Opposizione a decreto ingiuntivo infondata: è abuso del processo

La responsabilità processuale aggravata si sostanzia in una forma di danno punitivo teso a scoraggiare l'abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia con la censura di iniziative giudiziarie avventate o meramente dilatorie. Il presupposto per l'applicabilità della norma è la presenza, in capo al destinatario della condanna, della mala fede o della colpa grave previsti per la lite temeraria di cui al comma 1 dell'art. 96 c.p.c

Con la pronuncia del 29 settembre 2016 n. 19285, il S.C. illustra lo stato dell’arte in ordine alla sanzione di cui all’art. 96, terzo comma, c.p.c., in relazione all’abuso del processo ed ai presupposti per l’emanazione della stessa. Il caso. La vicenda decisa dal S.C. con la sentenza in commento prende avvio dall’azione di convalida di sfratto contestata dal conduttore tra l’altro, in ordine alla legittimazione del locatore. In primo e secondo grado viene confermata la convalida sul rilievo della regolarità della successione nel contratto di disponibilità dell’immobile in questione circostanza, questa, oggetto delle doglianze del conduttore. Dette doglianze sono peraltro alla base del ricorso del Cassazione, che viene respinto ed il ricorrente condannato al pagamento della sanzione ex art. 96, comma 3, c.p.c., per aver abusato dello strumento processuale, nei termini illustrati nella massima. La condanna ex art. 96, terzo comma, c.p.c. quale ratio? Secondo la prevalente giurisprudenza, l'art. 96, comma 3, c.p.c. ha introdotto una forma di danno punitivo per scoraggiare l'abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia, tentando di deflazionare il contenzioso ingiustificato, escludendo la ricorrenza necessaria di un danno della controparte. Sanzione o risarcimento? La differenza con la lite temeraria”. Va peraltro evidenziato che l'ipotesi prevista dall'art. 96, comma 3 c.p.c. ha introdotto un meccanismo che deve ritenersi non solo e non tanto risarcitorio, quanto anche e soprattutto sanzionatorio e preordinato allo scoraggiamento dell'abuso del processo, nonché a preservare la funzionalità del sistema giustizia. In tale ottica, tale meccanismo è sottratto, a differenza dell'ipotesi di cui all'art. 96, comma 1, c.p.c., alla rigorosa prova del danno, essendo lo stesso condizionato unicamente all'accertamento di una condotta di grave negligenza o addirittura malafede processuale della parte. Condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c anche in assenza di prova del danno. In questa prospettiva, la giurisprudenza ha chiarito che la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, ai sensi del comma 3 dell'art. 96 c.p.c., ha natura sanzionatoria volta a scoraggiare condotte di abuso del processo ed officiosa, non corrisponde ad un diritto di azione della parte vittoriosa e può essere liquidata anche in assenza della prova di un danno subito dalla controparte. Abuso del processo come e perché? Entrando nel merito della questione, in giurisprudenza si è evidenziato che integra una ipotesi di abuso del processo, ad esempio, come tale sanzionabile ai sensi dell'art. 96 c.p.c. in commento, l'azione proposta da una parte sulla base di argomentazioni giuridiche ampiamente esaminate nei precedenti gradi di giudizio e rigettate, successivamente riproposte senza modifiche o integrazioni o analogamente, agisce con condotta sleale e scorretta, quindi abusiva, la parte convenuta che, chiamata in giudizio con ricorso sommario, presenti eccezioni e domande riconvenzionali manifestamente infondate al solo fine di ottenere la conversione del rito semplificato in rito ordinario. Nel caso di specie, il ricorrente ha riproposto nei giudizi di merito ed in Cassazione le medesime argomentazioni, in maniera ripetitiva e senza tener conto affatto delle motivazioni con le quali tali argomentazioni erano state in precedenza rigettate. Opposizione a decreto ingiuntivo infondata. Analogamente, e per esaminare casi simili, la proposizione di un'opposizione a decreto ingiuntivo meramente dilatoria costituisce abuso del processo, con pregiudizio della parte vittoriosa desumibile dalle nozioni di comune esperienza, legittimante la condanna dell'opponente ex art. 96, comma 3, c.p.c L'opposto, invero, si vede costretto a reagire ad una iniziativa giudiziaria del tutto ingiustificata dell'avversario, con l'impiego di tempo ed energie sottratte alle ordinarie occupazioni e, quindi, per un'attività non compensata dalla sola pronuncia sul rimborso delle spese giudiziali.