Rilascio dell’immobile per estinzione di usufrutto: necessaria la “probatio diabolica” del diritto di proprietà

L’istanza di rilascio del bene proposta dal proprietario, finalizzata a conseguirne la piena disponibilità dopo la cessazione del diritto dell’usufruttuario, deve essere qualificata come azione di rivendica e non come mera azione personale di restituzione.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella pronuncia n. 27158 del 22 dicembre 2014. Il caso. Il giudizio trae origine dalla domanda formulata da un uomo al fine di ottenere la restituzione di due immobili acquistati per usucapione dall’attore e consegnati con scrittura privata ad una donna in qualità di usufruttuaria per testamento dell’originario proprietario. A seguito del decesso della donna, il marito di quest’ultima non aveva provveduto al rilascio dei predetti immobili, sicché il medesimo veniva citato in giudizio. Nel contestare la domanda, il convenuto evidenziava che l’originario proprietario, col citato testamento, aveva trasferito la nuda proprietà degli immobili ad un erigendo istituto di beneficienza e che, quindi, nulla poteva reclamare l’attore. Quest’ultimo, ottenuto un rigetto sia in primo che in secondo grado, decide di rivolgersi alla Corte di Cassazione. Azione di restituzione e azione di rivendica. In primo luogo, il ricorrente lamenta una errata qualificazione, da parte dei Giudici di merito, dell’azione posta in essere. Invero, nella prospettazione dell’attore, l’azione andava configurata come obbligo di restituzione e riconsegna scaturente al termine dell’usufrutto del bene consegnato alla usufruttuaria, con conseguente alleggerimento dell’onere probatorio. Di contro, la stessa era stata qualificata dai Giudici di merito come azione di rivendicazione. La differenza tra le due azioni non è di poco conto dal momento che la prima presuppone unicamente che l’attore abbia un diritto alla restituzione nascente da un rapporto contrattuale e non impone al medesimo attore di dare la prova del diritto di proprietà, essendo sufficiente quella del rapporto obbligatorio da cui deriva l’obbligo di restituzione l’azione di rivendicazione, invece, ha lo scopo di far restituire al proprietario il bene che gli è stato sottratto, previa dimostrazione del suo titolo di proprietà. Natura reale dell’azione di rilascio dell’immobile. Ebbene, nel rigettare il motivo di censura, la Suprema Corte osserva che il diritto al rilascio del bene dopo la cessazione del diritto dell’usufruttuario trova il suo fondamento nel diritto del proprietario e solo di questi a conseguirne la piena disponibilità dopo il consolidamento della nuda proprietà. Si tratta, quindi, di un’azione di natura indubbiamente reale. In altre parole, l’istanza di rilascio del bene detenuto senza titolo dal coniuge della usufruttuaria deceduta deve essere qualificata come azione di rivendica e non come mera azione personale di restituzione. Ciò stante, la Corte di merito ha correttamente affermato che il presupposto dell’azione esperita era l’occupazione e non la restituzione di beni derivante da un mero obbligo personale di riconsegna. A tale rilievo, la Suprema Corte aggiunge che lo stesso titolo dedotto, ossia l’acquisto della proprietà dei beni per intervenuta usucapione al cospetto dell’allegato trasferimento della proprietà degli stessi beni ad un istituto di beneficienza, legittimava un’azione di rivendica e non di mera restituzione. Nessuna mutatio libelli. Ciò posto, gli Ermellini aggiungono che la Corte territoriale, nel procedere alla corretta qualificazione della domanda, non è incorsa in una mutatio libelli . Ed invero, alla stregua dei principi affermati nella decisione delle SS.UU. della Suprema Corte sent. n. 7305/2014 , la trasformazione in reale di una domanda proposta e mantenuta ferma dall’attore come domanda personale per la restituzione del bene in precedenza volontariamente trasmesso non comporta una mutatio o emendatio libelli .

