Avvocato a bocca asciutta se non dimostra l’effettivo svolgimento dell’incarico

In caso di azione giudiziale per il pagamento del compenso professionale spettante all’avvocato per l’attività giudiziale e stragiudiziale prestata, il legale deve offrire la duplice prova del conferimento dell’incarico e dell’effettivo svolgimento dell’attività per la quale egli pretende di essere pagato.

Così la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 1421/21 depositata il 22 gennaio. Un avvocato chiedeva dinanzi al Tribunale la condanna dei convenuti al pagamento di oltre 19mila euro a titolo di corrispettivo per prestazioni professionali giudiziali e stragiudiziali prestate a loro favore. La domanda veniva rigettata ma la decisione veniva parzialmente ribaltata in appello con la condanna degli appellati al pagamento della somma di circa 2mila euro. La pronuncia è stata impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione. Secondo il ricorrente, il giudice di merito avrebbe erroneamente applicato l’art. 7 d.m. n. 392/1990 escludendo il suo diritto al compenso per l’ intero giudizio di merito . Posto che i clienti avevano conferito mandato congiunto a due avvocati, la somma liquidata a favore del ricorrente si limitava al compenso per la sola predisposizione del ricorso introduttivo. La censura risulta infondata avendo la pronuncia impugnata ha correttamente motivato la decisione in relazione alla mancata dimostrazione dello svolgimento dell’attività per cui richiedeva il pagamento, ad eccezione della predisposizione del ricorso introduttivo. Il ricorrente sostiene inoltre che in presenza di un mandato conferito ad un difensore, si possa configurare una presunzione di riferibilità dell’intera attività difensiva espletata, ma precisa la Corte, non v’è traccia di simile presunzione nell’ordinamento essendo invece sempre onerato il professionista in presenza di contestazione della parte assistita di offrire la duplice prova del conferimento dell’incarico e dell’effettivo svolgimento dell’attività per la quale egli pretende di essere pagato . L’avvocato ha inoltre censurato la sentenza della Corte territoriale per l’omessa liquidazione delle spese forfettarie sulla somma riconosciuta a titolo di compensi ai sensi dell’art. 2 d.m. n. 55/2014. La censura risulta però inammissibile. Richiamando il testo normativo, la Corte conferma l’interpretazione giurisprudenziale secondo cui la norma ha inteso individuare un criterio determinativo - del massimo aumento applicabile, ovvero dell’importo normale delle spese forfetarie da riconoscere all’avvocato - che, non necessitando di specifica motivazione, sia prestabilito ed automaticamente applicabile. Nel caso di specie risultano quindi dovute al ricorrente le spese forfetarie, nella misura del 15 % prevista come di regola dal d.m. n. 55/2014, anche a prescindere dalla specifica indicazione, tanto della loro debenza, che della loro percentuale, nel provvedimento impugnato. Risulta infine fondata la censura relativa alle spese del doppio grado di giudizio, poste per i tre quarti a carico del ricorrente in virtù della soccombenza reciproca delle parti. Secondo la Cassazione il fatto che il ricorrente si sia visto riconoscere, all’esito del doppio grado di giudizio, una somma pari a circa un nono di quella invocata ab origine , giustifica la compensazione delle spese, ma non l’accollo della parte preponderante di esse a carico della parte comunque risultata vittoriosa . Per questo motivo, decidendo la controversia nel merito, la Corte accoglie solo il terzo motivo del ricorso con compensazione integrale delle spese del doppio grado del giudizio di merito.