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 6 luglio – 29 settembre 2016, numero 19285 Presidente Spirito – Relatore Graziosi Svolgimento del processo 1. Con atto notificato il 17 febbraio 2011 l’Azienda Ospedaliera intimava a P.C. licenza per finita locazione, citando per la convalida davanti al Tribunale di Napoli, in relazione a un immobile sito in XXXXXX locato al P. dal Comune il 9 maggio 1991 in forza della l. 392/1978 con contratto rinnovatosi - poi assoggettato alla l. 431/1998 - fino alla scadenza dell’8 maggio 2011, contratto per cui l’intimante, subentrata al Comune per decreto della Giunta Regionale ex articolo 26 L.R. 32/1994, gli aveva dato disdetta con raccomandata A.R. del gennaio 2010. Si opponeva il P. , eccependo difetto di legittimazione del Comune a detenere un immobile di proprietà dell’ente soppresso Ospedali Riuniti per , in difetto di provvedimento della Regione che glielo avesse trasferito ai sensi dell’articolo 66, quarto comma, d.p.r. 833/1978. Il Tribunale di Napoli, con sentenza numero 13123/2012, dichiarava cessato il contratto locatizio in data 8 maggio 2011 e condannava il conduttore al rilascio, rigettandone la domanda riconvenzionale di accertamento della nullità del contratto. Avendo il P. proposto appello ed essendosi costituita controparte resistendo, la Corte d’appello di Napoli ha rigettato l’appello con sentenza del 21 maggio - 11 giugno 2013. 2. Ha presentato ricorso P. Carmine, sulla base di cinque motivi,da cui si difende con controricorso l’Azienda Ospedaliera . Motivi della decisione 3. Il ricorso è manifestamente infondato. 3.1 Il primo motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, numero 3 c.p.c., violazione dell’articolo 66, quarto comma, I. 833/1978 nonché dell’articolo 2697 c.c Si adduce che l’articolo 66, quarto comma, l. 833/1978 aveva reso necessario che le Regioni emettessero gli atti legislativi e amministrativi necessari per i trasferimenti dei beni il ricorrente aveva contestato l’emanazione di atto amministrativo e comunque la sua esistenza quando fu stipulato il contratto di locazione in data 9 maggio 1991. La corte territoriale ha ritenuto che il DPGRC numero 3490/2000 abbia trasferito gli immobili dal Comune all’Azienda Ospedaliera, e ciò presupponeva la pregressa proprietà del Comune ma nulla potevasi presupporre e la proprietà deve essere provata per tabulas. Vi sarebbe quindi difetto di prova che sia avvenuto il passaggio in proprietà al Comune dell’immobile in questione. Il giudice d’appello, a tacer d’altro, espressamente rileva anche che per stipulare il contratto di locazione non è necessario essere il proprietario del bene locato, in quanto, come già osservato dal giudice di prime cure, chiunque abbia la disponibilità di fatto di una cosa, in base a titolo non contrario a nome di ordine pubblico, può validamente concederla in locazione, comodato o costituirvi altro rapporto obbligatorio ed è in conseguenza legittimato a richiederne la restituzione, allorché il rapporto venga a cessare motivazione, pagina 7 . Ciò è assorbente, e del tutto conforme all’insegnamento della giurisprudenza di questa Suprema Corte, per cui, appunto, nel contratto di locazione immobiliare può essere locatore anche chi non sia proprietario dell’immobile, ma ne abbia soltanto la disponibilità di fatto, purché sulla base di un titolo non contrario all’ordine pubblico v. Cass. sez 3, 20 agosto 2015 numero 17030 Cass. sez. 3, 22 ottobre 2014 numero 22346 Cass. sez. 3, 14 luglio 2011 numero 15443 Cass. sez. 3, 11 aprile 2006 numero 8411 ed essendo indiscusso che il contratto locatizio sia stato stipulato dal ricorrente come conduttore con il Comune di Napoli come locatore, e che quest’ultimo sia il dante causa, nel rapporto locatizio, dell’Azienda Ospedaliera OMISSIS che ha agito per la dichiarazione di cessazione del contratto e il rilascio dell’immobile, il motivo risulta chiaramente infondato. 