Niente indennizzo se l’attore, nel corso della causa, assume la consapevolezza di essere nel torto

Nel caso in cui la consapevolezza del proprio torto da parte dell’attore intervenga nel corso della causa, per effetto di circostanze nuove che rendano manifesto il futuro esito negativo del giudizio, pur non configurandosi un’ipotesi di lite propriamente temeraria, per l’iniziale buona fede della parte attrice, la reazione ansiogena su cui si fonda il diritto ad un equo indennizzo ai sensi della legge c.d. Pinto è da escludersi a decorrere dal momento in cui la parte stessa acquisisce tale consapevolezza, facendo venir meno da allora in poi il diritto all’indennizzo per la successiva irragionevole durata della causa.

Così si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 4890, depositata l’11 marzo 2015. Il fatto. Ex dipendenti della Polizia di Stato o appartenenti a corpi militari ai quali subentravano i loro eredi nel corso del giudizio adivano la Corte d’appello di Perugia per ottenere la condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento di un equo indennizzo per l’eccessiva durata di un processo amministrativo da loro instaurato innanzi al TAR del Lazio nell’aprile del 2002, definito con sentenza di rigetto nel dicembre 2009. La Corte d’appello rigettava i ricorsi e regolava le spese in base alla soccombenza. Condannava i ricorrenti per responsabilità aggravata, osservando che gli eredi avevano proposto ricorsi separati, ciascuno senza menzionare l’esistenza dei coeredi, con il rischio concreto che potesse essere riconosciuto a ciascuno l’intera spettanza del de cuius . I soccombenti ricorrono per la cassazione del decreto della Corte d’appello. Il patema da ritardo. Il Collegio osserva che il patema da ritardo nella definizione del processo è da escludersi allorché la parte rimasta soccombente, consapevole dell’inconsistenza delle proprie istanze, abbia proposto una lite temeraria, difettando in questi casi la stessa condizione soggettiva di incertezza e, dunque, elidendosi il presupposto dello stato di disagio e sofferenza. La consapevolezza del proprio torto da parte dell’attore interviene nel corso della causa. Ricorda il Collegio come una situazione soggettiva scevra da ogni ansia derivante dall’incertezza dell’esito della lite può essere originaria o sopravvenuta, a seconda che la consapevolezza del proprio torto da parte dell’attore preesista alla causa ovvero intervenga nel corso di questa, per effetto di circostanze nuove che rendano manifesto il futuro esito negativo del giudizio. In questa seconda ipotesi, pur non configurandosi un’ipotesi di lite propriamente temeraria, per l’iniziale buona fede della parte attrice, la reazione ansiogena su cui si fonda il diritto ad un equo indennizzo ai sensi della legge c.d. Pinto è da escludersi a decorrere dal momento in cui la parte stessa acquisisce tale consapevolezza, facendo venir meno da allora in poi il diritto all’indennizzo per la successiva irragionevole durata della causa . Infatti, di recente la Corte di Cassazione ha affermato che non può reputarsi ab origine pretestuoso il ricorso introduttivo di un giudizio amministrativo, che solo a far data da un certo momento, per effetto di una sopravvenuta pronuncia della Corte Costituzionale, abbia perso ogni possibilità di successo, con la correlata cessazione del patema d’animo derivante da situazione di incertezza per l’esito della causa . Tuttavia, l’effetto della novità giurisprudenziale è tale da far cessare l’ansia da incertezza. Correttamente, dunque, nel caso in esame la Corte territoriale ha osservato che, a seguito della sentenza n. 243/93 della Corte Costituzionale, della l. n. 87/94 e delle tante sentenze del CdS intervenute tra il 2002 e il 2004, la domanda proposta dagli odierni ricorrenti al TAR del Lazio nell’aprile del 2002, diretta all’accertamento del diritto all’inclusione nella base di calcolo dell’indennità di buonuscita di una quota pari al 60% dell’indennità integrativa speciale, era