L’irragionevole durata del processo deve essere risarcita solo se ha creato ansia e sofferenza nell’istante

La domanda di equa riparazione per irragionevole durata del processo non può trovare accoglimento se l’istante era consapevole dell’infondatezza dell’azione originariamente intentata.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 14607/17 depositata il 12 giugno. La vicenda. A seguito dell’irragionevole durata di un giudizio amministrativo promosso da diversi di soggetti nei confronti dell’INPDAP, iniziato nel 1995 e conclusosi nel 2006, veniva proposta domanda di equa riparazione dinanzi alla Corte d’appello. I Giudici rigettava la domanda escludendo il pregiudizio patrimoniale di regola conseguente all’irragionevole durata del processo per la presumibile consapevolezza circa la infondatezza della pretesa azionata nel giudizio presupposto in base agli univoci orientamenti giurisprudenziali sul tema. La sentenza viene dunque impugnata in Cassazione. Ansia e sofferenza. Il ricorso non trova condivisione da parte del Collegio di legittimità che sottolinea come la giurisprudenza abbia più volte affermato che l’ansia e la sofferenza che normalmente insorgono nella persona quali conseguenze psicologiche del perdurare dell’incertezza sull’assetto delle posizioni coinvolte dal dibattito processuale nelle quali si concretizza il danno non patrimoniale dall’irragionevole durata del processo, sono escluse laddove sia riscontrabile un’originaria consapevolezza dell’inconsistenza delle domande stesse, difettando in tal caso una condizione soggettiva di incertezza e venendo meno il presupposto dello stato di disagio. Ed è proprio la situazione verificatasi nel caso di specie in cui i ricorrenti si sono visti rigettare la domanda originaria in conseguenza del pacifico tenore della normativa invocata a sostegno delle proprie istanze. La Corte d’appello ha dunque correttamente argomentato il rigetto della domanda di equa riparazione ed il ricorso viene in conclusione rigettato.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, sentenza 10 novembre 2016 – 12 giugno 2017, n. 14607 Presidente Petitti – Relatore Falaschi Svolgimento del processo Con ricorso in riassunzione depositato in data 24 febbraio 2011 avanti alla Corte di appello di Perugia, B.D. , +Altri , proponevano domanda di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, per violazione dell’art. 6 della C.E.D.U. a causa della irragionevole durata del giudizio amministrativo da loro introdotto per ottenere dall’INPDAP l’inserimento, sulla base di calcolo dell’indennità di buonuscita, dell’indennità integrativa speciale nella misura del 60%, dinanzi al TAR Lazio con ricorso depositato nel luglio 1995, depositata istanza di prelievo nel novembre 1999, definito con sentenza depositata nell’ottobre 2006. La Corte d’appello, con il decreto depositato l’8 luglio 2014, accertato che il giudizio presupposto era stato introdotto nel luglio 1999 e non già nel luglio 1995 , ha rigettato la domanda, ritenendo di poter escludere nella specie il pregiudizio non patrimoniale normalmente conseguente al protrarsi del giudizio oltre la durata ragionevole, in considerazione della presumibile consapevolezza circa la infondatezza della pretesa azionata nel giudizio presupposto, in base all’univoco orientamento giurisprudenziale affermatosi nella Corte di Cassazione dal 2000 e scrutinato anche dal Consiglio di Stato e dalla Corte Costituzionale. Avverso tale decreto è stato proposto ricorso a questa Corte da taluni degli originari ricorrenti n. 23 , in epigrafe indicati, articolato su un unico motivo, cui ha replicato l’Amministrazione intimata con controricorso. Motivi della decisione La presente sentenza è redatta con motivazione semplificata così come disposto dal Collegio in esito alla deliberazione in Camera di consiglio. I ricorrenti censurano con l’unico motivo, sotto il profilo della violazione di norme di diritto art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 89 del 2001, artt. 6 par. 1 e 53 CEDU, art. 111 Cost. , che la corte di merito abbia escluso la sussistenza del danno non patrimoniale presumendo la insussistenza ab origine di interesse al ricorso in ragione dei precedenti giurisprudenziali contrari che evidenziavano il possibile esito negativo dell’iniziativa