3.2 Il secondo motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, numero 3 c.p.c., violazione degli articoli 115 e 421 c.p.c Secondo il ricorrente, l’Azienda Ospedaliera aveva esibito il DPRGC numero 3390/1982 quale atto di trasferimento solo all’udienza di discussione, e perciò tardivamente, il che lo renderebbe inutilizzabile. Né varrebbe qui il principio jura novit curia ex articolo 113 c.p.c., essendo tale decreto solo una fonte normativa subordinata. I giudici di merito avrebbero pertanto dovuto riconoscere che l’immobile originariamente apparteneva agli Ospedali Riuniti per OMISSIS , e che soltanto con i DPGRC nnumero 1316/1996 e 2230/1997 fu correttamente trasferito all’Azienda Ospedaliera. Ne conseguirebbe che ex articolo 66 I. 833/1978 avrebbe dovuto fondarsi l’eccezione di carenza della titolarità del bene in capo al Comune, con conseguente sua carenza di potere a stipulare il contratto di locazione. Emerge con evidenza dal testo motivazionale che il giudice d’appello non ha violato le norme di rito invocate nella rubrica del motivo, bensì ha ritenuto motivazione, pagina 6 che la produzione de qua all’udienza di discussione di primo grado non fosse rilevante, perché la prova della proprietà del Comune era già derivante dal disposto della L. 833/78 e della L. Regionale di attuazione 1.32/1994 e ciò è sufficiente per constatare l’infondatezza del motivo. Meramente ad abundantiam si osserva poi che non è ravvisabile l’interesse del ricorrente alla proposizione del presente motivo, perché, per quanto si è già esposto a proposito del motivo precedente, il contratto locatizio può essere stipulato anche se il locatore non è proprietario. 3.3 Il terzo motivo denuncia violazione ex articolo 360, primo comma, numero 3 c.p.c. degli articoli 115 e 421 c.p.c., in quanto la questione oggetto del secondo motivo non poteva essere risolta dal giudice d’appello mediante scienza personale, né sarebbe applicabile per la natura del DPGRC l’articolo 113 c.p.c. d’altronde deve decidersi iuxta alligata et probata . Si tratta, evidentemente, di una riproposizione della doglianza precedente, che si tenta di differenziare con il riferimento alla scienza personale - la cui utilizzazione avrebbe condotto alla violazione del principio per cui la decisione deve formarsi iuxta alligata et probata -, scienza privata di cui peraltro non si ravvisa nella motivazione alcuna traccia, avendo la corte territoriale fatto riferimento, come si è visto, direttamente alla l. 833/1978 e alla legge regionale di attuazione. Vale per il resto quanto già osservato a proposito dei due precedenti motivi. 3.4 Il quarto motivo denuncia violazione ex articolo 360, primo comma, numero 3 c.p.c. di l. 2248/1865 e di r.d. 2440/1223, per avere ritenuto il giudice d’appello che il principio per cui chi non è proprietario è comunque legittimato a stipulare il contratto di locazione si applica anche se il locatore è la pubblica amministrazione. Si tratta di un asserto assolutamente generico, che non indica quale sarebbe in effetti la norma da cui trarre il divieto alla pubblica amministrazione di agire jure privatorum nella stipulazione di un contratto di locazione dopo avere riconosciuto che in ambito privatistico è vero che non necessariamente il locatore debba essere proprietario del bene essendo necessaria la mera disponibilità dello stesso, sempre che non contraria a nome di ordine pubblico , il ricorrente ritorna alla tematica della mancata prova della proprietà o disponibilità dei Comune sull’immobile locato, per sostenere - e ciò è ovviamente un argomento fattuale, in questa sede inammissibile - che il Comune non aveva alcun titolo, né è stato dimostrato che lo avesse attinente l’immobile in questione. Il motivo risulta pertanto privo di consistenza. 