palesemente infondata . Con la conseguenza che quantomeno dalla fine del 2004 non potessero i ricorrenti subire alcun patema d’animo per il procrastinarsi della decisione del loro ricorso . Responsabilità aggravata. Per quanto riguarda, poi, la censura riguardante la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., è ritenuta dal Collegio fondata perché l’avvenuta riunione dei vari ricorsi, proposti singolarmente, ha sterilizzato ogni possibile effetto negativo derivante dalla proposizione separata di cause soggettivamente cumulabili per connessione oggettiva, ed anche perché tale opzione è ascrivibile al difensore piuttosto che alle parti patrocinate. La S.C., respinge tutti i motivi di ricorso, accoglie, l’ultimo motivo di ricorso trattavo, di cassa il decreto impugnato e, decidendo la causa nel merito, esclude la condanna dei ricorrenti per responsabilità aggravata. Compensa le spese del grado di merito e del giudizio di Cassazione.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, sentenza 26 novembre 2014 – 11 marzo 2015, n. 4890 Presidente Petitti – Relatore Manna In fatto Con separati ricorsi, di poi riuniti, depositati a partire dal 9.10.2010, D.P.E. e numerosi altri, tutti ex dipendenti della Polizia di Stato o appartenenti a corpi militari, adivano la Corte d'appello di Perugia per ottenere la condanna del Ministero dell'Economia e delle Finanze al pagamento di un equo indennizzo, ai sensi dell’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, in relazione all'art. 6, paragrafo 1 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo CEDU , del 4.11.1950, ratificata con legge n. 848/55, per l'eccessiva durata di un processo amministrativo da loro instaurato innanzi al T.A.R. del Lazio nell'aprile del 2002, definito con sentenza di rigetto del 23.12.2009. Tale sentenza aveva ritenuto palesemente infondata la domanda proposta, avente ad oggetto la pretesa dei ricorrenti diretta ad ottenere che nel computo della base di calcolo dell'indennità di fine servizio fosse computata una quota pari al 60% dell'indennità integrativa speciale, richiamando un indirizzo consolidatosi nella giurisprudenza amministrativa negli anni successivi alla proposizione del ricorso. Resisteva il Ministero. Con decreto del 10.5.2013 la Corte d'appello adita rigettava i ricorsi e regolava le spese in base alla soccombenza, condannando i ricorrenti al pagamento dell'ulteriore somma di Euro 5.000,00 ex art. 96, comma 3 c.p.c Riteneva la Corte territoriale che, come si ricavava dalla motivazione della sentenza emessa dal T.A.R. Lazio, la fondatezza della domanda azionata nel giudizio presupposto se poteva essere opinabile all'epoca della sua proposizione, certamente era da escludere allorché, già verso la fine del 2004, dopo la sentenza n. 243/93 della Corte costituzionale e l'emanazione della legge n. 87/94, si era consolidato l'orientamento negativo espresso dal Consiglio di Stato. Ciò induceva a ritenere che quanto meno da tale momento, e quindi ben prima che la durata del processo amministrativo superasse il termine di durata ragionevole, i ricorrenti d'altronde organizzati tra loro non potevano aver subito alcun patema d'animo per il procrastinarsi della decisione. Rilevava, ancora, che il ricorso proposto da G.A. era inammissibile perché proposto oltre il termine semestrale di decadenza, e che D.P.E. e R. e Ru.Ni. , coeredi di Ru.Gi. , deceduto nel mese di OMISSIS , a distanza di quattro mesi dalla proposizione del ricorso al T.A.R., non risultavano essersi costituiti in quel processo. Analogamente, quanto a F.R. ed Gi.An. , Ca. e Gi. , eredi di G.R. , deceduto a due anni e nove mesi dall'inizio del processo amministrativo. Pertanto, nulla avrebbe potuto competere loro a titolo di equo indennizzo, considerato che il decesso dei rispettivi danti causa si era verificato prima che il giudizio presupposto oltrepassasse la soglia di durata ragionevole. Quanto alla condanna per responsabilità aggravata, la Corte perugina osservava che tutti i predetti