comunque dare conto della relativa statuizione mediante argomenti specificamente riferiti a questa ovvero attraverso rilievi che, sebbene riguardanti la definizione del merito, si risolvano in considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare tale compensazione delle spese Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 30 luglio 2008, numero 20598 . 12.− Intanto il legislatore era intervenuto ed aveva modificato, dopo quasi centocinquant’anni, la norma in questione confermando sì la clausola generale dei «giusti motivi», quale presupposto della compensazione delle spese di lite, ma richiedendo che questi fossero «esplicitamente indicati nella motivazione» articolo 2, comma 1, della legge 28 dicembre 2005, numero 263, recante «Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il decreto-legge 14 marzo 2005, numero 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, numero 80, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, numero 642, al codice civile, alla legge 21 gennaio 1994, numero 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato» . La prescrizione dell’espressa indicazione dei «giusti motivi» nella motivazione della decisione del giudice sulle spese di lite non apparve però ancora sufficiente a contrastare una tendenza, esistente nella prassi, al frequente ricorso da parte del giudice alla facoltà di compensare le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Il legislatore è quindi intervenuto una seconda volta proprio sulla clausola generale accentuandone, in chiave limitativa, il carattere derogatorio rispetto alla regola generale che vuole che alla soccombenza totale segua anche la condanna al pagamento delle spese di lite. L’articolo 45, comma 11, della legge 18 giugno 2009, numero 69 Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile , ha così riformulato il secondo comma dell’articolo 92 «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti». I «giusti motivi» sono diventati le «gravi ed eccezionali ragioni» ciò significava che il perimetro della clausola generale si era ridotto, ritenendo il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità − che si è già rilevato essere ampia, secondo la giurisprudenza di questa Corte − che una più estesa applicazione della regola di porre a carico del soccombente totale le spese di lite rafforzasse il principio di responsabilità di chi promuoveva una lite, o resisteva in giudizio, con conseguente effetto deflativo sul contenzioso civile. 13.− Al fondo di questo contesto riformatore è la consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera. Da ciò l’adozione, in epoca recente, di istituti processuali diretti, in chiave preventiva, a favorire la composizione della lite in altro modo, quali le misure di ADR Alternative Dispute Resolution , cui sono riconducibili le procedure di mediazione, la negoziazione assistita, il trasferimento della lite alla sede arbitrale. Nella stessa linea è la previsione in generale, nel codice di rito articolo 185-bis cod. proc. civ. , di un momento processuale che vede la formulazione della proposta di conciliazione ad opera del giudice, introdotta in generale dall’articolo 77, comma 1, lettera a , del decreto-legge 21 giugno 2013, numero 69 Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia , convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, numero 98, generalizzando quanto era già stato stabilito, qualche anno prima, per le controversie di lavoro attraverso la modifica dell’articolo 420, primo comma, cod. proc. civ., introdotta dall’articolo 31, comma 4, della legge 4 novembre 2010, numero 183 Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro . Per altro verso, quando non di meno la lite arriva all’esito finale della decisione giudiziaria, appare giustificato che l’alea del processo debba allora gravare sulla parte totalmente soccombente secondo una più stretta regola generale, limitando alla ricorrenza di «gravi e eccezionali ragioni» la facoltà per il giudice di compensare le spese di lite. Questo raggiunto equilibrio è stato però alterato da un’ulteriore, più recente, modifica del censurato secondo comma dell’articolo 92 cod. proc. civ. 14.− Da ultimo infatti, sull’abbrivio riformatore cominciato nel 2005, il legislatore, nel 2014, è andato ancora oltre ed ha ristretto ulteriormente il perimetro della deroga alla regola che vuole che le spese di lite gravino sulla parte totalmente soccombente non più la clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni», ma due ipotesi nominate oltre quella della soccombenza reciproca che non è mai mutata , ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Così ha disposto, da ultimo, l’articolo 13, comma 1, del d.l. numero 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nella legge numero 162 del 2014 norma che, per espressa previsione dell’articolo 13, comma 2, del decreto-legge citato, si applica ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della relativa legge di conversione, avvenuta l’11 novembre 2014 . Si legge nella Relazione al disegno di legge di conversione in legge del decreto-legge numero 132 del 2014 «Nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione». Questo più recente sviluppo normativo, che ha portato alla formulazione della disposizione censurata, mostra chiaramente che il legislatore ha voluto far riferimento a due ipotesi tassative, oltre quella della soccombenza reciproca, rimasta invariata nel tempo, come correttamente ritengono entrambi i giudici rimettenti. 15.