3.5.1 Il quinto motivo denuncia violazione, ex articolo 360, primo comma, numero 3 c.p.c., degli articoli 112 c.p.c. e 1372 c.c. per avere il giudice d’appello ritenuta legittima la condanna in primo grado dell’attuale ricorrente ex articolo 96, terzo comma, c.p.c Va premesso che la corte territoriale, al riguardo, ha osservato che tale condanna presuppone il requisito della mala fede o della colpa grave, ossia la rimproverabilità della condotta del soccombente come nell’ipotesi di cui all’articolo 96, primo comma, c.p.c., ma non esige la prova specifica del pregiudizio sofferto dalla parte a causa della lite temeraria subita, trattandosi di una condanna che può essere emessa dal Giudice anche d’ufficio, sulla base degli elementi emersi all’esito del giudizio . Infatti l’istituto presenta una natura mista sanzionatoria risarcitoria, ove la liquidazione viene operata in via equitativa dal decidente, tenendo conto della gravità della colpa, dei presumibili pregiudizi arrecati alla controparte in ragione della natura, dell’oggetto della causa e della durata del processo, sia in termini di pregiudizio patrimoniale che non patrimoniale e nel caso di specie il giudice di prime cure aveva giustificato la condanna ravvisando la malafede della parte soccombente nella contrapposizione evidente e deliberata tra le deduzioni difensive espresse nel presente giudizio e le difese espresse nel precedente giudizio cautelare, di cui la parte attrice ha allegato il ricorso introduttivo, avendo nel presente giudizio negato l’esistenza di un valido contratto di locazione e nel procedimento cautelare allegato la validità del medesime. E non è affatto pertinente la censura dell’appellante di violazione dell’articolo 112 c.p.c., perché il riferimento alla causa petendi del giudizio cautelare costituisce solo l’elemento fattuale addotto a riprova della malafede della parte ma non integra le ragioni del rigetto della domanda giudiziale di nullità avanzata nel presente giudizio . motivazione della sentenza impugnata, pagine 7-8 . 3.5.2 Nel motivo in esame il ricorrente sembra non aver percepito il contenuto della motivazione appena sintetizzato, in quanto denuncia violazione degli articoli 112 c.p.c. e 1372 c.p.c. in relazione all’articolo 360, primo comma, numero 3 c.p.c. asserendo che nel caso di specie, in nulla avrebbe dovuto inferire il procedimento cautelare, riferendosi al quale il giudice di primo grado e il giudice di secondo grado sarebbero entrambi incorsi in un errore procedurale e di diritto , violando l’articolo 112 c.p.c. in relazione all’articolo 1372 c.c In primo luogo sarebbe stato violato l’articolo 1372 c.c. Infatti, la Corte . ha dimenticato la circostanza che il Giudice deve osservare la corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, cosicché, di fronte ad una richiesta di accertamento della nullità di un contratto, non può fondare la sua decisione basandosi su una domanda di esecuzione del contratto medesimo, che la stessa parte abbia sollevato in un altro, diverso, giudizio perché non è sufficiente, ad inibire la potestas iudicandi , la mera allegazione della proposizione, da parte del P. , di una domanda di esecuzione in altro e separato giudizio . Non si riesce, anzitutto, a comprendere come in questo ragionamento di natura processuale - a prescindere dalla sua fondatezza o meno - possa riscontrarsi una qualche pertinenza con la violazione dell’articolo 1372 c.c. Comunque il ricorrente continua affermando che la corte territoriale avrebbe errato proprio nel non essersi resa conto che, al momento della proposizione del ricorso cautelare richiamato in sentenza, la nullità del contratto di locazione del P. era stata solo eccepita, cosicché esisteva solo quale eccezione di parte” e tuttavia la nullità va dichiarata dal giudice davanti al quale è eccepita, mentre, quando fu presentato il ricorso ex articolo 700 c.p.c., non esisteva alcun provvedimento dichiarativo della nullità del contratto di locazione e in difetto di tale pronuncia, ovvero in difetto di un accertamento della nullità del contratto, dichiarata con pronuncia capace di passare in giudicato, il contratto di locazione medesimo continuava ad esistere , producendo effetti giuridici tra cui quelli invocati dal P. nel procedimento cautelare . Perciò non vi erano fondati motivi di diritto per rilevare la malafede processuale