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 20 novembre 2020 – 22 gennaio 2021, n. 1421 Presidente Lombardo – Relatore Oliva Fatti di causa Con atto di citazione notificato il 23.2.2005 S.R. evocava in giudizio innanzi il Tribunale di Bologna F.S. , M.G. e G.L. , per sentirli condannare al pagamento della somma di Euro 19.209,92 a titolo di corrispettivo per le prestazioni professionali, giudiziali e stragiudiziali, prestate dall’attore in favore dei convenuti. Si costituivano questi ultimi resistendo alla domanda ed invocando la condanna dell’attore ex art. 96 c.p.comma Con sentenza del 12.9.2011 il Tribunale di Bologna rigettava la domanda, condannando l’attore alle spese del grado. Interponeva appello il S. e si costituivano in seconde cure gli appellati, resistendo al gravame e spiegando appello incidentale relativamente alla domanda di condanna del S. per lite temeraria. Con la sentenza impugnata, n. 2312 del 2018, la Corte di Appello di Bologna accoglieva parzialmente l’impugnazione, condannando gli appellati al pagamento della somma di Euro 2.726,89 oltre accessori, rigettando l’appello incidentale e ponendo i tre quarti delle spese processuali del doppio grado a carico del S. , compensando il restante quarto. Propone ricorso per la cassazione di tale decisione S.R. affidandosi a tre motivi. Resistono con separati controricorsi G.L. , da un lato, e F.S. e M.G. , dall’altro lato. Il ricorrente ed i controricorrenti F. e M. hanno depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale. La controricorrente G. ha depositato memoria fuori termine. Ragioni della decisione Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.M. n. 392 del 1990, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso il diritto dell’avv. S. al compenso per l’intero giudizio svoltosi dinanzi il T.A.R. dell’Emilia Romagna, conclusosi con pronuncia di cessazione della materia del contendere in data 4.8.2003. Ad avviso del ricorrente, poiché i controricorrenti avevano conferito mandato congiunto a rappresentarli e difenderli in quel giudizio sia all’avv. S. che all’avv. Albini, entrambi avevano maturato il diritto al compenso per l’intero giudizio. La Corte di Appello avrebbe pertanto errato nel limitare il riconoscimento del detto diritto alla sola predisposizione del ricorso introduttivo, escludendolo per le rimanenti fasi del giudizio. La censura è infondata. La Corte di Appello ha infatti ritenuto che il ricorrente non avesse fornito alcuna prova di aver svolto l’attività professionale della quale ha chiesto il pagamento, ad eccezione della predisposizione del ricorso introduttivo del giudizio amministrativo, che risulta invece sottoscritto anche dall’appellante e per la quale, correttamente, lamenta il mancato pagamento. Infatti, tutti gli atti del giudizio amministrativo successivi alla predisposizione del ricorso docomma 9 e 11 fascomma 1 grado appellante , risultano sottoscritti dal solo avv. Albini, il solo patrocinatore presente alla camera di consiglio del 16.1.1996, al termine della quale il Tar Emilia ha accolto l’istanza di sospensione dell’efficacia della concessione impugnata. E, del resto, risulta altresì provato che il giudizio amministrativo si è svolto temporalmente nel periodo successivo alla separazione professionale dell’avv. S. dal collega Albini, con il quale condivideva lo studio, mentre la difesa in giudizio degli appellati è stata sempre svolta unicamente dall’avv. Albini, sino al termine del giudizio. Prova di ciò si rinviene dall’esame del fax inviato dall’appellante al collega Albini in data 11/11/2003, nel quale l’avv. S. , del tutto all’oscuro dell’esito del giudizio amministrativo che, evidentemente, non seguiva da tempo, si duole con il collega dell’omessa comunicazione dell’esito della vertenza, lamentando altresì l’incongruità ed eccessività del compenso richiesto dall’avv. Albini cfr. pag. 8 della sentenza . L’articolata motivazione evidenzia che la Corte felsinea ha tenuto conto degli elementi di prova acquisiti agli atti del giudizio di merito ed ha ritenuto, all’esito di apprezzamento di fatto non utilmente censurabile in questa sede, che il S. non avesse fornito idonea prova di aver effettivamente svolto la prestazione professionale relativa alla difesa degli odierni controricorrenti nell’intero giudizio svoltosi innanzi il T.A.R. per l’Emilia Romagna. La stessa Corte territoriale ha, per altro verso, ritenuto invece provata la partecipazione del S. alla redazione del ricorso introduttivo, da lui sottoscritto, ed ha quindi correttamente limitato il diritto al compenso alla sola fase processuale corrispondente. Il ricorrente ritiene che, in presenza di un mandato defensionale