La divulgazione di operazioni di polizia giudiziaria in rete può diventare un boomerang sia per l’agente che per il Viminale. In particolare se si tratta di riprese che interferiscono con la dignità delle persone e la diffusione dei filmati non ha alcuna legittimazione concreta.
Lo ha chiarito l’Autorità per la protezione dei dati con l’inedito provvedimento numero 236/2020 con il quale ha condannato il Ministero dell’interno al pagamento di una pesante sanzione amministrativa. Un soggetto arrestato ha iniziato a manifestare episodi di autolesionismo all’interno di un commissariato di polizia. Un agente ha quindi ripreso le operazioni di contenimento e di messa in sicurezza della persona con il proprio smartphone e ha condiviso il filmato in chat con alcuni colleghi. Il video è poi finito in rete e sulla stampa attirando l’interesse del Garante che ha richiesto chiarimenti al Viminale. In particolare sulle motivazioni dell’avvenuta divulgazione del filmato dove la persona risulta chiaramente riconoscibile in volto. L’organo di coordinamento delle forze di polizia ha quindi avviato approfondite verifiche interne riconoscendo una serie di lacune organizzative. Il video è stato realizzato da un operatore di polizia con il proprio smartphone privato e inviato alla Procura della Repubblica solo successivamente. Ovvero a seguito dell’interessamento da parte dei media sulla vicenda. L’istruttoria compiuta dal Garante ha evidenziato una serie di criticità importanti. La tutela dei dati personali in materia di attività di polizia è regolata dalla direttiva Ue 2016/680 che è stata recepita in Italia con il d.lgs. 51/2018. Ed inoltre dal d.P.R. numero 15/2018, limitatamente al trattamento dei dati da parte delle forze di polizia dello Stato. I principi di questa novella sono praticamente gli stessi del Gdpr. Il trattamento dei dati deve rispettare tutte le regole poste a tutela dei diritti fondamentali delle persone fisiche. Nel caso sottoposto all’attenzione dell’Autorità il trattamento risulta illecito. In particolare per quanto riguarda la riservatezza del filmato che non aveva alcuna ragione per essere divulgato. La responsabilità per questo trattamento irregolare a parere del Garante non è ascrivibile solo all’operatore di polizia negligente. Ma allo stesso Ministero, titolare del trattamento, in quanto lo stesso non si è adeguatamente organizzato per prevenire una simile attività dannosa. La condivisione in chat del filmato potrebbe infatti essere considerata una mera iniziativa privata dell’agente, prosegue il provvedimento, «peraltro, anche a prescindere dalla finalità della condivisione suddetta e dell’individuazione delle responsabilità disciplinari e/o penali per la divulgazione in internet delle immagini suddette, l’imputabilità del trattamento in questione ai fini dell’adozione di misure correttive, sanzionatorie e/o risarcitorie è da ricondurre comunque al Ministero. Infatti, il soggetto pubblico risponde del fatto illecito del proprio dipendente - ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza l'esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici e ciò a prescindere dal fine soggettivo dell'agente ma in relazione all'oggettiva destinazione della condotta a fini diversi da quelli istituzionali o a maggior ragione contrari a quelli per i quali le funzioni o le attribuzioni o i poteri erano stati conferiti. Nella fattispecie, i fatti si sono svolti all’interno di uffici di polizia da parte di agenti nei confronti di persona temporaneamente ristretta e quindi è assolutamente presente il nesso di occasionalità necessaria in base al quale la condotta è riferibile all’Amministrazione». In ogni caso, prosegue l’autorità, «deve rilevarsi che nella vicenda in esame la fuoriuscita del video in questione è avvenuta da parte di un agente di polizia, che nell’esercizio delle sue funzioni aveva acquisito e registrato le immagini e, quindi, la titolarità del trattamento è da ricondurre, anche sotto il profilo della rigorosa applicazione della disciplina in materia, al Ministero». Le misure organizzative messe in campo dal Viminale, conclude l’Autorità centrale, non sono state adeguate «per la formazione di una piena ed effettiva conoscenza e consapevolezza da parte degli operatori di polizia dei rischi derivanti agli interessati dai trattamenti per finalità di polizia».