È tenuto a versare l’IRAP il professionista che corrisponde ingenti compensi ai praticanti

Il commercialista non deve pagare l'IRAP per l'impiego dei praticanti nello studio se manca la prova che l'apporto di questi è stato utile ad incrementare il reddito del professionista. Ove invece venga contestata l’entità degli emolumenti corrisposti al collaboratore i giudici di merito devono verificare il concreto contributo fornito dallo stesso in termini di accrescimento della produttività del professionista.

Lo ha stabilito la Cassazione con ordinanza n. 33382 del 27 dicembre, con cui ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate. IRAP professionisti e ricorso al lavoro di terzi. Sul punto si ricorda che l’IRAP colpisce la capacità produttiva dell’obbligato se accresciuta e potenziata da un’attività autonomamente organizzata nel cui ambito assume rilevanza anche la presenza di un solo dipendente, quale elemento potenziatore ed aggiuntivo di reddito. Per quanto concerne il lavoro di terzi, è ormai pacifico l’orientamento secondo cui anche il ricorso al lavoro di terzi per la fornitura di tutti i servizi necessari dalla telefonia al segretariato in forma rilevante e non occasionale integra il presupposto dell’esercizio abituale di attività autonomamente organizzata, non rilevando le modalità di svolgimento di tali servizi, ovvero se con personale dipendente o con fornitura outsourcing . In merito alla professione di avvocato si registrano un paio di precedenti di legittimità secondo cui il requisito dell’autonoma organizzazione ricorre quando il professionista responsabile dell'organizzazione si avvalga, pur senza un formale rapporto di associazione, della collaborazione di un altro professionista nella specie, del coniuge , stante il presumibile intento di giovarsi delle reciproche competenze, ovvero della sostituibilità nell'espletamento di alcune incombenze, sì da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente dello studio cfr. Cass. 1136/2017 e 1089/2018 . Va comunque indagato di volta in volta l’apporto che i soggetti terzi danno al professionista per verificarne l’intensità e la capacità di accrescerne i compensi, evidentemente non sussistente in caso di domiciliazioni che consentono solamente uno svolgimento più comodo dell’attività che comunque sarebbe stata svolta . Emblematica è la pronuncia 22674/2014 con cui la Cassazione ha stabilito che l'impiego non occasionale di lavoro altrui, costituente una delle possibili condizioni che rende configurabile un'autonoma organizzazione, sussiste se il professionista eroga elevati compensi a terzi per prestazioni afferenti l'esercizio della propria attività, restando indifferente il mezzo giuridico utilizzato e, cioè, il ricorso a lavoratori dipendenti, a una società di servizi o a un'associazione professionale applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito e ritenuto legittimo l'assoggettamento al tributo commercialista che, per prestazioni afferenti l'esercizio della propria attività - in particolare per la tenuta della contabilità dei propri clienti, funzionale all'attività di consulenza fiscale e societaria aveva impiegato in modo non occasionale una società di servizi retribuita a percentuale, erogandole significativi compensi per le sue prestazioni cfr. in senso conforme Cass. 1820/2017 . Nel caso di praticanti l’onere della prova si inverte in quanto spetta all’Agenzia dimostrare, anche con elementi presuntivi, la rilevanza dell’apporto e i giudici di merito non possono omettere di valutare le doglianze dell’amministrazione. Caso concreto. La vicenda partiva dalla richiesta di rimborso presentata da un commercialista per l’IRAP versata dal 2003 al 2009. L’Agenzia delle entrate opponeva un rifiuto in virtù della presenza di due praticanti la cui elevata remunerazione dimostrava una certa capacità di contribuire al reddito del commercialista. La tesi dell’amministrazione finanziaria, sostenuta anche in sede di ricorso per Cassazione, è che l’essersi avvalso di due praticanti ed aver loro corrisposto compensi elevati circa 40 mila euro fosse indice della particolare qualità ed intensità dell’apporto fornito all’attività del professionista, non in qualità di praticanti ma di veri e propri collaboratori in grado di incidere sulla capacità produttiva del professionista. Il ricorso è stato ritenuto fondato secondo la Cassazione è vero che, in astratto, nel caso di utilizzazione di praticanti si deve presumere che la loro utilizzazione non è fatta in vista di un aumento del reddito, ma in vista della loro formazione. Ed è altresì vero che la finalità del ricorso a praticanti è di impartire loro istruzione professionale