La sostenibilità del sistema previdenziale forense e la crisi COVID

La chiusura di molte attività economiche e l’aumento della disoccupazione, che avrà il suo culmine quando finirà il blocco dei licenziamenti, stanno causando una contrazione della contribuzione incassata da Cassa Forense, ma anche scoperture contributive importanti in capo agli iscritti.

Il mainstream della classe dirigente assicura sulla stabilità economica finanziaria di lungo periodo, affidata non tanto all’aumento della contribuzione quanto ad un maggior rendimento del patrimonio di garanzia accumulato. I numeri, esaminati con mente fredda e senza pregiudizi, portano a conclusioni esattamente contrarie. Il Direttore Generale di Cassa Forense ha pubblicamente affermato che nel 2050 il rapporto iscritti attivi/pensionati sarà di 1 1 e già questo indice, per chi sa di previdenza, è allarmante. Il rapporto tra pensionati e lavoratori è fondamentale per la sostenibilità del sistema pensionistico. Come abbiamo spiegato in passato, infatti, in Italia vige un sistema “a ripartizione”, per cui sono i lavoratori attualmente in attività a pagare le pensioni che vengono oggi erogate non è che il pensionato incassi quanto lui stesso ha versato nel corso della propria vita, come se avesse un conto personale e separato presso Cassa Forense. Esporre il patrimonio accumulato ad alto rischio per sperare di portare a casa un rendimento maggiore contrasta sia con la diligenza del buon padre di famiglia previdenziale sia con la natura della provvista così impiegata che è, e resta, di natura previdenziale e in quanto tale diretta a garantire, al verificarsi dei requisiti di legge, l’erogazione della pensione. La classe dirigente di Cassa Forense confida, a mio giudizio a torto, nell’efficienza dei mercati finanziari. Proprio in questi ultimi anni, i mercati finanziari sono stati dominati da un alto grado di incertezza e di volatilità. Siamo di fronte ad un moral hazard che con la provvista previdenziale non si può correre. Il COVID non è la causa di questa situazione ma l’ha sicuramente accelerata. Riprova ne sia che proprio in questa tornata di tempo lo Stato, con risorse proprie, è dovuto intervenire per garantire a tutti i professionisti, e quindi anche agli avvocati, un minimum di sostegno economico pur se agli Enti di previdenza, per legge, non sono consentiti finanziamenti diretti o indiretti da parte dello Stato. Il discorso sarebbe più semplice se le Casse di previdenza, e quindi anche Cassa Forense, disponessero di un patrimonio di garanzia in grado di coprire almeno l’80% delle promesse pensionistiche. Ma la realtà è completamente diversa perché, per quanto riguarda Cassa Forense, il funding ratio, e cioè il rapporto tra la patrimonializzazione e il debito previdenziale latente, si aggira intorno al 30%. La cd. privatizzazione, realizzata dallo Stato nel 1993/1994, in realtà si è dimostrata un grosso favore per lo Stato stesso che ha scaricato sugli ignari professionisti il debito latente sin lì maturato con l’unico vantaggio di un’autonomia contabile che in realtà è assoggettata a numerosi controlli proprio perché le Casse di previdenza, pur rientrando nello schema privatistico della fondazione o associazione, vengono annoverate tra le Pubbliche Amministrazioni con tutto ciò che ne consegue. Al momento della privatizzazione Cassa Forense era una Cassa giovane con pochi pensionati ma nel proseguo del tempo gli iscritti, pur se aumentati in progressione geometrica, si sono impoveriti e i pensionati sono aumentati con regole troppo generose rispetto al montante contributivo versato. Ora la classe dirigente di Cassa Forense sta pensando, perché di bozze non ne ho viste, a una riforma in grado di riequilibrare il sistema. Il legislatore previdenziale ha due leve a sua disposizione - aumentare la contribuzione, cosa che oggi mi pare francamente impossibile - o diminuire le pensioni da erogare con ciò però creando un vulnus generazionale. Forse è giunto il tempo, dopo 30 anni circa di autonomia, di pensare ad un rientro nell’INPS con la garanzia finale dello Stato, alla quale oggi si è rinunciato. Tornano alla mente le parole del matematico Bruno de Finetti 1956 , secondo il quale nei sistemi pensionistici si affrontano problemi di ordine sociale ed economico, prima ancora che problemi attuariali. Si tratta di aspetti che i modelli economici eterodossi aiutano a spiegare meglio di quelli mainstream, perché riescono ad evidenziare con più accuratezza le interrelazioni tra variabili reali e finanziarie, a mostrare gli effetti della distribuzione del reddito sia sul sistema previdenziale che sul sistema economico nel suo complesso e a svelare i rischi della diffusione di fondi pensione privati nei paesi finanziariamente più fragili Pensioni e teoria economica liberare il dibattito dai pregiudizi di Angelantonio Viscione, 23.12.2020 .