e condannare il P. per responsabilità processuale aggravata . Con questa - tutt’altro che limpida e lineare, lo si è già notato anche a proposito dell’articolo 1372 c.c. - argomentazione, il ricorrente in effetti, come già si accennava, non si rapporta al reale contenuto del vaglio del giudice d’appello sulla doglianza attinente la condanna ex articolo 96, terzo comma, c.p.c Non solo dell’articolo 1372 c.c., ma pure dell’articolo 112 c.p.c. non si ravvisa in tale vaglio alcuna traccia di violazione. Invero, la corte territoriale ha respinto l’asserto dell’appellante di violazione dell’articolo 112 c.p.c. sulla base del fatto che, come già si è riportato, il riferimento alla causa petendi del giudizio cautelare era stato utilizzato dal giudice di prime cure esclusivamente come elemento fattuale addotto a riprova della malafede della parte elemento, d’altronde, ictu ocuti consistente, poiché esternante la clamorosa contrapposizione delle linee difensive del P. , ovvero la sua consapevolezza id est la sua malafede nell’avvalersi degli strumenti giurisdizionali della infondatezza di una delle due prospettazioni che egli stesso, come un Giano bifronte, aveva fatto valere, avendo dinanzi allo stesso Tribunale in un giudizio negato la validità del contratto di locazione, e nell’altro giudizio addotta la sua validità. Il motivo, pertanto, non presenta alcun pregio. In conclusione, quindi, il ricorso deve essere rigettato. A ciò consegue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese alla controricorrente, liquidate come da dispositivo. 6.1 Gli argomenti dei motivi, come si è visto manifestamente infondati, o perché ripetitivi di quanto era già stato confutato dal giudice d’appello cfr. Cass. sez. 6-3, ord. 18 novembre 2014 numero 24546, che rimarca la sussistenza della colpa grave ex articolo 96, terzo comma, in grado di impugnazione - in quel caso era appello, ma ciò non può non valere anche per il ricorso per cassazione - quando chi ha impugnato abbia insistito colpevolmente in tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal giudice precedente oppure adducendo censure di tale inconsistenza giuridica che questa avrebbe potuto da lui essere percepita inducendolo a non impugnare , o perché assolutamente irrilevanti o assolutamente generici, o perché, comunque, non rapportati all’effettivo contenuto della sentenza impugnata, dimostrano che la proposizione del ricorso per cassazione avverso tale sentenza ha integrato un abuso del diritto all’impugnazione, abuso che, per l’evidente inconsistenza appena rilevata di tutti i motivi, non può che essere stato consapevole da parte del ricorrente, che pertanto ha agito con una impostazione di mala fede processuale sull’abuso dello strumento processuale rispetto al quale rado dell’istituto di cui all’articolo 96, terzo comma, è prevenire e comunque sanzionare cfr. la recentissima Cass. sez. lav. 19 aprile 2016 numero 7726 - che rimarca le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso - e l’ancor più significativa Cass. sez. 6-3, ord. 22 febbraio 2016 numero 3376 - la quale evidenzia come l’istituto in questione si correla con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonché con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo art. 111 Cost. , di illiceità dell’abuso del processo e di necessità di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali . La questione merita comunque qualche approfondimento. 6.2 Ferma, ovviamente, la distinzione tra esercizio del diritto processuale e abuso del diritto processuale per cui non è certo identificabile l’abuso nella mera infondatezza della prospettazione - cfr. Cass. sez. 6 - 2, ord. 30 novembre 2012 numero 21570 - , tale discrimen deve concretizzarsi proprio nella presenza di malafede o colpa grave, non potendosi sostenere tenuto conto della tutela costituzionale e sovranazionale della fruizione della giurisdizione pubblica - che quel che è una vera sanzione discenda da una sorta di responsabilità oggettiva per l’esito sfavorevole del processo. Pur essendo stato l’istituto inserito nell’articolo 96 c.p.c. come terzo comma dall’articolo 45, dodicesimo comma, l. 18 