Abuso del diritto e professionisti: nessuno è esente da sanzione quando viene violato il principio di correttezza

Le domande giudiziali aventi ad oggetto frazioni di un unico credito sono da dichiararsi improcedibili in quanto contrarie ai principi di buona fede, di correttezza e di giusto processo.

Così la Corte di Cassazione, II sez. civ., con la sentenza n. 15498/19, depositata il 7 giugno. La vicenda. La Corte d’Appello competente respingeva il gravame proposto da un legale avverso la sentenza di primo grado, la quale aveva revocato il decreto ingiuntivo ottenuto dall'avvocato stesso nei confronti di due consorti, propri clienti, per il pagamento della somma di oltre € 20.000,00, a titolo di compenso per l'attività professionale svolta dal professionista in un procedimento di denuncia di nuova opera nonché nel successivo giudizio di merito dinanzi al tribunale competente. Orbene, nella propria pronuncia, premesso in fatto che 1 per la medesima attività professionale il legale opposto aveva ottenuto nel 2008, sulla base di un parere di congruità del competente Consiglio dell’Ordine, un decreto ingiuntivo confermato in sede di opposizione con sentenza passata in giudicato 2 nelle more di detto giudizio l'avvocato, sulla base di un istanza di revisione del primo parere, aveva poi ottenuto un secondo decreto ingiuntivo per un importo a titolo di differenza 3 successivamente ed ancora una volta sulla base di una nuova richiesta di revisione del parere al Consiglio dell’Ordine, lo stesso avvocato aveva ottenuto un terzo e nuovo decreto ingiuntivo in specie, quello oggetto del giudizio di opposizione di cui si discute per un ulteriore importo di oltre € 20.000,00, la Corte d’Appello affermava in adesione alla decisione del giudice di primo grado che l'intervenuto frazionamento delle pretese creditorie da parte del professionista che aveva chiesto per lo stesso titolo e per la medesima prestazione ben tre decreti ingiuntivi non appariva giustificato, atteso che questi prima di agire in via monitoria aveva l'onere di sottoporre una nota specifica al Consiglio dell’Ordine e, se non soddisfatto, di chiederne semplicemente la revisione. La Corte d’Appello continuava a precisare che tale condotta, contraria alle regole di correttezza e buona fede nonché al principio del giusto processo, configurava un abuso, con l'effetto che la sua domanda monitoria doveva considerarsi improcedibile. L'avvocato ricorreva alla Suprema Corte per la cassazione di questa decisione sulla base di diversi motivi illustrati da memoria, tra cui risultano particolarmente interessanti i seguenti la nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione, per violazione di legge in ordine alla asserita improcedibilità dell'azione e per violazione del principio di giudicato ex art. 2909 c.c., censurando la sentenza impugnata per aver omesso l'esposizione del processo e dei fatti rilevanti ai fini della decisione nonché delle stesse ragioni per le quali aveva rigettato il gravame dichiarando improcedibile la domanda avanzata in via monitoria dall'odierno ricorrente mediante semplice richiamo alla decisione di primo grado-, senza considerare che gli opponenti non avevano sollevato alcuna eccezione al riguardo e che le cause di improcedibilità della domanda devono essere espressamente indicate dalla legge. Senza considerare -aggiungeva il ricorrente che la opposta aveva fatto espressa riserva, fin dal giudizio di opposizione al primo decreto ingiuntivo, di ottenere il residuo del credito dovuto e che il creditore, in ogni caso, è libero di agire nel modo che ritenga più opportuno per tutelare i propri interessi, senza che le proprie scelte possano costituire abuso degli strumenti processuali. Il ricorso è infondato. la Suprema Corte ritiene infondati tali motivi atteso che dalla lettura della sentenza emerge chiaramente che la Corte territoriale ha ritenuto che l'azione proposta dall’appellante fosse improcedibile ravvisando nel fatto che ella, in relazione ad un unico credito nascente dalla medesima prestazione professionale, avesse richiesto ed ottenuto contro le stesse parti ben tre decreti ingiuntivi, chiedendo nuovamente, di volta in volta, un importo superiore, ed integrando tale condotta effettivamente un abuso del processo. Ma gli Ermellini precisano anche di più, soprattutto laddove rappresentano che la Corte d’Appello non solo è chiara nell'affermare il principio di diritto secondo cui l’abuso da parte del creditore del frazionamento del credito costituisce una condotta illecita ma, altresì, nel rappresentare che tale condotta non poteva ritenersi nella specie giustificata dalle successive revisioni richieste dal legale ricorrente al Consiglio