Vietato aprire un secondo ingresso sul pianerottolo se limita il pozzo di luce

L'apertura di un secondo ingresso, che prevede l'utilizzazione esclusiva di una parte del cavedio, costituisce uso illecito della cosa comune e può essere vietata dall'assemblea.

L'apertura di un secondo ingresso sul pianerottolo, da parte del proprietario di un appartamento, trova il limite del pregiudizio all'utilizzo della comune da parte di tutti gli altri condomini. È il principio ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 15968 del 20 luglio. Il caso. La proprietaria di un appartamento impugnava la delibera assembleare con la quale il Condominio le aveva negato l'autorizzazione ad aprire un secondo ingresso, sul pianerottolo, col quale intendeva servire un secondo alloggio, ottenuto dalla divisione della sua unità immobiliare in due distinte porzioni. Il Tribunale confermava la delibera, rigettando l'impugnazione, e uguale sorte trovava l'appello proposto dalla condomina, che si rivolgeva, infine, in cassazione. Libertà di iniziativa privata da una parte A sostegno della propria tesi e della legittimità del suo intento di aprire un secondo ingresso, la ricorrente propone una serie di motivi che però, secondo la Corte, non investono la principale ed assorbente ratio decidendi che i giudici di merito hanno posto a fondamento della sentenza impugnata. è stato, infatti, rilevato, che per realizzare il secondo ingresso per il suo appartamento, la condomina sarebbe stato necessario eliminare, su quel piano, la cavità interna che attraversa tutto l'edificio il cavedio . Questa, infatti, sarebbe rimasta incorporata, seppur in parte, nella proprietà esclusiva della ricorrente. limite dell'uso illecito della cosa comune dall'altra. Il cavedio viene considerato cosa comune e ha lo scopo fondamentale di fornire di aria e luce i locali secondari interni pur sopravvivendo un'eventuale possibilità di utilizzare la porzione residua del cavedio, questo sarebbe stato in parte inglobato nella proprietà esclusiva di un singolo condomino e ciò, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, costituisce un uso illecito della cosa comune. Pertanto, il ricorso viene rigettato.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 4 maggio - 20 luglio 2011, n. 15968 Presidente Schettino - Relatore Bucciante Svolgimento del processo Con sentenza del 10 ottobre 2003 il Tribunale di Milano respinse l'impugnazione proposta da L C. - proprietaria di un appartamento al quinto piano dell'edificio sito in via omissis in quella città - avverso la deliberazione dell'assemblea condominiale, con cui le era stata negata l'autorizzazione ad aprire sul pianerottolo un altro ingresso, a servizio di un secondo alloggio che intendeva ricavare dividendo in due distinte porzioni la sua unità immobiliare. Adita dalla soccombente, la Corte d'appello di Milano, con sentenza del 22 gennaio 2005 ha rigettato il gravame. L.C. ha proposto ricorso per cassazione, in base a quattro motivi, poi illustrati anche con memoria. Il condominio dell'edificio sito in via omissis si è costituito con controricorso per iniziativa dell'amministratore, poi ratificata dall'assemblea. Motivi della decisione Con i primi tre motivi di ricorso L C. lamenta, rispettivamente, che la Corte d'appello - ha basato la propria decisione su documenti prodotti tardivamente dall'altra parte soltanto in secondo grado, relativi a un fatto sopravvenuto alla sentenza del Tribunale, consistente nell'inserimento, ad opera dell'amministratore del condominio, di una superflua tubatura nel cavedio che l'appellante intendeva utilizzare ha riconosciuto l'erroneità del giudizio formulato dal primo giudice circa l'asserita compromissione dell'estetica, che sarebbe derivata dall'esecuzione dell'opera progettata da C.L., ma ha ugualmente confermato la pronuncia di rigetto della domanda - ha ingiustificatamente ritenuto che la cavità in questione potesse essere adibita, anche soltanto in via potenziale, a un qualche uso comune. Le tre censure possono essere prese in esame congiuntamente, poiché per una stessa ragione vanno disattese non investono la principale ed assorbente ratio decidendi addotta a sostegno della sentenza impugnata, nella quale si è osservato che per realizzare l'ingresso al nuovo alloggio, che L C. intendeva ricavare dalla divisione del suo appartamento, sarebbe stato necessario eliminare in corrispondenza di quel piano la cavità attraversante verticalmente tutto l'edificio, la quale sarebbe rimasta incorporata per la corrispondente sezione nella esclusiva disponibilità della C. . Indipendentemente, quindi, dall'eventuale possibilità di utilizzazione della porzione residua del cavedio, questo sarebbe stato in parte inglobato nella proprietà esclusiva di C.L Nel che è comunque ravvisabile, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte in materia v. Cass. 28 aprile 2004 n. 8119, 9 marzo 2006 n. 5085, 24 ottobre 2006 n. 22835, 2 marzo 2010 n. 4965 , un uso illecito della cosa comune. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente lamenta che la Corte d'appello ha ingiustificatamente respinto le sue doglianze relative alla mancata compensazione e alla quantificazione in misura eccessiva delle spese del giudizio di primo grado. Neppure questa censura può essere accolta. La decisione della Corte d'appello, di mantenere ferma, in applicazione del principio della soccombenza, la condanna di L C. alle spese del precedente grado di giudizio, è frutto di una scelta eminentemente discrezionale, che non può formare oggetto di sindacato da parte di questa Corte. Relativamente poi alla liquidazione, va rilevato che la ricorrente stessa riconosce di non aver precisato in appello - né del resto lo ha fatto in sede di legittimità - specifiche violazioni della tariffa professionale in cui il Tribunale fosse eventualmente incorso, sicché correttamente il suo gravame sul punto è stato respinto. Il ricorso viene pertanto rigettato, con conseguente condanna della ricorrente a rimborsare al resistente le spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in 200,00 Euro, oltre a 1.500,00 Euro per onorari, con gli accessori di legge. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente a rimborsare al resistente le spese del giudizio di cassazione, liquidate in 200,00 Euro, oltre a 1.500,00 Euro per onorari.