conferito ad un difensore, si possa configurare una presunzione di riferibilità a quel professionista dell’intera attività difensiva espletata nel giudizio al quale quel mandato si riferisce. Tuttavia non v’è traccia di simile presunzione nell’ordinamento, essendo invece sempre onerato il professionista, in presenza di contestazione della parte assistita, di offrire la duplice prova del conferimento dell’incarico e dell’effettivo svolgimento dell’attività per la quale egli pretende di essere pagato cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2701 del 12/02/2004, Rv. 570067 . In difetto di tale prova, la richiesta dell’avvocato è legittimamente esclusa, pur in presenza di un mandato difensivo riferito ad un determinato giudizio, perché il professionista matura il diritto al compenso non già in astratto, ma con riferimento all’opera da egli effettivamente svolta in esecuzione del mandato ricevuto dal cliente cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 360 del 06/02/1958, Rv. 880647 Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5415 del 05/03/2009, Rv. 607235 e, da ultimo, Cass. Sez. 6 2, Ordinanza n. 29822 del 18/11/2019, Rv. 656248 01, secondo la quale Nel caso in cui più avvocati siano incaricati della difesa in un procedimento civile, ciascuno di essi ha diritto all’onorario nei confronti del cliente solo in base all’opera effettivamente prestata, in virtù del principio di cui alla L. n. 794 del 1942, art. 6 . Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014, art. 2, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente omesso di liquidare le spese forfetarie sulla somma riconosciuta a titolo di compensi. La censura è inammissibile per carenza di interesse concreto del ricorrente. La norma invocata dal S. prevede testualmente che Oltre al compenso e al rimborso delle spese documentate in relazione alle singole prestazioni, all’avvocato è dovuta in ogni caso ed anche in caso di determinazione contrattuale una somma per rimborso spese forfettarie di regola nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, fermo restando quanto previsto dai successivi artt. 5, 11 e 27 in materia di rimborso spese per trasferta . Il rimborso delle spese forfetarie, quindi, costituisce una voce accessoria che va necessariamente riconosciuta, al pari del rimborso dell’imposta sul valore aggiunto e della quota di contribuzione previdenziale che per legge è a carico del cliente del professionista. Questa Corte ha affermato, nella vigenza del D.M. n. 140 del 2012, il principio dell’automatica debenza del rimborso forfetario, anche in assenza di specifica istanza del difensore, trattandosi di componente delle spese giudiziali determinata in misura fissa dalla norma Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13693 del 30/05/2018, Rv. 648785 . Con successiva pronuncia, questa Corte ha precisato, nella vigenza del D.M. n. 55 del 2014, che in difetto di specificazione della debenza, o anche solo della percentuale, delle spese forfetarie, queste debbano ritenersi riconosciute nella misura del quindici per cento del compenso totale, quale massimo di regola spettante, potendo tale misura essere soltanto motivatamente diminuita dal giudice Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 9385 del 04/04/2019, Rv. 653487-02 . All’espressione di regola questa Corte ha attribuito un duplice significato da un lato, confermativo del potere-dovere del giudice di determinare le spese processuali, all’interno degli ordinari limiti minimo e massimo di aumento o diminuzione previsti dal D.M. n. 55 del 2014, art. 4, facendo riferimento ai parametri generali indicati in apertura della disposizione dall’altro lato, precettivo dell’obbligo di specifica motivazione, nel solo caso in cui il giudice ritenga di superare i predetti limiti ordinari di aumento e diminuzione Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 17667 del 05/07/2018, non massimata . Il quadro normativo non è mutato a seguito dell’entrata in vigore del D.M. n. 37 del 1998, che ha modificato il D.M. n. 55 del 2014 introducendo l’inderogabilità delle riduzioni massime, ma non anche degli aumenti massimi, che continuano ad