dell’Ordine dopo il primo parere, atteso che proprio al fine di evitare l’abuso è onere del professionista sottoporre una nota specifica al Consiglio dell’Ordine e, ove non soddisfatto, di chiederne la revisione, prima di agire nei confronti del proprio cliente. Pertanto, secondo la Suprema Corte la sentenza impugnata appare motivata e del tutto intellegibile nel suo percorso motivazionale, anche con riguardo all'esposizione dei fatti rilevanti ai fini della decisione che va apprezzata non solo nel suo aspetto formale ma sotto il profilo del suo collegamento logico e funzionale con le ragioni della sentenza. Inoltre, con riferimento agli altri motivi di censura la Suprema Corte si limita a dichiararli generici, non decisivi ed inidonei ad intaccare le ragioni della decisione, le quali appaiono conformi, quanto al principio di diritto applicato, all'orientamento del giudice di legittimità ribadito anche di recente secondo cui non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali oppure scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto dell'obbligazione operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione è evidentemente aggravativa della posizione del debitore, anche sotto il profilo delle spese di lite. Perciò, tale condotta id est , la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria si pone in contrasto sia col principio di correttezza e buona fede, che impongono alle parti di improntare ad esse il rapporto non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale. Con la conseguenza che le domande giudiziali aventi ad oggetto una frazione di un unico credito sono da dichiararsi sempre improcedibili. Secondo la Suprema Corte, poi, merita precisare che il detto orientamento non può dirsi affatto ridimensionato dal successivo arresto delle Sezioni Unite nel 2017, là dove si precisa che le diverse domande di pagamento del credito nascente dall'unico rapporto obbligatorio possono essere formulati in autonomi giudizi se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata, trattandosi di una premessa implicita nei limiti definitori del concetto di abuso, e che comunque parte attrice non ha dedotto quale sarebbe l'interesse meritevole di tutela per il quale ha adottato le sue plurime iniziative giudiziarie nei confronti dei propri clienti. Con riferimento ad altro motivo di censura in modo specifico a quello relativo alla contestazione del fatto che la Corte di appello, nell'adottare la decisione impugnata, non abbia preso in considerazione anche il comportamento degli opponenti che, pur consapevoli del loro debito verso il professionista, si erano sempre rifiutati di adempiere viene sostenuto che le richieste di revisione del primo parere del Consiglio dell’Ordine erano giustificate da errori ed omissioni ed erano finalizzate a dare chiarezza alla richiesta economica del professionista, a garanzia non solo dello stesso avvocato ma anche dei propri clienti. Tuttavia, anche tale motivo risulta infondato per la Suprema Corte atteso che la improcedibilità della domanda del creditore il quale -abusando del proprio diritto, abbia dato vita a più iniziative giudiziarie nei confronti del debitore, chiedendo senza ragione pagamenti parziali quando avrebbe potuto chiedere l'intero ammontare costituisce conseguenza di una valutazione autonoma dalla condotta del creditore, attenendo alla attività diretta soddisfazione del suo diritto, su cui non incide ne può incidere la situazione di inadempienza del debitore. Per tutti questi, ed altri, motivi la Suprema Corte rigetta il ricorso dell'avvocato condannando lo stesso al pagamento delle spese di giudizio.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 12 marzo – 7 giugno 2019, n. 15498 Presidente San Giorgio – Relatore Bertuzzi Fatti di causa e ragioni della decisione Con sentenza n. 3881 del 31. 10. 2014 la Corte di appello di Milano respinse il gravame proposto da C.T. avverso la sentenza del Tribunale di Monza n. 2489 del 2011 che aveva revocato il decreto ingiuntivo dalla stessa ottenuto nei confronti dei consorti R. per il pagamento della somma di Euro 21.932,00 a titolo di compenso per l’attività professionale di avvocato da lei prestata in un procedimento di denunzia di nuova opera e nel successivo giudizio di merito dinanzi al Tribunale di Bari. Premesso che per la medesima attività professionale l’opposta aveva ottenuto nel 2008, sulla base di un parere di congruità del competente Consiglio dell’Ordine, un decreto ingiuntivo per l’importo di Euro 14413,91 confermato in sede di opposizione con sentenza passata in giudicato, che nelle more di tale giudizio l’avv. C. , sulla base di un’istanza di revisione del primo parere, aveva poi ottenuto