giugno 2009 numero 69 con un riferimento connettivo all’articolo 91 c.p.c. - ovvero alla condanna alle spese per soccombenza che è divenuta sempre più oggettiva nell’evoluzione del rito civile - e con un incipit che letteralmente avrebbe potuto svincolarlo dal presupposto della mala fede o della colpa grave di cui al primo comma dell’articolo 96 o quanto meno dalla colpa semplice del secondo comma in ogni caso , l’interpretazione si è, infatti, orientata immediatamente e logicamente verso l’esigenza dell’elemento soggettivo, per non creare, appunto, una confusione tra l’esercizio del diritto e l’abuso del diritto, non omettendo altresì di considerare l’incidenza allo scopo del potere anche puramente officioso e quantitativamente discrezionale che l’istituto configura sulla necessità dello stesso elemento soggettivo richiesto per la fattispecie del primo comma si rimanda alla giurisprudenza già citata, e in particolare a Cass. sez. 6 - 2, ord. 30 novembre 2012 numero 21570, per cui, appunto, la condanna ex articolo 96, terzo comma presuppone l’accertamento della mala fede o colpa grave della parte soccombente, non solo perché la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile e sulla stessa linea v. Cass. sez. 6 - 2, ord. 11 febbraio 2014 numero 3003 . Non si oppone a questo già netto orientamento del giudice nomofilattico il giudice delle leggi con la recentissima sentenza del 26 giugno 2016 numero 152. Peraltro, essendo stata sollevata una questione di illegittimità costituzionale dal Tribunale di Firenze per essere la somma oggetto di sanzione destinata alla controparte, anziché allo Stato, la Corte Costituzionale esamina l’istituto dell’articolo 96, terzo comma, c.p.c., facendone risaltare, in particolare, lo scopo pubblicistico che permane come fondante va rimarcata la comunanza dell’impostazione con quella della già citata Cass. sez. 6-3, ord. 22 febbraio 2016 numero 3376 nonostante la destinazione al privato della somma sanzionatoria. E quindi sottolinea che l’istituto introdotto dalla novella del 2009 risponde ad una funzione sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume già di per sé notoriamente eccessivo del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti . La condanna d’altronde è adottabile anche d’ufficio, e ciò la sottrae all’impulso di parte e ne conferma, ulteriormente, la finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende o non è, comunque, esclusivo quello della parte stessa, e si cobra di connotati innegabilmente pubblicistici per cui si tratta di una condanna di natura sanzionatoria e officiosa .per l’offesa recata alla giurisdizione. Il che non è contraddetto, bensì è confermato, dal fatto che il pagamento della somma è previsto a favore della controparte in questo, infatti, il giudice delle leggi riscontra una connessione all’obiettivo di assicurare una maggiore effettività, ed una più incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna , sul presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma in tempi e con oneri inferiori a quelli che graverebbero su di un soggetto pubblico . 6.3 La ratio dell’istituto, dunque, può definirsi assolutamente pubblicistica, come conferma d’altronde la natura sanzionatoria e non risarcitoria della condanna. Si tratta, invero, di un presidio del processo dal suo abuso, ovvero dalla lesione dell’interesse collettivo, id est pubblico, a un adeguato funzionamento del sistema giurisdizionale, che ovviamente si rispecchia sull’esigenza della ragionevole durata del processo. Dopo interventi sul rito in tal senso almeno parzialmente diretti del giudice ordinario, recuperando la ineludibile positività della struttura decadenziale, un radicale revirement dell’impostazione e della concezione del processo civile è disceso infine in modo inequivoco dalla legge costituzionale 23 novembre 1999 numero 2, che, attraverso la novellazione dell’articolo 111 Cost., lo ha estratto dal miope liberismo delle scelte privatistiche il potere dispositivo, ovvero, secondo una espressione più sincera, il processo come gioco per inserirlo, come in effetti non può che essere, in una valenza pubblica, per cui