Divisione ereditaria: il valore della causa è quello della quota in contestazione

Ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato, il valore delle causa di divisione non è quello della massa attiva ex art. 12, ult. comma, c.p.c

Ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato, il valore delle causa di divisione non è quello della massa attiva ex art. 12, ult. comma, c.p.c., ma quello della quota in contestazione, poiché l’art. 6, comma 1, d.m. n. 127/2004, pur rinviando in generale al codice di procedura civile per la determinazione del valore della causa ai fini della liquidazione degli onorari a carico del soccombente, deroga a tale rinvio in materia di giudizi divisori, in relazione ai quali stabilisce, con statuizione avente valore di principio ed applicabile anche agli onorari dovuti dal cliente, che in tali giudizi il valore va determinato in relazione al valore della quota o dei supplementi di quota in contestazione . Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella pronuncia n. 1202 del 22 gennaio 2016. Il caso. Il giudizio nasce dall’opposizione al decreto ingiuntivo emesso in favore di un avvocato per l’attività professionale svolta in relazione al deposito di istanze di divisione di beni indivisi e trattazione in sede giudiziale, oltre ad attività condotta in via stragiudiziale per liberare dei beni pignorati. Respinta in primo grado, l’opposizione veniva accolta al termine del successivo giudizio d’appello instaurato dagli eredi del cliente, cui conseguiva la riduzione dell’importo del compenso dovuto al professionista. Quest’ultimo si rivolge, quindi, alla Corte di Cassazione. I riferimenti normativi. In primo luogo, il ricorrente censura la pronuncia per aver applicato il comma 1 dell’art. 6, d.m. n. 127/2004, che disciplina la liquidazione degli onorari a carico del soccombente, anziché il comma 2 della medesima norma, che invece si riferisce alla liquidazione a carico del cliente e che non prevede affatto che nei giudizi di divisione si debba avere riguardo alla quota in contestazione. Al riguardo, la Suprema Corte osserva innanzitutto che anche per la liquidazione degli onorari a carico del cliente vale la regola di cui all’art. 6, comma 1, del decreto citato, secondo cui la determinazione del valore della causa va rapportata ai criteri stabiliti dal codice di procedura civile. Del resto, in tal caso, deve farsi riferimento altresì alla statuizione del comma 2, a norma del quale può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamente diverso , nonché a quella del comma 4, a norma del quale per la determinazione del valore effettivo della controversia, deve aversi riguardo al valore dei diversi interessi perseguiti dalle parti . All’uopo rileva altresì il disposto dell’art. 15, ult. comma, c.p.c., secondo cui per le cause relative a beni immobili, ove non risultino i valori catastali, la causa va ritenuta di valore indeterminato solo ove il valore non emerga dagli atti, nonché dell’art. 10 c.p.c., per il quale il valore della causa va determinato in base alla domanda, ma qualora il convenuto abbia proposto una domanda riconvenzionale, occorre fare riferimento a quest’ultima se di valore superiore, senza procedere al cumulo con le altre domande né di queste fra loro. Il valore della causa va determinato in relazione alla quota in contestazione. Ebbene, i riferimenti normativi richiamati inducono la Suprema Corte a respingere il motivo di censura e in particolare l’opinione del ricorrente secondo cui, nel caso di specie, il valore della causa andava determinato in relazione all’intero asse ereditario. Invero, già in altre occasioni cfr. di recente Cass., n. 6765/2012 , i Giudici di legittimità hanno avuto modo di chiarire che, nei giudizi divisori, il valore della causa va determinato in relazione al valore della quota in contestazione, così come previsto dall’art. 6, comma 1, d.m. n. 127/2004. Tale disposizione, sebbene si riferisca espressamente agli onorari dovuti dal soccombente, si applica anche agli onorari dovuti dal cliente in quanto espressione di un principio generale. Si tratta di un’interpretazione aderente alla lettera e alla ratio della norma, posto che l’opposta interpretazione sostenuta dal difensore ricorrente viene a disancorare il valore della causa da quella dell’interesse in concreto perseguito dalla parte. Il compenso per le attività stragiudiziali. Sotto altro profilo, il ricorrente censura la pronuncia per aver omesso di computare il compenso per l’attività stragiudiziale