− Però la rigidità di queste due sole ipotesi tassative, violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa. La prevista ipotesi del mutamento della giurisprudenza su una questione dirimente è connotata dal fatto che, in sostanza, risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia. Questa evenienza sopravvenuta − che concerne prevalentemente la giurisprudenza di legittimità, ma che, in mancanza, può anche riguardare la giurisprudenza di merito − non è di certo nella disponibilità delle parti, le quali si trovano a doversi confrontare con un nuovo principio di diritto, sì che, nei casi di non prevedibile overruling, l’affidamento di chi abbia regolato la propria condotta processuale tenendo conto dell’orientamento poi disatteso e superato, è nondimeno tutelato a determinate condizioni, precisate in una nota pronuncia delle sezioni unite civili della Corte di cassazione sentenza 11 luglio 2011, numero 15144 . Il fondamento sotteso a siffatta ipotesi – che, ove anche non prevista espressamente, avrebbe potuto ricavarsi per sussunzione dalla clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni» − sta appunto nel sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti. Ma tale ratio può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti tra le più evidenti, una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva o una pronuncia di questa Corte, in particolare se di illegittimità costituzionale o una decisione di una Corte europea o una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea o altre analoghe sopravvenienze. Le quali tutte, ove concernenti una “questione dirimente” al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari “gravità” ed “eccezionalità”, ma non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice della controversia. Ciò può predicarsi anche per l’altra ipotesi prevista dalla disposizione censurata – l’assoluta novità della questione – che è riconducibile, più in generale, ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza. In simmetria è possibile ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a «gravi ed eccezionali ragioni». Del resto la stessa ipotesi della soccombenza reciproca, che, concorrendo con quelle espressamente nominate dalla disposizione censurata, parimenti facoltizza il giudice della controversia a compensare le spese di lite, rappresenta un criterio nient’affatto rigido, ma implica una qualche discrezionalità del giudice che è chiamato ad apprezzare la misura in cui ciascuna parte è al contempo vittoriosa e soccombente, tanto più che la giurisprudenza di legittimità si va orientando nel ritenere integrata l’ipotesi di soccombenza reciproca anche in caso di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 22 febbraio 2016, numero 3438 . Si ha quindi che contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza articolo 3, primo comma, Cost. aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata. La rigidità di tale tassatività ridonda anche in violazione del canone del giusto processo articolo 111, primo comma, Cost. e del diritto alla tutela giurisdizionale articolo 24, primo comma, Cost. perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti. 16.− Per la riconduzione a legittimità della disposizione censurata può anche considerarsi che più recentemente lo stesso legislatore, in linea di continuità con l’azione riformatrice degli ultimi anni, è ritornato alla tecnica normativa della clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni». Infatti, dopo l’introduzione della disposizione attualmente censurata, il legislatore ha novellato alcune norme del processo tributario. In particolare l’articolo 9, comma 1, lettera f , numero 2 , del decreto legislativo 24 settembre 2015, numero 156 Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6 e 10, comma 1, lettere a e b, della legge 11 marzo 2014, numero 23 , ha sostituito gli originari commi 2 e 2-bis dell’articolo 15 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, numero 546 Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega governativa nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991 numero 413 ed ha, tra l’altro, previsto che le spese del giudizio possono essere compensate in tutto o in parte, oltre che in caso di soccombenza reciproca, anche «qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni» che devono essere espressamente motivate. Ciò orienta la pronuncia di illegittimità costituzionale che si va a rendere nel senso che parimenti le ipotesi illegittimamente non considerate dalla disposizione censurata possono identificarsi in quelle che siano riconducibili a tale clausola generale e che siano analoghe a quelle tipizzate nominativamente nella norma, nel senso che devono essere di pari, o maggiore, gravità ed eccezionalità. Le quali ultime quindi – l’«assoluta novità della questione trattata» ed il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti» – hanno carattere paradigmatico e svolgono una funzione parametrica ed esplicativa della clausola generale. Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. L’obbligo di motivazione della decisione di compensare le spese di lite, vuoi nelle due ipotesi nominate, vuoi ove ricorrano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, discende dalla generale prescrizione dell’articolo 111, sesto comma, Cost., che vuole che tutti i provvedimenti giurisdizionali siano motivati. 17.− L’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale in riferimento agli articolo 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, Cost. – indicati da entrambe le ordinanze di rimessione − comporta l’assorbimento della questione in riferimento agli ulteriori plurimi parametri indicati nella sola ordinanza del Tribunale ordinario di Reggio Emilia articolo 25, primo comma 102 e 104 Cost. nonché, per il tramite dell’articolo 117, primo comma, Cost., l’articolo 47 CDFUE e gli articolo 6 e 13 CEDU perché tutti orientati ad ottenere la medesima dichiarazione di illegittimità costituzionale. Residua però il particolare profilo di censura che fa riferimento alla posizione del lavoratore come parte “debole” del rapporto controverso censura che costituisce autonoma e distinta questione, ridimensionata ma non del tutto assorbita dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata. Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia evidenzia la posizione di maggior debolezza del lavoratore nel contenzioso di lavoro e chiede che la disposizione censurata sia ricondotta a legittimità introducendo un’ulteriore ragione di compensazione delle spese di lite che tenga conto della natura del rapporto giuridico dedotto in causa – ossia del rapporto di lavoro subordinato – e della condizione soggettiva della parte attrice quando è il lavoratore che agisce nei confronti del datore di lavoro. La questione è posta con riferimento al principio di eguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3, secondo comma, Cost., che esigerebbe – secondo il giudice rimettente − un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il lavoratore in quanto soggetto più “debole”, costretto ad agire giudizialmente, mentre il censurato articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ. avrebbe in concreto l’effetto opposto. Sarebbero altresì violati, per il tramite dell’articolo 117, primo comma, Cost., anche gli articolo 14 CEDU e 21 CDFUE, in punto di discriminazione fondata, rispettivamente, «sulla ricchezza» o su «ogni altra condizione» articolo 14 CEDU o sul «patrimonio» articolo 21 CDFUE . 18.− La questione non è fondata. Rileva in proposito da una parte il generale canone della par condicio processuale previsto dal secondo comma dell’articolo 111 Cost. secondo cui «[o]gni processo si svolge [] tra le parti, in condizioni di parità». Per altro verso la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte “debole” − ossia quella per la quale possa essere maggiormente gravoso il costo del processo, anche in termini di rischio di condanna al pagamento delle spese processuali, sì da costituire un’indiretta remora ad agire o resistere in giudizio − trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo comma dell’articolo 24 Cost., in «appositi istituti» diretti ad assicurare «ai non abbienti [] i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione». Nel binario segnato da questi due concorrenti principi costituzionali si colloca la disposizione censurata che, non considerando la situazione soggettiva, nel rapporto controverso, della parte totalmente soccombente, è ispirata al principio generale della par condicio processuale. Anche le due richiamate ipotesi che facoltizzano il giudice a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite − le quali, a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale, sono non più tassative, ma parametriche di altre analoghe ipotesi di «gravi e eccezionali ragioni» – rinviano comunque a condizioni prevalentemente oggettive e non già a situazioni strettamente soggettive della parte soccombente, quale l’essere essa la parte “debole” del rapporto controverso. Finanche la legge 11 agosto 1973, numero 533 Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie − la quale pur conteneva disposizioni ispirate al favor per questo contenzioso al fine di agevolare la tutela giurisdizionale del lavoratore, quali quelle che prevedevano l’esenzione da ogni spesa o tassa articolo 10 ed il patrocinio a spese dello Stato per le parti non abbienti articolo 11 – non aveva derogato al disposto dell’articolo 92 cod. proc. civ., quanto alla condanna della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite. In ogni caso per il lavoratore operava la regola generale della condanna della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite, salva la facoltà per il giudice di compensarle sulla base della già richiamata clausola generale, all’epoca vigente, dei «giusti motivi». Ed opera tuttora la stessa regola, salva la facoltà per il giudice di compensarle ove ricorrano, secondo la disciplina attualmente vigente, le due ipotesi nominativamente previste dal secondo comma dell’articolo 92 cod. proc. civ., oltre – a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata – anche altre analoghe «gravi ed eccezionali ragioni». Solo per le controversie in materia previdenziale proposte nei confronti degli istituti di previdenza ed assistenza l’articolo 9 della legge numero 533 del 1973 aveva sostituito l’articolo 152 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile, disponendo che il lavoratore soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali non era assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari a favore degli istituti di assistenza e previdenza, a meno che la pretesa non fosse manifestamente infondata e temeraria disposizione questa, peraltro anticipata, in una portata più limitata, dal dettato dell’articolo 57 della legge 30 aprile 1969, numero 153 Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale e successivamente estesa anche alle controversie di natura assistenziale dalla sentenza numero 85 del 1979. Ma il collegamento dell’esonero con la condizione di «non abbiente» è stato dapprima prefigurato, come possibile, da questa Corte sentenza numero 135 del 1987 e poi posto a fondamento della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 2, del decreto-legge 19 settembre 1992, numero 384 Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali , convertito, con modificazioni, in legge 14 novembre 1992, numero 438, per aver, tale disposizione, operato un’indiscriminata