eredi avevano proposto ricorsi separati, ciascuno senza menzionare l'esistenza dei coeredi, col rischio concreto che potesse essere riconosciuto a ciascuno l'intera spettanza del de cuius . Inoltre, la proposizione di separati ricorsi a mezzo del medesimo difensore dei soggetti che avevano partecipato al medesimo giudizio presupposto in posizione analoga, costituiva abuso dello strumento processuale, apparendo diretto soltanto a moltiplicare le spese processuali, con l'ulteriore danno per la controparte di dover apprestare difese multiple. La cassazione di tale decreto è chiesta dai ricorrenti meglio specificati in epigrafe, sulla base di tre mezzi d'annullamento. Resiste con controricorso il Ministero dell'Economia e delle Finanze. Motivi della decisione 1. - Il primo mezzo denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 6 CEDU e 2 legge n. 89/01. Il decreto impugnato, si sostiene, contrasta con la costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, secondo cui la configurabilità del danno per la durata irragionevole di un processo non può essere esclusa sulla base dell'esito sfavorevole per la parte istante, salvo l'ipotesi di lite temeraria. Pertanto, la mera consapevolezza della scarsa probabilità di successo dell'iniziativa giudiziaria è irrilevante al fine di escludere il diritto alla percezione di un equo indennizzo, potendo semmai rilevare ai fini della quantificazione di esso. 1.1. - Il motivo è infondato. Sebbene sia consolidato il principio secondo cui il diritto all'equa riparazione di cui all'art. 2 della legge n. 89 del 2001 compete a tutte le parti del processo, indipendentemente dall'esito del giudizio presupposto, deve tuttavia osservarsi che il patema da ritardo nella definizione del processo è da escludersi allorché la parte rimasta soccombente, consapevole dell'inconsistenza delle proprie istanze, abbia proposto una lite temeraria, difettando in questi casi la stessa condizione soggettiva di incertezza e, dunque, elidendosi il presupposto dello stato di disagio e sofferenza cfr. Cass. nn. 10500/11,25595/08 e 17650/02 . Una situazione soggettiva scevra da ogni ansia derivante dall'incertezza dell'esito della lite può essere originaria o sopravvenuta, secondo che la consapevolezza del proprio torto da parte dell'attore preesista alla causa ovvero intervenga nel corso di questa, per effetto di circostanze nuove che rendano manifesto il futuro esito negativo del giudizio. In quest'ultimo caso, pur non potendosi configurare una fattispecie di lite propriamente temeraria, per l'iniziale buona fede della parte attrice, la reazione ansiogena su cui si fonda il diritto all'equa riparazione ai sensi della legge c.d. Pinto è da escludersi a decorrere dal momento in cui la parte stessa acquisisce tale consapevolezza, facendo venir meno da allora in poi il diritto all'indennizzo per la successiva irragionevole durata della causa. È stato di recente osservato da questa Corte, infatti, che non può reputarsi ab origine pretestuoso il ricorso introduttivo di un giudizio amministrativo, che solo a far data da un certo momento, per effetto di una sopravvenuta pronuncia della Corte costituzionale, abbia perso ogni possibilità di successo, con la correlata cessazione del patema d'animo derivante dalla situazione d'incertezza per l'esito della causa cfr. Cass. n. 18654/14, non massimata . 1.1.1. - È quanto nel caso in esame ha verificato la Corte territoriale, la quale ha osservato che a seguito della sentenza n. 243/93 della Corte costituzionale, della legge n. 87/94 e delle tante sentenze del Consiglio di Stato intervenute tra il 2002 e il 2004, la domanda proposta dagli odierni ricorrenti innanzi al T.A.R. Lazio nell'aprile del 2002, diretta all'accertamento del diritto all'inclusione nella base di calcolo dell'indennità di buonuscita di una quota pari al 60% dell'indennità integrativa speciale, era palesemente infondata. Con la conseguenza che quantomeno dalla fine dell'anno 2004 - quindi ben prima che il tempo processuale divenisse irragionevole - non potessero i ricorrenti . subire alcun patema d'animo per il procrastinarsi della decisione del loro ricorso . 