oltre che per aver trascurato, ai fini della liquidazione, la straordinaria importanza dell’affare. Per quanto riguarda la prima critica, gli Ermellini condividono la decisione della Corte territoriale di escludere una valutazione autonoma dell’attività stragiudiziale dal momento che la stessa, finalizzata a transigere la lite, era sorta dopo l’insorgenza delle controversie giudiziali e dunque nell’ambito delle stesse. Hanno poi aggiunto che, essendo la definizione stragiudiziale un normale esito di una controversia, devono considerarsi prestazioni giudiziali non solo quelle preordinate ad atti processuali, ma anche quelle che si svolgono fuori dal processo, purché dipendenti dal mandato ricevuto per la difesa in giudizio, e quindi ad esso complementari perché comunque volte alla sua definizione, quali appunto le prestazioni tese alla soluzione transattiva che avrebbero posto fine all’intera controversia. La sentenza impugnata ha quindi correttamente concluso che il compenso determinato per la fase giudiziale doveva ritenersi comprensivo anche dell’attività stragiudiziale prestata in quanto connessa alla prima e strumentale alla sua definizione. La valutazione dell’importanza dell’opera prestata. Quanto, infine, alla censura relativa all’omessa valutazione della particolare importanza dell’opera prestata, la Suprema Corte osserva che la possibilità di raddoppiare gli onorari – e, se si vuole, anche quadruplicare – riconosciuta dall’art. 5, d.m. n. 127/2004 non costituisce un obbligo per il giudice. Invero, la valutazione della particolare importanza e complessità della pratica è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, la cui discrezionalità già si esplica nella determinazione del compenso tra i minimi ed i massimi stabiliti nella tabella allegata alla tariffa. Pertanto, il semplice fatto che il giudice possa avere attribuito particolare rilevanza al livello quantitativo e qualitativo dell’opera al predetto specifico fine non sta a significare che detta rilevanza debba poi anche considerarsi di livello così elevato da giustificare il superamento dei massimi. Senza dimenticare, poi, che del potere discrezionale di stabilire che una controversia si presenti di straordinaria importanza e possa, quindi, anche consentire il raddoppio dei massimi degli onorari, va giustificato – come in tutti i casi di uso di un potere discrezionale extra ordinem – solo l’esercizio e non anche il mancato esercizio.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 10 settembre 2015 – 22 gennaio 2016, n. 1202 Presidente Bucciante – Relatore Falaschi Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 3 maggio 1991 B.P. , M.B. e B.M. proponevano opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 3744 del 1991, emesso dal Presidente del Tribunale di Bologna, in favore dell'Avv.to R.S.R. , per la somma di L. 103.174.275, oltre accessori, per la complessa attività professionale svolta su incarico di D.I. , poi deceduto, al quale erano subentrati i B. , in relazione al deposito di istanze di divisione di beni indivisi ex art. 600 c.p.c. e trattazione in sede giudiziale, oltre ad attività condotta in via stragiudiziaie per liberare i beni pignorati, fra il 1984 ed il 1988, deducendo che era errata l'indicazione del valore della pratica. Aggiungevano che la percentuale andava, peraltro, ridotta non potendo riguardare l'intero valore del compendio ma solo la quota di loro spettanza, oltre a non essere stata l'opera professionale portata a compimento. Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dell'opposta, il giudice adito, espletata c.t.u., rigettava l'opposizione e per l'effetto confermava il d.i In virtù di rituale appello interposto dai B. , con il quale lamentavano la erroneità della decisione del giudice di prime cure sia quanto alla determinazione del valore della pratica sia quanto all'accertamento del tipo di attività svolta, non distinta quella giudiziale da quella stragiudiziale, la Corte di appello di Bologna, nella resistenza dell'appellata, in accoglimento del gravame e in riforma della decisione impugnata, determinava in Euro 25.332,00 il compenso della professionista. A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava che non erano stati correttamente computati nella specie né i diritti e le spese né gli onorari. In particolare precisava che sino al marzo 1988 l'appellata aveva la qualifica di procuratore legale, maturata quella di avvocato in epoca successiva, per cui fino a detto tempo gli onorari andavano ridotti del 