Clamorosa decisione del Tribunale di Milano. Tira un sospiro di sollievo un giovane milanese, ritrovatosi con un decreto penale di condanna e una multa da 2mila e 250 euro sul groppone. Per il Giudice non vi è alcun obbligo di dichiarare il vero nell’autocertificazione prevista per giustificare i propri movimenti durante le fasi più dure della pandemia.
Nessun obbligo di dichiarare fatti veri nelle autocertificazioni previste per gli spostamenti durante i momenti più difficili – ad esempio, la chiusura totale a marzo dello scorso anno – dell’emergenza sanitaria provocata dal COVID-19. Questo il succo della clamorosa decisione presa dal Tribunale di Milano, decisione con cui è stata cancellato il decreto penale di condanna che pesava, assieme a una multa da 2mila e 250 euro, sulle spalle di un giovane milanese, finito sotto accusa a seguito di un controllo effettuato dagli agenti della Polizia ferroviaria nella stazione di Milano Cadorna a marzo del 2020 Tribunale di Milano, sentenza depositata il 16 marzo 2021 . All’origine della vicenda c’è, come detto, un controllo effettuato a Milano dagli agenti della Polizia ferroviaria il 14 marzo del 2020, con l’Italia in chiusura totale per fronteggiare l’emergenza sanitaria causata dal COVID-19. In quell’occasione vengono fermate diverse persone, tutte obbligate a presentare un’autocertificazione per giustificare i propri spostamenti. 10 giorni dopo, però, alcuni di quei documenti vengono sottoposti a un controllo così viene alla luce l’irregolarità compiuta da un giovane milanese – Dario, nome di fantasia –, che ha spiegato di essersi recato a Milano per lavorare nel negozio in cui è inquadrato come tirocinante, e che viene smentito da una e-mail ufficiale del titolare del negozio, e-mail con cui agli agenti della Polizia ferroviaria viene comunicato che quel 14 marzo il ragazzo non era di turno. Tirando le somme, Dario ha dichiarato il falso, almeno stando a quanto certificato dal titolare del negozio, e ciò gli costa un decreto penale di condanna – per il reato di «falsità ideologica commessa dal privato in un atto pubblico» – e una multa da ben 2mila e 250 euro. Immaginabile la reazione di Dario, che si rivolge a un legale per contestare il provvedimento e per provare a fornire la propria versione. Nello specifico, egli spiega di essersi davvero recato in negozio, quel 14 marzo, per lavorare, e sostiene che ci sia stato un errore da parte del suo datore di lavoro. Per il Giudice del Tribunale di Milano, però, non è necessario prendere in esame le carte messe sul tavolo da Dario, ossia quelle attestanti la sua presenza in negozio il 14 marzo del 2020. Ciò perché non vi sono i presupposti per ipotizzare un reato. In premessa viene ricordato che «l’articolo 483 del codice penale incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”», come, ad esempio, “data e luogo di nascita residenza e cittadinanza possesso e numero del Codice Fiscale, della ‘partita Iva’ e di qualsiasi dato presente nell’archivio dell’anagrafe tributaria». Il Giudice precisa che però «la norma non prevede un generale obbligo di veridicità nelle attestazioni che il privato renda al pubblico ufficiale», mentre conta «la specifica rilevanza giuridica che abbia la documentazione pubblica dell’attestazione del privato». Difatti, «le false dichiarazioni del privato integrano il delitto di falso in atto pubblico quando sono destinate a provare la verità dei fatti cui si riferiscono nonché ad essere trasfuse in un atto pubblico». In sostanza, «il delitto previsto dall’articolo 483 del codice penale sussiste solo qualora l’atto pubblico, in cui la dichiarazione del privato è stata trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati, e cioè quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale». Ad esempio, si parla di reato a fronte di «una falsa dichiarazione circa le condizioni di reddito fungenti da presupposto per l’assegnazione di una casa popolare, o, ancora, per l’ottenimento di un abbonamento mensile a tariffa agevolata ai servizi di trasporto comunale». E in questa prospettiva «il delitto si consuma non nel momento in cui il privato rende la dichiarazione infedele, ma in quello della relativa percezione da parte del pubblico ufficiale che la trasfonde nell’atto pubblico». Invece, nei casi – come quello riguardante Dario – in cui «l’autodichiarazione infedele – in ipotesi – è resa dal privato all’atto di un controllo casuale sul rispetto della normativa emergenziale», è «difficile stabilire quale sia l’atto del pubblico ufficiale in cui la dichiarazione infedele sia destinata a confluire con tutte le necessarie e previste conseguenze di legge. Da un lato, infatti, il controllo successivo sulla veridicità di quanto dichiarato dal privato è solo eventuale e non necessario da parte della pubblica amministrazione pertanto, quanto dichiarato dal singolo all’atto della sottoscrizione dell’autodichiarazione potrebbe di fatto restare privo di qualunque conseguenza giuridica dall’altro lato, occorrerebbe ipotizzare che l’atto destinato a provare la verità dei fatti autodichiarati e certificati dal privato sia il successivo eventuale verbale di contestazione di una sanzione amministrativa o l’atto di contestazione di un addebito di natura penale». All’epoca del controllo subito da Dario ad opera degli agenti della Polizia ferroviaria a Milano «la violazione delle prescrizioni contenute nel D.P.C.M. dell’8 marzo 2020, relative al divieto di spostamento fuori dalla propria abitazione o Comune di residenza, se non per le comprovate ragioni previste, era sanzionata penalmente» dall’articolo 650 c.p., che punisce l’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità. Ma è evidente, precisa il Giudice milanese, come «non sussista alcun obbligo giuridico per il privato, che si trovi sottoposto a controllo nelle circostanze indicate, di dire la verità sui fatti oggetto dell’autodichiarazione sottoscritta, proprio perché non è rinvenibile nel sistema una norma giuridica che ricolleghi specifici effetti ad uno specifico atto-documento nel quale la dichiarazione falsa del privato sia in ipotesi inserita dal pubblico ufficiale». Altrimenti, il privato «si troverebbe obbligato a dire il vero sui fatti oggetto dell’autodichiarazione resa, pur sapendo che ciò potrebbe comportare la sua sottoposizione ad indagini per la commissione di una condotta avente rilevanza penale o, ancora, il suo assoggettamento a sanzioni amministrative pecuniarie, anch’esse parimenti afflittive e punitive». Per il Giudice «un simile obbligo di riferire la verità non è previsto da alcuna norma di legge e una sua ipotetica configurazione si porrebbe in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo». Nella vicenda specifica, quindi, «Dario si sarebbe trovato di fronte all’alternativa di scegliere tra riferire il falso, al fine di non subire conseguenze per sé pregiudizievoli, venendo tuttavia assoggettato a sanzione penale, oppure riferire il vero nella consapevolezza di poter essere sottoposto a indagini per il reato di cui all’articolo 650 c.p.». Ma tale conclusione contrasta con il diritto di difesa e va esclusa alla luce della formulazione dell’articolo 483 c.p. e della strutturazione del «fatto tipico del delitto di falso ideologico disciplinato da tale norma». Cancellati così il decreto penale di condanna e la multa da 2mila e 250 euro Dario può tirare un sospiro di sollievo. E questo precedente può far ben sperare chi ha mentito nelle autocertificazioni per giustificare i propri spostamenti la sanzione peggiore può essere solo amministrativa, cioè una semplice multa, neanche troppo gravosa.
Tribunale di Milano, Ufficio del GIP, sentenza del 26 marzo 2021 Giudice Del Corvo