piuttosto che di avvalersi della loro opera per incrementare il reddito cfr. Cass. 22705/2016 Di fronte alle contestazioni dell’Agenzia delle entrate, quindi, i giudici di merito sono tenuti a vagliare il concreto apporto fornito dai praticanti verificando se con esso il professionista abbia accresciuto il valore della consulenza fornita ai clienti dello studio, considerando anche l’entità dell’emolumento corrisposto al collaboratore cfr. in senso conforme Cass. 1723/2018 . Nel caso di specie la questione del concreto contributo fornito dal praticante alla produzione del reddito era stata sollevata da Agenzia delle Entrate, la quale aveva ritenuto la prova di tale contributo presumendola dai compensi elevati per un semplice praticante corrisposti dal professionista. Spetterà ora alla Ctr Emilia Romagna, in sede di rinvio, procedere a tale verifica.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - T, ordinanza 23 ottobre – 27 dicembre 2018, n. 33382 Presidente Napoliano – Relatore Cricenti Fatto e diritto Agenzia delle Entrate ricorre avverso una decisione della Commissione tributaria regionale di Bologna, che, in parziale riforma del primo grado, ha tenuto esente dal pagamento dell'Irap il dott. S., commercialista. Quest'ultimo aveva chiesto il rimborso dell'imposta pagata per gli anni dal 2003 al 2009, e versata a titolo di Irap per la presenza in studio e la relativa remunerazione, di due praticanti. Agenzia delle Entrate aveva negato il rimborso dell'Irap sul presupposto che i compensi pagati ai praticanti dimostravano una corta loro capacità di contribuire al reddito del commercialista, ed erano indice di effettivo lavoro svolto a favore del contribuente. Avverso tale diniego il professionista ha proposto ricorso deciso infine dalla commissione regionale, la cui decisione è oggi oggetto di impugnazione. Agenzia delle Entrate fa valere un solo motivo di ricorso, con cui denuncia violazione falsa applicazione del D.Lvo n. 446 del 1997, art. 2 e dell'art. 2697 c.c La tesi del Fisco è che l'essersi avvalso per alcuni anni di un praticante, per altri anni di due o tre, ed aver loro corrisposto compensi elevati per un totale di circa 40 mila Euro è indice della circostanza che questi ultimi non fossero praticanti, ma collaboratori in grado di incidere sulla capacità produttiva. Il contribuente si è costituito ed ha eccepito l'inammissibilità del ricorso, oltre alla sua infondatezza nel merito. Il ricorso appare fondato. Intanto è da respingere l'eccezione fatta dal controricorrente di inammissibilità del ricorso eccezione basata sulla tesi che il Fisco chiede un nuovo e diverso esame dei fatti, e dunque un accertamento inammissibile in Cassazione. In realtà, la ricorrente dà per pacifici i fatti, ossia il ricorso a praticanti di studio, limitandosi a censurare la decisione di appello nella parte in cui ritiene che i compensi pagati a tali ultimi non sono indici di capacità contributiva. Nel merito il motivo di ricorso è fondato, alla luce della giurisprudenza di legittimità ormai prevalente. Agenzia delle Entrate denuncia, oltre che violazione delle norme sull'Irap, altresì violazione dell'art. 2697 c.c., ritenendo che la prova del fatto che il praticante non contribuisce al reddito spetti al professionista che se ne avvale. L'Irap presuppone il ricorso ad una struttura organizzativa che contribuisca alla produzione del reddito. In astratto, è vero che, nel caso di utilizzazione di praticanti si deve presumere che la loro utilizzazione non è fatta in vista di un aumento del reddito, ma in vista della loro formazione. Ed è altresì vero che la finalità del ricorso a praticanti è di impartire loro istruzione professionale piuttosto che di avvalersi della loro opera per incrementare il reddito in tal senso anche Cass. n. 22705 del 2016 . E' però altrettanto vero che questa regola vale, per l'appunto, in astratto e che non esime il giudice di merito dalla necessità di verificare se, in concreto, anche in ragione della consistenza dei compensi corrisposti al praticante, quest'ultimo abbia contribuito alla produttività del professionista, incrementandone il reddito v. da ultimo Cass. 24.1.2018, n. 1723 . E ciò a maggior ragione ove si consideri che la questione del concreto contributo fornito dal praticante alla produzione del reddito era stata sollevata da Agenzia delle Entrate, la quale aveva ritenuto la prova di tale contributo presumendola dai compensi elevati per un semplice praticante corrisposti dal professionista. Il ricorso va dunque accolto con rinvio al giudice di merito che dovrà procedere alla verifica suddetta. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna in diversa composizione.