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 15 ottobre – 22 dicembre 2014, n. 27158 Presidente Oddo – Relatore Oricchio Considerato in fatto Con atto di citazione notificato il 25 febbraio 2000 D.G.A. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Trapani - Sezione Distaccata di Alcamo F.G. al fine di sentirlo condannare alla restituzione per intero dell'immobile ubicato in omissis , nonché, per la quota pari alla metà indivisa, dell'immobile sito alla via omissis , con condanna alla corresponsione dei frutti dei medesimi beni dal 7 febbraio 1999, oltre interessi e rivalutazione. Tutto ciò chiedeva l'attore in quanto i detti beni, da lui acquistati per usucapione, erano stati -con scrittura privata del 24 dicembre 1981- consegnati a D.B.A. , usufruttuaria per testamento del 15 luglio 1953 dell'originario proprietario, ma non gli erano stati di poi rilasciati dal convenuto, coniuge della Di Bartolo all'atto del decesso di quest'ultima. Costituitosi in giudizio il F. contestava l'avversa domanda, di cui chiedeva il rigetto, deducendo - in particolare - che col citato testamento era stata trasferita la nuda proprietà ad un erigendo istituto di beneficenza e che, quindi, nulla poteva reclamare il D.G.A. . Con sentenza in data 26 aprile 2003, l'adito Tribunale rigettava la domanda dell'attore, che veniva condannato al pagamento delle spese. Avverso la decisione del Tribunale di prima istanza interponeva appello il D.G.A. , chiedendo la riforma dell'impugnata sentenza. Resisteva al proposto gravame il F. . Con sentenza n. 1149/2008 l'adita Corte di Appello di Palermo confermava l'impugnata sentenza e condannava l'appellante al pagamento delle spese del giudizio. Per la cassazione dell'anzidetta decisione della Corte distrettuale ricorre il D.G. con atto fondato su quattro ordini di motivi. Resiste con controricorso F.G. . Ritenuto in diritto 1.- Con il primo motivo del ricorso si censura il vizio di violazione dell'art. 112 c.p.c. e 2967 c.c. - erronea interpretazione e qualificazione della domanda omessa considerazione e/o erronea valutazione di emergenze processuali rilevanti ai fini del decidere carenza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all'art. 360, 1 co., n. 3 e n. 5 c.p.c. . Viene sottoposto al vaglio di questa Corte quesito di diritto ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c Col motivo in esame, contrassegnato dal carattere plurimo delle censure mosse, parte ricorrente lamenta - in sostanza - che l'impugnata sentenza abbia qualificato come rivendicazione l'azione proposta per la restituzione dei beni di cui in narrativa, a suo tempo consegnati all'alla usufruttuaria, poi deceduta, e detenuti senza titolo dal di lei coniuge dopo il decesso della moglie. Parte ricorrente, insomma, paventa una errata qualificazione dell'azione posta in essere, che - nella sua prospettazione - andava configurata come obbligo di restituzione e riconsegna scaturente al termine dell'usufrutto del bene consegnato alla usufruttuaria con la citata scrittura privata del 1981. La doglianza di cui al motivo in esame è destituita di fondamento. Invero il diritto al rilascio del bene dopo la cessazione del diritto del'usufruttuario trova il suo fondamento nel diritto del proprietario e solo di questi a conseguirne la piena disponibilità dopo il consolidamento della nuda proprietà. Ricorre, insomma, in ipotesi una fattispecie di indubbia realità dell'azione proposta. In altre parole ancora l'istanza di rilascio del bene detenuto senza titolo dal coniuge della usufruttuaria deceduta deve essere qualificata, anche alla stregua dell'insegnamento delle SS.UU. di questa Corte v. Sent. 28 marzo 2014, n. 7305 , come azione di revindica e non come mera azione personale di restituzione. Pertanto bene ha fatto la Corte territoriale a definire, con la decisione gravata, ad affermare che il presupposto dell'azione esperita era l'occupazione e non la restituzione di beni derivante da un mero obbligo personale di riconsegna. Peraltro lo stesso titolo dedotto acquisto della proprietà dei beni per intervenuta usucapione al cospetto dell'allegato trasferimento della proprietà degli stessi beni ad un istituto di beneficenza legittimava una azione di revindica