L’esame di abilitazione alla povertà

La lotta alla povertà e all’esclusione sociale è uno degli obiettivi specifici dell’Unione Europea nell’ambito della sua politica sociale. L’avvocatura italiana, per cause interne ed esterne come ho già scritto, è aumentata di numero con progressione geometrica ma con altrettanta geometria si è impoverita e ha perduto la sua funzione di guida nella società.

È circostanza nota che ben 140 mila avvocati su 250 mila hanno fatto richiesta del bonus da € 600,00 elargito dallo Stato nella pandemia. Eppure non si spiega all’esercito dei 26.000 candidati al prossimo esame di avvocato che, superandolo, avranno solo il lasciapassare alla povertà che lo Stato da anni non contrasta, ma anzi facilita, usando la professione forense come un ammortizzatore sociale, senza rendersi conto dei numeri, del rapporto con la popolazione, degli squilibri fra nord e sud, sia in termini numerici che reddituali, dello squilibrio di genere in termini di reddittività. Le istituzioni forensi si occupano solo di come fare l’esame di Stato ma non dei problemi, macroeconomici, sottostanti. E’ evidente che avranno un futuro solo i figli di avvocati affermati con clientela consolidata e pochi altri fortunati perché da tempo l’ascensore sociale si è fermato. E’ di questi giorni la notizia che “solo il 12% dei figli si laurea se i genitori sono poco istruiti”. Il Presidente del COA di Milano aveva proposto come unica possibile alternativa alle prove scritte dell’esame di abilitazione forense – chiaramente impraticabili in tempo di pandemia – di modificare per quest’anno la formula prevedendo soltanto un’orale “rafforzato”. È notizia di queste ore che l’orale rafforzato diventerà realtà perché la Ministra Cartabia pensa ad un decreto legge per modificare le regole. Tutto bene ma il problema sostanziale è altro se non vogliamo dare il passaporto per la povertà. Sarebbe quindi l’occasione giusta per affrontare, e provare a risolvere, due problemi che sono la numerosità, assolutamente insostenibile, dell’avvocatura italiana e il calo dei redditi. I giovani candidati hanno certamente diritto di accedere alla professione forense ma la professione non deve essere un ammortizzatore sociale, come è diventata ora, ma una professione che dia risposte, immediate e certe, ai cittadini. Non basta quindi modificare le regole di accesso alla professione in tempo di pandemia ma proprio in tempo di pandemia, attraverso le risorse del Recovery Plan, riorganizzare la professione forense cercando di ridarle la dignità perduta, sia in termini numerici, deontologici ed economici.