altro decreto ingiuntivo per l’importo, a titolo di differenza, di Euro 4.293,75 e che ancora successivamente, sulla base di una nuova richiesta di revisione del parere al Consiglio dell’ordine, aveva ottenuto un nuovo decreto ingiuntivo, oggetto del presente giudizio di opposizione, per l’ulteriore importo di Euro 21.932,00, la Corte affermò, in adesione alla decisione del giudice di primo grado, che l’intervenuto frazionamento delle pretese creditorie da parte del professionista, che aveva richiesto per lo stesso titolo e la medesima prestazione ben tre decreti ingiuntivi, non appariva giustificato, atteso che questi, prima di agire in via monitoria aveva l’onere di sottoporre una nota specifica al Consiglio dell’Ordine e, se non soddisfatto, di chiederne previamente la revisione, che tale condotta era contraria alle regole di correttezza e di buona fede ed al principio del giusto processo, configurando un abuso, con l’effetto che la sua domanda monitoria doveva considerarsi improcedibile. Per la cassazione di questa decisione, notificata il 12.12.2014, ricorre C.T. , sulla base di cinque motivi, illustrati da memoria. Resistono con controricorso R.M. , R.A. , R.C. , R.V.A. , R.R. , R.G. e R.L. . La causa è stata avviata in decisione in adunanza camerale non partecipata. La ricorrente deposita memoria. In data 13.2.2019 la Procura Generale, in persona del sostituto Alberto Celeste, ha fatto pervenire le sue conclusioni scritte, con cui ha chiesto il rigetto del ricorso. Il primo motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione e violazione di legge in ordine all’asserita improcedibilità dell’azione e violazione del principio di giudicato di cui all’art. 2909 c.c., censurando la sentenza impugnata per avere omesso l’esposizione del processo e dei fatti rilevanti ai fini della decisione e delle stesse ragioni per le quali ha rigettato il gravame, dichiarando improcedibile la domanda avanzata in via monitoria dall’odierno ricorrente mediante semplice richiamo alla decisione di primo grado, senza considerare che gli opponenti non avevano sollevato alcuna eccezione al riguardo, che le cause di improcedibilità della domanda debbono essere espressamente indicate dalla legge, che l’opposta aveva fin dal giudizio di opposizione al primo decreto ingiuntivo fatto espressa riserva di ottenere il residuo del credito dovuto e che il creditore è libero di agire nel modo che ritenga più opportuno per tutelare i propri interessi senza che le sue scelte possano costituire abuso degli strumenti processuali. Il motivo è infondato. La censura che denunzia l’omessa esposizione da parte della sentenza impugnata dei fatti rilevanti ai fini della decisione ed omessa motivazione è infondata, atteso che dalla lettura della sentenza emerge chiaramente che la Corte territoriale ha ritenuto che l’azione proposta dall’appellante fosse improcedibile ravvisando nel fatto che ella, in relazione ad un unico credito nascente dalla medesima prestazione professionale, avesse richiesto ed ottenuto contro le stesse parti ben tre decreti ingiuntivi, richiedendo di volta in volta un importo superiore, integrasse un abuso del processo, richiamando a sostegno della conclusione accolta l’orientamento della giurisprudenza di legittimità di cui all’arresto delle Sezioni unite n. 23726 del 2007 e le sentenze n. 24539 del 2009, n. 26961 del 2009, n. 8576 del 2013. La Corte di appello è invero chiara non solo nell’affermare il principio che l’abuso da parte del creditore del frazionamento del credito costituisce una condotta illecita, ma altresì nel rappresentare che tale condotta non poteva ritenersi nella specie giustificata dalle successive revisioni richieste dal ricorrente al Consiglio dell’Ordine dopo il primo parere, atteso che proprio al fine di evitare l’abuso era onere del professionista sottoporre una nota specifica a Consiglio dell’Ordine e, se non sodisfatto, di chiederne la revisione prima di agire nei confronti del proprio cliente. La sentenza impugnata appare pertanto motivata e del tutto intellegibile nel suo percorso motivazionale, anche con riguardo all’esposizione dei fatti rilevanti ai fini della decisione, che va apprezzata non già nel suo aspetto formale ma sotto il profilo del suo collegamento logico e funzionale con le ragioni della sentenza. Gli altri motivi di censura risultano invece generici, non decisivi ed inidonei ad intaccare le ragioni della decisione, che appaiono conformi, quanto al principio di diritto applicato, all’orientamento di questa Corte, ribadito anche di recente, secondo cui non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, anche sotto il profilo delle spese si lite, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale, con