Le malattie trasmissibili a carattere epidemico hanno sempre guidato l’evoluzione della Società e del Diritto, al fine di proteggere la salute pubblica.
Tra XVI e XVII secolo, la Francia aveva adottato misure ad hoc allo scopo di controllare la penetrazione della peste sul proprio territorio. Al fine di garantire comunque la circolazione delle mercanzie e delle persone, le autorità portuali di un tempo rilasciavano delle “patenti sanitarie marittime”, caratterizzate da tre livelli d’importanza e di gravità, proporzionali al grado di presenza della malattia nel Paese da dove una nave proveniva. Con un’attitudine simile, e col prolungarsi dell’attuale pandemia da SARS-CoV2, i Governi cercano una via d’uscita che permetta di controllare l’epidemia e, nel contempo, di salvaguardare l’economia. “Passaporti” in grado garantire la libera circolazione o, come nel caso delle “patenti sanitarie marittime” di qualche secolo fa, di ridurre se possibile le misure restrittive, trovano quindi il loro primum movens nel bisogno di rilancio di un’economia insabbiata. Le basi giuridiche sulle quali l’UE fonda la gestione della questione sanitaria sono ben note, ricordando che un vero Diritto europeo della salute è di costruzione recente e in continuo divenire. Il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea TFUE, ex articolo 4 annovera, tra le competenze concorrenti dell’Unione, i «problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica». Il TFUE autorizza l’Unione a prendere le misure necessarie a completare le azioni degli Stati Membri ex. articolo 168-1 . Tuttavia, «l'azione dell'Unione rispetta le responsabilità degli Stati membri per la definizione della loro politica sanitaria e per l'organizzazione e la fornitura di servizi sanitari e di assistenza medica» ex. articolo 168-7 . Parlare di “passaporto vaccinale” in un periodo così caotico e incerto, con un microorganismo proteiforme e dall’aggressività variabile, rischia di esporre a diverse critiche. È forse per questo motivo che il 17 marzo scorso, la presidente della Commissione Europea, all’occasione della presentazione della bozza del documento, ha tenuto a sottolineare come la definizione di “passaporto vaccinale” sia poco corretta, preferendo un più semanticamente accettabile “digital green certificate”. Va sottolineato come il futuro certificato sarà costituito da tre certificati distinti, a seconda del caso certificato vaccinale, test PCR o test rapido-antigenico negativo, certificato medico comprovante la guarigione dalla malattia da più di 180 giorni. Alcune fonti aggiungono una sierologia anticorpale positiva. Tra i Paesi interessati, il documento includerebbe anche Islanda, Lichtenstein, Norvegia e Svizzera. Per non discriminare Stati che vaccinano con prodotti non ancora riconosciuti dall’EMA, come l’Ungheria, che ha usato lo Sputnik V russo, il certificato non dovrebbe imporre solo i vaccini approvati dall’autorità europea. Molti sono i dubbi legati all’aspetto scientifico della questione, come i dati limitati riguardanti una reale protezione conferita da un determinato vaccino, l’assenza di un vaccino pediatrico, il numero importante di falsi negativi riscontrati durante l’utilizzo di alcuni test rapidi, per citare alcuni esempi. Non va neppure dimenticato l’aspetto giuridico, in quanto un tale documento esporrebbe l’Unione ad azioni legali volte a contestarne la fondatezza, alla luce dei Trattati e di altri testi vincolanti, dove la libera circolazione delle persone, il diritto uguale per tutti alle cure mediche ma anche la base volontaria di una questa vaccinazione sarebbero solo alcuni argomenti per intentare azioni giudiziarie presso le Corti competenti. Una soluzione, non certo semplice, ma forse più scevra di rischi di contestazione legati al contesto attuale, potrebbe essere il riconsiderare, aumentandole, le competenze dell’Unione in ambito sanitario. Va da sé che un simile approccio darebbe adito a confronti e a diatribe sul piano politico, in quanto significherebbe diminuire, benché non sminuire, i poteri propri degli Stati Membri in tale ambito.