50%. Aggiungeva che l'attività professionale - consistita nel procedere alla divisione giudiziale ed alla liberazione dei beni di proprietà di D.I. sottoposti a procedura esecutive in quanto beni pro indiviso con altri comproprietari, destinatari di azioni esecutive - era stata svolta in favore anche di altre persone facenti parte del nucleo familiare B. , ma che erano autonomamente costituite e rappresentate in giudizio, per cui nessun compenso poteva essere chiesto per l'attività espletata in favore di detti comproprietari o di terzi, per essere estranei al mandato de quo. Ai fini della determinazione del valore della pratica per il calcolo del compenso, si doveva avere riguardo al valore non dell'intero compendio valutato in L. 5.000.000.000 , ma al valore della quota oggetto di divisione, che ammontava a L. 850.000.000, come giudizialmente accertato. Aggiungeva che non poteva essere ritenuta di straordinaria importanza l'attività legale svolta, avendo avuto ad oggetto l'intervento in procedure esecutive già in corso e la richiesta di un giudizio di divisione definito senza l'emanazione di un provvedimento giurisdizionale, ma anzi era stata modesta, essendo stata prevalente quella stragiudiziale di definizione delle trattative tra creditori e terzi. Inoltre l'esposizione della parcella era del tutto confusa e non specifica rispetto alle varie attività svolte, ragione per la quale era stata disposta c.t.u., le cui conclusioni venivano condivise. Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Bologna ha proposto ricorso per cassazione la R.S. , sulla base di due motivi, cui hanno replicato i B. intimati con controricorso contenente anche ricorso incidentale condizionato, affidato ad un motivo. Entrambe le parti in prossimità della pubblica udienza hanno depositato memorie illustrative. Motivi della decisione Va prioritariamente affermato, quanto all'eccezione di inammissibilità del ricorso principale sollevata dai resistenti, che la disposizione dettata dall'art. 360 bis c.p.c., ratione temporis applicabile, recitava Il ricorso è inammissibile 1 quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della cassazione e l'esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa 2 quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo . La questione posta dal costrutto della norma è stata dalle Sezioni Unite di questa Corte sent. n. 19051 del 2010 risolta nel senso di cui alla massima Il ricorso scrutinato ai sensi dell'art. 360 bis, n. 1 cod. proc. civ. deve essere rigettato per manifesta infondatezza e non dichiarato inammissibile, se la sentenza impugnata si presenta conforme alla giurisprudenza di legittimità e non vengono prospettati argomenti per modificarla, posto che anche in mancanza, nel ricorso, di argomenti idonei a superare la ragione di diritto cui si è attenuto il giudice del merito, il ricorso potrebbe trovare accoglimento ove, al momento della decisione della Corte, con riguardo alla quale deve essere verificata la corrispondenza tra la decisione impugnata e la giurisprudenza di legittimità, la prima risultasse non più conforme alla seconda nel frattempo mutata . Tanto chiarito, con il primo motivo la ricorrente principale denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 57 e ss R.D.L. n. 1578 del 1933, del D.M. 22.6.1982 e del D.M. 31.10.1985, per avere la corte territoriale erroneamente applicato alla specie il primo comma dell'art. 6 della T.P. e non il secondo comma, come avrebbe dovuto trattandosi di onorario a carico del cliente e non del soccombente, non essendo previsto affatto che nei giudizi di divisione si debba avere riguardo alla quota in contestazione. Aggiunge la ricorrente principale che la corte territoriale è incorsa anche nella violazione dell'art. 2 comma 1 T.P. per la determinazione degli onorari in materia stragiudiziale, per avere computato il compenso per la sola attività giudiziale. Assume, altresì, che il giudice del gravame non ha tenuto specifico conto neanche dell'art. 5 TP., quanto alla rilevanza dei risultati del giudizio ed ai vantaggi conseguiti dal cliente, stante la straordinaria importanza dell'affare. Con il secondo motivo la ricorrente principale lamenta il vizio di motivazione circa la determinazione dell'attività prestata e la quantificazione del valore della stessa, anche quanto alla mancata considerazione dell'intera attività stragiudiziale. I motivi - da trattare congiuntamente vertendo sulle medesime questioni - appaiono infondati sotto tutte le loro prospettazioni. Deve