2. - Il secondo motivo espone la violazione degli arti 2 e 4 della legge n. 89/01. Il ricorso di G.A. è stato proposto il 15.11.2011, mentre la sentenza del T.A.R. Lazio è stata depositata il 14.10.2010. Ne deriva che il ricorso è tempestivo, in quanto da tale ultima data a quella di produzione del ricorso ex lege Pinto è decorso un termine inferiore ad un anno e quarantacinque recte , quarantasei giorni, cui per di più va aggiunto il termine semestrale di proposizione del ricorso per equa riparazione, di cui all'art. 4 di detta legge. 2.1. - Il motivo è irrilevante, poiché non intacca l'esito reiettivo del ricorso innanzi alla Corte di merito, il quale a sua volta resiste alla censura veicolata col primo mezzo. 3. - Col terzo motivo è dedotta la violazione degli artt. 6 CEDU, 2 legge n. 89/01 e 96 c.p.c Si sostiene, quanto alla posizione di D.P.E. e Ru.Ro. e Ni. e di F.R. ed Gi.An. , Ca. e Gi. . che ciascun erede può agire a vantaggio della cosa comune rectius , a tutela del credito ereditario comune , e che ad ogni modo nei rispettivi fascicoli di parte erano allegate le dichiarazioni sostitutive di notorietà da cui si ricavavano l'esistenza e i nominativi degli altri eredi. Infine, parte ricorrente contesta l'abuso del processo ritenuto dalla Corte distrettuale. La proposizione dei ricorsi ex lege Pinto in forma singolare e non collettiva, come invece nel giudizio presupposto, rispondeva a logiche organizzative del tutto diverse e alla tempistica necessaria per coordinare gli adempimenti relativi alla predisposizione del mandato alla lite e l'invio della documentazione necessaria per presentare i ricorsi. 3.1. - Il motivo, che si articola in due censure, è inammissibile quanto alla prima e fondato quanto alla seconda. 31.1. - Inammissibile, quanto alla posizione degli eredi anzi detti, vuoi perché la condanna alle spese è sostenuta anche dalla soccombenza, a sua volta in sé non aggredita dal motivo d'impugnazione, vuoi perché il punto non è che detti eredi non potessero agire singolarmente o che non fosse verificabile l'esistenza di altri eredi, ma che il fatto di aver taciuto dell'esistenza di un ricorso proposto da questi ultimi avrebbe potuto comportare, in caso di mancata riunione del procedimento, una moltiplicazione dell'indennizzo iure hereditario . 3.1.2. - La censura riguardante la condanna ex art. 96, comma 3 c.p.c., è, invece, fondata, vuoi perché l'avvenuta riunione dei vari ricorsi ha sterilizzato ogni possibile effetto negativo derivante dalla proposizione separata di cause soggettivamente cumulabili per connessione oggettiva vuoi perché tale opzione è ascrivibile al difensore che può risentirne sotto il profilo della liquidazione del compenso cfr. Cass. n. 10634/10 piuttosto che alle parti patrocinate. 4. - L'accoglimento di quest'ultimo motivo impone la cassazione del decreto impugnato e la conseguente decisione della causa nel merito, ai sensi dell'art. 384, secondo comma c.p.c., non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, nel senso che va esclusa la condanna degli odierni ricorrenti per responsabilità aggravata. 5. - L'esistenza di indirizzi giurisprudenziali apparentemente non collimanti tra loro quello sul diritto all'equa riparazione indipendentemente dall'esito del processo, e quello sull'inesistenza del diritto stesso per mancanza sopravvenuta di ogni patema d'animo , costituisce eccezionale ragione per compensare le spese del grado di merito e del presente giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 92, secondo comma c.p.c. nel testo applicabile ratione temporis . P.Q.M. La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, respinti gli altri, cassa il decreto impugnato e decidendo nel merito esclude la condanna dei ricorrenti per responsabilità aggravata compensa per intero le spese del grado di merito e del presente giudizio di cassazione.