la conseguenza che le domande giudiziali aventi ad oggetto una frazione di un unico credito sono da dichiararsi improcedibili Cass. n. 19898 del 2018 Cass. S.U. n. 23726 del 2007 . Merita poi precisare, in risposta agli argomenti difensivi sviluppati dal ricorrente nella memoria difensiva, che tale orientamento non può dirsi affatto ridimensionato dal successivo arresto n. 4090 del 2017 delle Sezioni unite di questa Corte, laddove si precisa che le diverse domande di pagamento del credito nascente dall’unico rapporto obbligatorio possono essere formulate in autonomi giudizi se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata, trattandosi di una premessa implicita nei limiti definitori del concetto di abuso, e che comunque parte attrice non ha dedotto quale sarebbe l’interesse meritevole di tutela per il quale ha adottato le sue plurime iniziative giudiziarie nei confronti dei propri clienti. Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione dell’art. 1175 c.c., lamentando che la Corte di appello abbia ravvisato nella condotta del ricorrente un intenzionale frazionamento del credito e quindi un abuso del diritto di azione in giudizio, senza considerare che il credito non poteva ritenersi ab origine unitario in quanto, pur traendo titolo da un unico rapporto obbligatorio, esso era stato determinato nel suo preciso ammontare solo per effetto dei successivi pareri del Consiglio dell’ordine in sede di revisione della prima richiesta. Il mezzo è palesemente infondato ed anche inammissibile in quanto non attacca, con specifiche censure, l’affermazione della sentenza, pienamente condivisibile sotto il profilo dell’applicazione delle regole della correttezza e buona fede nel rapporto obbligatorio, che la parte creditrice aveva l’onere, prima di azionare il proprio credito in via monitoria, di sottoporre una nota specifica a Consiglio dell’Ordine e, se non soddisfatto, di chiederne la revisione. Il terzo motivo, intitolato Principio di buona fede e correttezza ed assenza di abuso del processo da parte del creditore - Violazione di legge attesa la bilateralità e reciprocità del principio di correttezza e buona fede nello svolgimento di un rapporto obbligatorio , si duole che la Corte di appello, nell’adottare la decisione impugnata, non abbia preso in considerazione anche il comportamento degli opponenti, che pur consapevoli del loro debito verso il professionista, si erano sempre rifiutati di adempierlo. Si sostiene inoltre che le richieste di revisione del primo parere del Consiglio dell’Ordine erano giustificate da errori ed omissioni ed erano finalizzate a dare chiarezza all’ammontare della pretesa del professionista, a garanzia non solo dello stesso ma anche dei suoi clienti. Il motivo è infondato atteso che l’improcedibilità della domanda del creditore che, abusando del proprio diritto, abbia adottato più iniziative giudiziarie nei confronti del debitore, chiedendo senza ragione pagamenti parziali quando avrebbe potuto chiedere l’intero ammontare, costituisce conseguenza di una valutazione autonoma della condotta del creditore, attenendo all’attività diretta alla soddisfazione del suo diritto, su cui non incide nè può incidere la situazione di inadempienza del debitore. Il quarto motivo denunzia omessa pronuncia e/o omesso esame di un fatto decisivo del giudizio, violazione dell’art. 112 c.p.c censurando la sentenza impugnata per non avere esaminato i due successivi pareri emessi in sede di revisione dal Consiglio dell’Ordine e quindi trascurato di valutare il credito del professionista nel suo preciso ammontare, quale risultante dalla documentazione attestante l’attività di patrocinio da lui prestata in favore degli opponenti. Il mezzo è inammissibile in quanto investe un tema che risulta necessariamente assorbito dalle ragioni della decisione impugnata, che ha dichiarato in limine improcedibile la pretesa della parte azionata dalla parte tramite il decreto ingiuntivo opposto in forza della rilevata illegittimità della stessa in quanto concretante un abuso contrario alle regole della correttezza e buona fede e del principio del giusto processo. Il quinto motivo di ricorso, che denunzia violazione di legge in ordine alla condanna alle spese, si dichiara assorbito, non prospettando al riguardo nessuna censura ma limitandosi a chiedere che la cassazione della sentenza si estenda anche alla regolamentazione delle spese dei giudizi di merito. Il ricorso va pertanto respinto. Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. Si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 3.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%. Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.