giudiziale nonostante la medesima sentenza del TAR Lazio desse atto - con valutazioni di merito - delle numerose pronunce della Corte di Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale in segno a loro sfavorevole. Il ricorso è infondato. Questa Corte ha più volte affermato che l’ansia e la sofferenza, che normalmente insorgono nella persona quali conseguenze psicologiche del perdurare dell’incertezza sull’assetto delle posizioni coinvolte dal dibattito processuale e nelle quali si sostanzia il danno non patrimoniale per l’eccessivo prolungarsi del giudizio, restano in radice escluse in presenza di una originaria consapevolezza della inconsistenza delle proprie istanze, dato che, in questo caso, difettando una condizione soggettiva di incertezza, viene meno il presupposto del determinarsi di uno stato di disagio cfr. Cass. n. 255095 del 2008 Cass. n. 21088 del 2005 . Ciò è quanto accaduto nel caso di specie, in cui i ricorrenti hanno azionato una pretesa verso la PA, derivante da rapporti di pubblico impiego e chiedendo l’inserimento - nella base di calcolo dell’indennità di buonuscita - dell’indennità integrativa speciale nella misura del 60% di quella goduta in corso di rapporto e non nella misura dell’80% della predetta quota del 60% come aveva provveduto l’INPDAP , con modalità di calcolo da sempre escluso dal Consiglio di Stato, già con la decisione n. 397 del 1999, orientamento mai modificato e recepito anche dalla Corte di Cassazione, ritenuta costituzionalmente legittima la normativa che prevede tale sistema di computo nei suoi vari aspetti dalla sentenza della Corte Cost. n. 103 del 1995 fino alla decisione n. 175 del 1997 , con la conseguenza che deve concordarsi con la corte di merito che nel periodo in cui l’azione fu proposta luglio 1995 o comunque nei tre anni successivi all’introduzione era, in effetti, già palese l’esito negativo del giudizio introdotto avanti al Giudice adito in presenza di norme che avevano previsto una diversa modalità di computo dell’indennità integrativa. L’esito sfavorevole agli odierni ricorrenti del giudizio davanti al Tar Lazio, determinato nel senso dell’esclusione di ogni tutela di diritto sostanziale alle loro pretese, conseguente dal piano tenore della normativa invocata in ordine alla disciplina del regime del pubblico impiego quanto all’indennità in questione, costituisce ragione per escludere per le parti rimaste soccombenti di per sé la tutela predisposta della legge n. 89 del 2001, art. 2, in ipotesi di irragionevole durata del processo, dovendosi fondatamente ritenere che i predetti, introducendo il giudizio avanti al giudice amministrativo nei confronti della pubblica amministrazione abbiano insistito in giudizio nelle loro ragioni, come accertato dal giudice a quo, nella consapevolezza della infondatezza della loro pretesa, che costituiva un chiaro tentativo di forzare il dettato normativo. Ne consegue che deve ritenersi che la Corte di appello di Perugia ha correttamente motivato il rigetto della domanda di equa riparazione sul rilievo della temerarietà della lite azionata dai ricorrenti. Per completezza argomentativa va osservato che la circostanza che la causa di merito sia configurabile come lite temeraria o che la parte abbia resistito al solo fine di conseguire l’equa riparazione non costituisce oggetto di un’eccezione in senso stretto, non configurandosi come fatto impeditivo la cui deduzione sia espressamente posta dalla legge a carico dell’Amministrazione, e potendo quindi essere desunta dagli elementi, anche presuntivi, ritualmente acquisiti agli atti o attinenti al notorio, i quali entrano a far parte del materiale probatorio che il giudice può liberamente valutare cfr. Cass. 8 aprile 2010 n. 8513 . Conclusivamente il ricorso va rigettato, con conseguente condanna in solido dei ricorrenti alla rifusione dei costi processuali sopportati dal Ministero intimato nella presente fase di legittimità e liquidati come da dispositivo. Risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228. P.Q.M. La Corte, rigetta il ricorso condanna i ricorrenti in solido alla rifusione in favore del Ministero dell’economia e delle finanze delle spese processuali del giudizio di Cassazione che liquida in complessi Euro 800,00, oltre ad eventuali spese prenotate a debito.