considerarsi, quanto alla prima questione, che secondo la regola stabilita dai D.M. n. 127 del 2004, art. 6, comma 1, espressamente enunciata per gli onorari a carico del soccombente, ma espressione di un principio generale valido anche per la liquidazione a carico del cliente, la determinazione del valore della causa va rapportata ai criteri stabiliti dal codice di procedura civile, con la particolarità che, per la liquidazione degli onorari a carico del cliente, deve farsi riferimento anche alla statuizione dell'art. 6, comma 2, a norma del quale può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando risulti manifestamente diverso , nonché dell'art. 6, comma 4, a norma del quale per la determinazione del valore effettivo della controversia deve farsi riferimento al valore dei diversi interessi perseguiti dalle parti . Va, altresì, considerato che a ai sensi dell'art. 15, ult. comma, c.p.c., per la cause relative a beni immobili, ove non risultino i valori catastali, la causa va ritenuta di valore indeterminato solo ove il valore non emerga dagli atti b l'art. 10 c.p.c. prevede la determinazione del valore della causa in base alla domanda e, tuttavia, qualora il convenuto abbia proposto una domanda riconvenzionale, occorre fare riferimento a quest'ultima se di valore superiore cfr Cass. n. 10758 del 2008 , senza procedere al cumulo con le altre domande Cass. n. 19065 del 2006 Cass. n. 7239 del 2005 Cass. n. 1202 del 2003 , né di queste fra loro, in caso di riunione di procedimenti se provenienti da soggetti diversi Cass. n. 11150 del 2003 Cass. n. 6236 del 1983 . Nell'ambito di ciascuna domanda i capi che non siano alternativi o subordinati vanno, invece, sommati fra loro, se proposti contro la medesima parte, attribuendo al capo o ai capi di domanda di valore indeterminabile il valore secondo quanto prescritto dall'art. 6, comma 5 del suddetto D.M. e applicando lo scaglione tabellare corrispondente alla somma fra lo stesso e quello degli altri capi sommati secondo quanto sopra specificato Cass. n. 10758 del 2008 cit. . Venendo al profilo del ricorso, secondo il quale il valore della causa al quale andrebbero ragguagliati gli onorari, sarebbe quello dell'asse, trattandosi di cause ereditarie cui si applica, ai fini della determinazione del valore, l'art. 12 c.p.c., comma 2, in tema di divisioni, l'assunto della ricorrente non può essere condiviso. Deve, infatti, ritenersi, contrariamente a quanto affermato dalla professionista, che, ai fini degli onorari, il valore delle cause di divisione non vada stabilito a norma dell'art. 12, ult. comma, c.p.c., per il riferimento fatto in via generale dal D.M. n. 127 del 2004, art. 6, comma 1 a detto codice per la determinazione del valore della causa, tenuto conto che lo stesso art. 6, comma 1, deroga espressamente al suddetto rinvio in materia di giudizi divisori, in relazione ai quali stabilisce, con statuizione avente valore di principio ed applicabile anche agli onorari dovuti dal cliente, che in tali giudizi il valore va determinato in relazione al valore della quota o dei supplementi di quota in contestazione in tal senso, di recente, Cass. n. 6765 del 2012 ma già, Cass. n. 3657 del 1975 Cass. n. 616 del 1980 . Tale interpretazione è aderente alla lettera ed alla ratio della norma, posto che l'opposta interpretazione viene a disancorare, irragionevolmente, il valore della causa da quella dell'interesse in concreto perseguito dalla parte. Va rammentato, poi, con specifico riferimento alla fattispecie in esame, che le azioni intraprese per la liberazione dei beni sottoposti a procedure esecutive, pur diverse e prodromiche rispetto all'azione di divisione, tuttavia avevano comportato sostanzialmente lo svolgimento di attività stragiudiziale, ragione per la quale correttamente la corte di merito - in mancanza di normativa espressa sul modo di determinare il valore della causa in relazione a dette azioni - ai fini della liquidazione degli onorari ha ritenuto di fare ricorso, per analogia, alla medesima disciplina relativa alle cause di divisione, mediante l'applicazione delle voci tariffarie secondo i valori massimi previsti. Per quanto concerne la critica di liquidazione della sola attività giudiziaria, osserva il Collegio che la corte territoriale ha rilevato che l’avv. R.S. non aveva operato al di fuori di un giudizio, ma esclusivamente in quanto incaricata con formale mandato di difendere D.I. poi deceduto e a cui erano subentrati quali eredi-nudi proprietari i B. in relazione alla divisione giudiziale