il diritto al processo e i diritti nel processo trovano sempre confine non solo nei diritti della controparte, ma altresì nel diritto della collettività a un sistema giurisdizionale efficiente e celere, e quindi non utilizzato in modo solo formalmente lecito ma in realtà per obiettivi e con metodi sostanzialmente illeciti, cioè abusivi. La tutela del processo in quanto strumento condiviso che lo Stato ora garantisce si è manifestata sia a livello giurisprudenziale per cui l’abuso del processo si è identificato oramai nella utilizzazione di strumenti processuali per finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per cui li progetta il legislatore - il che il più delle volte si concretizza nella parcellizzazione, o comunque nella dissezione processuale di un evento fattuale riconducibile ad una unità giuridica sostanziale - non solo alla luce del dovere alla solidarietà, ma pure del principio del giusto processo, inteso precipuamente come effettività della tutela giurisdizionale da ultimo, Cass. sez. 6-2, 5 maggio 2016 numero 9100, Cass. sez.1, 31 marzo 2016 numero 6277, Cass. sez. 6-2 18 marzo 2016 numero 5433, Cass. sez. lav., 11 marzo 2016 numero 4867, Cass. sez. 6-3, ord. 22 febbraio 2016 numero 3376, Cass. sez. 6-2, 9 febbraio 2016 numero 2587, S.U. 16 gennaio 2015 numero 643, S.U. 18 novembre 2015 numero 23539, S.U. 15 maggio 2015 numero 9935, Cass. sez. 1, 13 febbraio 2015 numero 2949, Cass. sez. 1 30 aprile 2014 numero 9488, S.U. ord. 24 aprile 2014 numero 9251, Cass. sez. 3, 7 ottobre 2013 numero 22812, Cass. sez. 5, 2 ottobre 2013 numero 22502 , sia a livello di legislazione ordinaria. Sotto questo aspetto vi è stato un crescendo, sia su un piano di automatismo - la già accennata evoluzione della disciplina delle spese, che si è oggettivizzata in sintonia alla soccombenza con eliminazione quasi totale di un adeguamento compensativo al caso concreto -, sia su un piano diretto proprio al contenimento dell’abuso, cioè sanzionatorio. Essendo stata percepita la debolezza, allo scopo deflattivo, dell’articolo 96 c.p.c. - al primo comma di rara applicazione per l’esigenza probatoria -, si è introdotta una forma specifica per l’abuso nel grado di legittimità di più agevole utilizzazione e già sanzionatoria, seppure con il freno di un quantum predeterminato e contenuto il quarto comma dell’articolo 385 c.p.c., che era stato aggiunto dall’articolo 13 d.lgs. 2 febbraio 2006 numero 40 , per poi dilatare il presidio a tutto l’ambito del processo civile mediante appunto l’introduzione del terzo comma dell’articolo 96 c.p.c., effettuata dalla stessa novella del 2009, la quale ha tolto dall’articolo 385 c.p.c. l’istituto prodromico che era stato previsto nel quarto comma. 6.4 Quanto illustrato, ovviamente, non può non incidere sulla natura dell’elemento soggettivo che, implicitamente ma inequivocamente, l’articolo 96, terzo comma, richiede. Nella proposizione di una impugnazione, per identificarlo occorre parametrare il contenuto dell’atto impugnativo con il contenuto del provvedimento impugnato. Una riproposizione pedissequa di quanto era già stato sottoposto al giudice che lo ha emesso, e che non si rapporta in modo specifico alle risposte di confutazione che il giudice ha fornito per opporre specifiche obiezioni a tali risposte che non consistano esclusivamente nella ripetizione di quanto gli era stato addotto già di per sé ha natura abusiva imperniata sulla mala fede, in quanto non tiene conto del fatto che l’impugnazione deve avere per oggetto il provvedimento impugnato, e non può pretermetterlo. Quantomeno abuso con colpa grave, poi, deve riscontrarsi in una impugnazione che travisa un contenuto chiaro e lineare del provvedimento impugnato, attribuendo ad esso un contenuto diverso per sostenere la propria tesi di impugnante. E ancora, deve riconoscersi un abuso con mala fede o colpa grave nel caso in cui, senza alcun dubbio, l’impugnazione viene utilizzata per una funzione diversa da quella che il legislatore le affida. così avviene, per esempio, qualora si presenti una impugnazione esclusivamente di merito dinanzi al giudice di legittimità cfr. in quest’ultimo senso la