e non di mera restituzione. Né, sotto altro profilo, la Corte territoriale, nel procedere alla detta esatta qualificazione della domanda è incorsa in una mutatio libelli. Tanto proprio alla stregua dei principi affermati nella citata decisione delle SS.UU., in base ai quali la trasformazione i reale di una domanda proposta e mantenuta ferma dall'attore come domanda personale per la restituzione del bene in precedenza volontariamente trasmesso non comporta una mutatio o emendatio libelli . Del tutto generici e mancanti della chiara ed univoca indicazione del fatto in ordine al quale sarebbe carente la motivazione e, quindi, del necessario momento di sintesi è il motivo nella parte in cui adduce il vizio di cui all'art. 360, co. I, n. 5. Il motivo va, quindi, rigettato. 2.- Con il secondo motivo del ricorso si deduce il vizio di violazione dell'art. 112 c.p.c. omessa decisione su domanda costituente motivo d'appello risarcimento danni omessa considerazione e/o erronea valutazione di emergenze processuali rilevanti ai fini del decidere carenza di motivazione in relazione all'art. 360, 1 co., n. 3 e n. 5 . Viene formulato quesito di diritto ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. tendente - in sintesi - a far affermare se, in presenza di specifico motivo di impugnazione con il quale si lamenta il mancato accoglimento della domanda di risarcimento del danno, il giudice dell'appello è tenuto a decidere e motivare sul motivo e sulla richiesta . Il motivo lamenta, sostanzialmente, una omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno. Deve osservarsi decisivamente, al riguardo, che la sentenza impugnata non si è pronunciata su tale istanza risarcitoria essendo la stessa assorbita dal rigetto della domanda. Veniva, quindi, a mancare del tutto il presupposto stesso di una pronuncia sul danno eventualmente conseguente, a maggior ragione perché secondo la soluzione della sentenza la questione era assorbita. Giustamente l'impugnata sentenza non si è, quindi, pronunciata in proposito, e – conseguentemente – il motivo in esame è perciò inammissibile. 3.- Con il terzo motivo parte ricorrente lamenta la violazione dell'art. 100 e 112. Omessa e/o carente motivazione in ordine al terzo motivo d'appello carenza di interesse del F. omessa considerazione e/o erronea valutazione di emergenze processuali rilevanti ai fini del decidere in relazione all'art. 360, 1 co., n. 3 e n. 5 . Viene formulato, in relazione all'esposto motivo apposito quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c Il motivo è infondato. L'accertata carenza di legittimazione dell'attore ad agire per il rilascio del bene assorbiva l'esame della questione relativa al difetto di un interesse a resistere del F. , del quale il ricorrente aveva domandato la condanna alla restituzione del bene. Il motivo in esame deve, pertanto, essere rigettato. 4.- Con il quarto motivo del ricorso si prospetta il vizio di violazione e omessa applicazione della disposizione di cui agli artt. 112, 91 e 92 c.p.c., carenza di motivazione sul punto in relazione agli all'art. 360, 1 co., n. 3 e 5 c.p.c. . Viene proposto, al riguardo, il seguente testuale quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c. il Giudice dell'impugnazione, rigettato l'appello, disponendo la condanna dell'appellante alle spese di lite, è tenuto a dare adeguata motivazione in ordine alle ragioni e ai principi in base ai quali è adottata la decisione di condanna ed in particolare che non ricorrono motivi per procedere alla compensazione in tutto o in parte delle stesse . Il motivo è del tutto pretestuoso e generico in ordine alla prospettata questione del carico delle spese seguente, secondo il noto principio, la soccombenza. In presenza della applicazione di tale principio non è ipotizzabile né un vizio di violazione di legge, né un difetto di motivazione per la mancata compensazione delle spese. Il motivo va, quindi, rigettato. 5.- Alla stregua di quanto innanzi esposto ed affermato il ricorso deve essere rigettato. 6.- Le spese seguono la soccombenza e, per l'effetto, si determinano così come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del giudizio, determinate in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.