della proprietà dell'immobile in comproprietà c.d. , nonché per prendere parte alle procedure esecutive relative ai cespiti immobiliari intestati alla famiglia D. , cosicché tutte le sue prestazioni professionali dovevano essere remunerate secondo la tariffa giudiziale v. pag. 12 della sentenza impugnata . Ha poi aggiunto che, essendo la definizione stragiudiziale un normale esito di una controversia, dovevano considerarsi prestazioni giudiziali non solo quelle preordinate ad atti processuali, ma anche quelle che si svolgono fuori dal processo, purché dipendenti dal mandato ricevuto per la difesa in giudizio, e quindi ad esso complementari perché comunque volte alla sua definizione, quali appunto le prestazioni della R.S. tese alta soluzione transattiva che avrebbe posto fine all'intera controversia. La sentenza impugnata ha quindi concluso che il compenso di Euro 25.332,00 determinato per la fase giudiziale doveva ritenersi comprensivo anche dell'attività stragiudiziale prestata in quanto connessa alla prima, portando a quella definizione transattiva della vicenda che rientra pur sempre nell'ambito delle prestazioni giudiziali. Orbene il convincimento espresso dalla Corte territoriale all'esito di una puntuale ricostruzione dell'attività prestata dalla ricorrente in favore di D.I. nell'ambito della divisione e delle controversie già pendenti avanti al giudice dell'esecuzione e poi transatte è immune dalle censure formulate dalla professionista. Invero, una volta accertato che l'attività stragiudiziale prestata dalla R.S. è sorta dopo l'insorgenza delle controversie giudiziali e dunque nell'ambito delle stesse, è evidente che le prestazioni professionali finalizzate a transigere la lite, lungi dall'avere una autonoma giustificazione, erano strettamente connesse alle controversie e strumentali alla loro definizione. Sotto tale profilo è infondata la censura della ricorrente relativa ad un preteso omesso esame da parte del giudice di appello della documentazione attestante l'attività stragiudiziale espletata, non essendo in contestazione il suo effettivo svolgimento, ma piuttosto il suo collegamento con l'attività giudiziale per la quale soltanto il suddetto avvocato aveva ottenuto da D.I. il conferimento del mandato, che dunque costituiva l'unica fonte giustificativa delle sue prestazioni professionali, come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata. Infine, relativamente alla dedotta violazione dell'art. 5 T.P., occorre rilevare che se gli onorari possono essere raddoppiati e, se si vuole, anche quadruplicati, secondo la previsione invocata, non per questo debbono necessariamente esserlo, come pretende la ricorrente, e la valutazione della particolare o addirittura straordinaria importanza, complessità, difficoltà della pratica è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, la cui discrezionalità già si esplica nella determinazione del compenso, sulla base dei medesimi parametri, tra i minimi ed i massimi stabiliti nella tabella allegata alla tariffa stessa. Pertanto, il semplice fatto che il giudice possa avere attribuito particolare rilevanza al livello quantitativo e qualitativo dell'opera al predetto specifico fine non sta per nulla a significare che detta rilevanza debba poi anche considerarsi di livello così elevato da giustificare il superamento dei massimi. D'altra parte, del potere discrezionale di stabilire che una controversia si presenti di straordinaria importanza e possa, quindi, anche consentire il raddoppio dei massimi degli onorari, va giustificato - come in tutti i casi di uso di un potere discrezionale extra ordinem cfr. Cass. 2 agosto 2005 n. 16132 Cass. 26 febbraio 1983 n. 1503 - solo l'esercizio e non anche il mancato esercizio Cass. 1 marzo 1995 n. 2345 . Venendo al ricorso incidentale dei B. , con il quale viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., nonché vizio di motivazione quanto alla quota parte del compenso posto a loro carico, poiché è condizionato, stante il tenore dello stesso, è assorbito dal rigetto del ricorso principale. In definitiva, va rigettato il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale. La ricorrente principale, in ragione del principio di soccombenza ex art. 91 c.p.c., va condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte, rigetta il ricorso principale dichiara assorbito il ricorso incidentale condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 4.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario e agli accessori come per legge.