già citata Cass. sez. 6 - 3, ord. 22 febbraio 2016 numero 3376 . Infine, non può non rilevare quel che è sempre stato il presupposto sotto il profilo soggettivo già del primo comma dell’articolo 96, cioè la conclamata infondatezza la temerarietà della prospettazione giuridica con cui si agisce o con cui ci si difende, vale a dire una inconsistenza giuridica percepibile che avrebbe dovuto indurre dal farla valere cfr. ancora la già citata Cass. sez. 6 - 3, ord. 18 novembre 2014 numero 24546, nonché Cass. sez. 3, 30 dicembre 2014 numero 27534 e Cass. sez. 6 - 3, 21 gennaio 2016 numero 1115 infondatezza che non rileva soltanto in relazione al diritto sostanziale, ma deve rapportarsi anche al rito processuale, e dunque a quanto concerne le modalità di proposizione del diritto sostanziale per esempio, una rappresentazione del diritto sostanziale del tutto generica ed assertiva, priva di alcuna specifica illustrazione . Tutti aspetti che, ovviamente, sono ben idonei a riflettersi, previo il necessario accertamento su chi ha operato nel caso concreto le scelte abusive, sulla responsabilità professionale del difensore nel caso in cui questa sussista e l’assistito agisca nei confronti del suo avvocato, viene a configurarsi - logico e inevitabile completamento del presidio posto dal legislatore a una corretta utilizzazione dello strumento processuale - una fattispecie di sanzione per via indiretta a carico della parte tecnica in forza di iniziativa della parte sostanziale aspetto, questo, che non a caso riecheggia parzialmente l’altro affidamento all’iniziativa privata che si rinviene nell’articolo 96, terzo comma, cioè, come evidenziato dalla Corte Costituzionale, la riscossione ad opera della parte vittoriosa della sanzione dal suo avversario , così giungendo tendenzialmente a un pieno effetto deflattivo/preventivo di tutela dell’adeguato funzionamento del sistema giurisdizionale. 6.5 Nel caso in esame, quindi, si conferma quanto era già stato preannunciato, e cioè la sussistenza della fattispecie di cui all’articolo 96, terzo comma, anche sotto il profilo del’elemento soggettivo attribuibile - nel senso appena precisato - al ricorrente. Infatti i primi tre motivi fingono di ignorare la questione, pur evidenziata dal giudice d’appello, della non necessità del diritto di proprietà in capo al locatore dell’immobile, intessendo una serie di argomentazioni non pertinenti e giungendo perfino ad attribuire alla corte territoriale un’utilizzazione della scienza privata di cui non si scorge traccia nell’impugnata sentenza. Il quarto motivo è affetto da una genericità assoluta, che lo inficia radicalmente dal punto di vista processuale. Il quinto motivo, infine, come sopra si è sintetizzato, offre delle argomentazioni del tutto prive di connessione con la tematica proposta si pensi al riferimento all’articolo 1372 c.c. e che pretermettono, se non travisano, il contenuto della motivazione che il giudice d’appello offre per confutare la doglianza corrispondente che era stata avanzata nel gravame di merito. Il ricorso, pertanto, integra un ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale, suscitando un inutile spreco di tempo e di energie da parte del suddetto sistema, onde si ritiene di dovere applicare d’ufficio l’articolo 96, terzo comma, c.p.c Per quel che concerne, infine, il quantum della sanzione da irrogare del tutto discrezionale, con l’unico limite all’equità che è rappresentato dalla ragionevolezza Cass. sez. 6 - 2, ord. 30 novembre 2012 numero 21570 , considerata la natura di eclatante eppur insistente infondatezza che connota il ricorso, e tenuto conto altresì dell’evidente scopo defatigatorio, si stima equo determinarlo nella misura di Euro 20.000. Sussistono, infine, ex articolo 13, comma 1 quater, d.p.r. 115/2012 i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 3200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre gli accessori di legge. Condanna altresì il ricorrente a pagare a controparte la somma di Euro 20.000 ex articolo 96, terzo comma, c.p.c Ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater, d.p.r. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.