essere previsti come applicabili di regola . Da quanto precede discende che va confermata l’interpretazione dell’espressione in esame già resa da questa Corte e va dunque ritenuto che con le parole di regola la norma abbia inteso individuare un criterio determinativo del massimo aumento applicabile, ovvero dell’importo normale delle spese forfetarie da riconoscere all’avvocato che, non necessitando di specifica motivazione, sia prestabilito ed automaticamente applicabile. Da ciò deriva la conferma, anche con riferimento al quadro normativo successivo all’entrata in vigore del D.M. n. 37 del 2018, del principio affermato da questa Corte con il precedente del 2009 in precedenza richiamato Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 9385 del 04/04/2019, Rv. 653487-02 . Nel caso di specie, quindi, sono dovute all’avv. S. le spese forfetarie, nella misura del 1 5 % prevista come di regola dal D.M. n. 55 del 2014, anche a prescindere dalla specifica indicazione, tanto della loro debenza, che della loro percentuale, nel provvedimento impugnato. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente posto a suo carico i tre quarti delle spese del doppio grado di giudizio, compensando il restante quarto, nonostante l’esito complessivo della lite fosse stato almeno in parte favorevole al S. . La censura è fondata. All’esito del doppio grado di merito, infatti, è stato riconosciuto il diritto del professionista di percepire un compenso, sia pure inferiore rispetto alla richiesta formulata nell’atto introduttivo del primo grado. La Corte felsinea ha regolato le spese tenendo conto della parziale soccombenza degli appellati accertata al termine del presente giudizio , senza quindi considerare -come avrebbe dovuto fare il complessivo esito del giudizio di merito. L’accollo alla parte risultata parzialmente vittoriosa della percentuale dei tre quarti delle spese del doppio grado collide con il principio generale della soccombenza affermato dall’art. 91 c.p.c., comma 1, e non trova giustificazione nè nella specifica previsione della seconda parte dell’art. 91, comma 1 che ammette la condanna della parte che abbia senza giustificato motivo rifiutato la proposta conciliativa al pagamento delle spese maturate dopo la formulazione della proposta non accolta nè con le disposizioni del successivo art. 92 c.p.c., che al comma 1 prevede la possibilità di escludere le spese eccessive o superflue ovvero di condannare una delle parti, anche a prescindere dalla soccombenza, al pagamento delle spese che essa abbia causato all’altra parte per trasgressione al dovere generale di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c., e al comma 2 ammette la compensazione delle spese nelle ipotesi di reciproca soccombenza o di mutamento della giurisprudenza sulle questioni dirimenti che costituiscano l’oggetto della controversia. La circostanza che il S. si sia visto riconoscere, all’esito del doppio grado di giudizio, una somma pari a circa un nono di quella invocata ab origine, giustifica la compensazione delle spese, ma non l’accollo della parte preponderante di esse a carico della parte comunque risultata vittoriosa. In definitiva, va respinto il primo motivo di ricorso, va dichiarato inammissibile il secondo e va accolto il terzo. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ai sensi di quanto previsto dall’art. 384 c.p.c., comma 2, con compensazione integrale delle spese del doppio grado del giudizio di merito, in ragione del fatto che la domanda originariamente proposta dal S. è stata accolta solo in minima parte. Le spese del presente giudizio di legittimità, invece, vanno compensate tra le parti in ragione della parziale soccombenza del ricorrente, visto il rigetto del primo motivo di doglianza. P.Q.M. la Corte rigetta il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il secondo ed accoglie il terzo motivo. Cassa la decisione impugnata in relazione alla censura accolta e, decidendo la causa nel merito ai sensi di quanto previsto dall’art. 384 c.p.c., comma 2, compensa per intero tra le parti le spese del doppio grado del giudizio di merito. Compensa altresì le spese del presente giudizio di legittimità.