abrogazione dell’esonero stesso, trascurando qualunque distinzione tra abbienti e non abbienti sentenza numero 134 del 1994 esonero poi ripristinato dall’articolo 42, comma 11, del decreto-legge 30 settembre 2003, numero 269 Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici , convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, numero 326, in favore della parte soccombente che risulti «non abbiente», essendo l’esonero condizionato all’integrazione di un requisito reddituale significativo della debolezza economica del ricorrente ordinanza numero 71 del 1998 . Quindi da una parte la condizione soggettiva di “lavoratore” non ha mai comportato alcun esonero dall’obbligo di rifusione delle spese processuali in caso di soccombenza totale nelle controversie promosse nei confronti del datore di lavoro d’altra parte nelle controversie di previdenza ed assistenza sociale, promosse nei confronti degli enti che erogano prestazioni di tale natura, la condizione di assicurato o beneficiario della prestazione deve concorrere con un requisito reddituale perché, in via eccezionale, possa comportare siffatto esonero. La ragione di tale eccezione in favore della parte soccombente «non abbiente», e quindi “debole”, risiede nella diretta riferibilità della prestazione previdenziale o assistenziale, oggetto del contenzioso, alla speciale tutela prevista dal secondo comma dell’articolo 38 Cost., che mira a rimuovere, o ad alleviare, la situazione di bisogno e di difficoltà dell’assicurato o dell’assistito. Invece la qualità di “lavoratore” della parte che agisce o resiste , nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale articolo 3, secondo comma, Cost. − per derogare al generale canone di par condicio processuale quanto all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente. Di ciò non si è dubitato in riferimento all’articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ. nel testo vigente fino al 2009 ma lo stesso può affermarsi nell’attuale formulazione della medesima disposizione, quale risultante dalla presente dichiarazione di illegittimità costituzionale. Dalla quale comunque consegue che la circostanza – segnalata dal giudice rimettente – che il lavoratore, per la tutela di suoi diritti, debba talora promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro cosiddetto contenzioso a controprova , costituisce elemento valutabile dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle «gravi ed eccezionali ragioni» che consentono al giudice la compensazione delle spese di lite. 19.− Né la ritenuta non fondatezza della questione di legittimità costituzionale è revocata in dubbio dai citati parametri sovranazionali interposti, che vietano trattamenti discriminatori basati sul censo. La considerazione che sovente il contenzioso di lavoro possa presentarsi in termini sostanzialmente diseguali, nel senso che il lavoratore ricorrente, che agisca nei confronti del datore di lavoro, sia parte “debole” del rapporto controverso, giustifica norme di favore su un piano diverso da quello della regolamentazione delle spese di lite, una volta che quest’ultima è resa meno rigida a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale del secondo comma dell’articolo 92 cod. proc. civ. con l’innesto della clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni». Si sono già ricordate le disposizioni di favore contenute negli articolo 10 e 11 della legge numero 533 del 1973 peraltro successivamente abrogati ad esse può aggiungersi anche l’articolo 13, comma 3, del d.P.R. 30 maggio 2002, numero 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia Testo A », il quale prevede che il contributo unificato per le spese di giustizia è ridotto alla metà per le controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego. Più in generale può dirsi che è rimesso alla discrezionalità del legislatore ampliare questo favor praestatoris, ad esempio rimodulando, in termini di minor rigore o finanche di esonero, il previsto raddoppio di tale contributo in caso di rigetto integrale, o di inammissibilità, o di improcedibilità dell’impugnazione articolo 13, comma 1-quater, del d.P.R. numero 115 del 2002 . 20.− In conclusione risulta non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, mirante ad innestare nella disposizione censurata, come deroga alla regola secondo cui la parte soccombente è condannata alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa – oltre alle ipotesi nominativamente previste dalla disposizione stessa, come integrate dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale nei termini di cui sopra al punto 16. – un’ulteriore deroga centrata sulla natura della lite, perché controversia di lavoro, ed a favore solo del lavoratore che agisca in giudizio nei confronti del datore di lavoro. Per Questi Motivi la Corte Costituzionale riuniti i giudizi, 1 dichiara inammissibile l’intervento della Confederazione generale italiana del lavoro 2 dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’articolo 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, numero 132 Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile , convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, numero 162, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni 3 dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo modificato dall’articolo 13, comma 1, del d. l. numero 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nella legge numero 162 del 2014, sollevate, in riferimento agli articolo 3, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli articolo 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, numero 848, e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2018.