Pubblica una foto su FB offendendo quattro operai comunali al lavoro: condannato

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso di un imputato condannato per il reato di diffamazione, avendo pubblicato sul proprio profilo Facebook una fotografia che riprendeva quattro operai del Comune di Cecina durante lo svolgimento delle loro mansioni con annessa una didascalia denigratoria.

Sul tema la Suprema Corte con la sentenza n. 11426/21, depositata il 24 marzo. La Corte d’Appello di Firenze confermava la decisione di primo grado concernente la responsabilità di un imputato , in relazione al reato di diffamazione contestatogli per aver pubblicato sul proprio profilo Facebook una fotografia che riprendeva quattro operai del Comune di Cecina durante lo svolgimento delle loro mansioni con la seguente didascalia stazione di Cecina, uno lavora, uno tiene il secchio e due si occupano di relazioni istituzionali, una specie di corpo diplomatico . L’imputato ricorre in Cassazione sottolineando che con la didascalia suddetta non intendeva riferirsi ai due dipendenti comunali effettivamente impegnati e che quindi la Corte d’Appello avrebbe erroneamente affrontato la questione all’esimente della critica politica , non considerando il più generale profilo del diritto di critica. Nel caso di specie però avendo l’imputato dovuto difendere successivamente i quattro operai dai vari attacchi che si sono susseguiti dopo la pubblicazione della foto pubblicata, dimostra che la motivazione con la quale i Giudici di merito hanno ricostruito la portata diffamatoria della comunicazione coinvolgente i lavoratori fotografati additati come sfaticati” anche da coloro che seguivano il profilo dell’accusato, non presentava dubbi di logicità. La Corte sottolinea inoltre che non è sufficiente un qualunque collegamento con singoli episodi a giustificare conclusioni critiche che, aspre o non che siano nei toni, offendono la reputazione dei soggetti interessati, finendo per essere suggestive ed insinuanti, nella misura in cui lasciano intendere ai destinatari della comunicazione, ossia non risponde al vero – espressione di una condotta generalizzata . Per questi motivi la Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 4 – 24 marzo 2021, n. 11426 Presidente Palla – Relatore De Marzo Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 04/06/2019 la Corte d’appello di Firenze ha confermato la decisione di primo grado, quanto alla affermazione di responsabilità di G.L. , in relazione al reato di diffamazione, contestatogli per avere pubblicato sul proprio profilo Facebook una fotografia che riprendeva quattro operai del Comune di Cecina durante lo svolgimento delle loro mansioni, con la seguente didascalia stazione di Cecina, uno lavora, uno tiene il secchio e due si occupano di relazioni istituzionali, una specie di corpo diplomatico . 2. Nell’interesse del G. è stato proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, con il quale si lamentano vizi motivazionali, sottolineando a che la didascalia rendeva evidente che l’imputato non intendeva riferirsi ai due dipendenti comunali effettivamente impegnati, come confermato dal fatto che, nei commenti successivi, egli chiedeva di non generalizzare e di non voler puntare il dito contro questi tre nella foto b che il M. e il T. , ossia le costituite parti civili, erano proprio coloro che stavano lavorando c che la critica svolta aveva comunque il suo fondamento in un contenuto di verità e che la sentenza impugnata aveva affrontato esclusivamente la questione relativa all’esimente della critica politica, non considerando il più generale profilo del diritto di critica d che, infine, nessuna motivazione era stata offerta quanto al riconoscimento delle persone offese. Considerato in diritto 1. La doglianza, nelle sue varie articolazioni, è infondata. Premesso che il tema del riconoscimento delle persone effigiate è stato genericamente introdotto già in sede di appello, alla luce della agevole individuabilità delle persone impegnate nella specifica attività lavorativa documentata, si osserva che, come lo stesso ricorrente ammette, egli - ma a posteriori, quando ormai la diffamazione era stata consumata - ha dovuto difendere i quattro operai dagli attacchi che si sono susseguiti dopo la pubblicazione sul suo profilo Facebook della foto e del commento sopra ricordato. Ciò dimostra che non si espone a dubbi di logicità la motivazione con la quale i giudici di merito hanno ricostruito la portata diffamatoria della comunicazione coinvolgente tutti i lavoratori della squadra fotografata, evidentemente additati e in tal modo intesi da coloro che seguivano il profilo dell’imputato - come degli sfaticati , in quanto componenti di un gruppo, volta a volta, destinato a dividersi il lavoro in termini di estrema rilassatezza. In questa prospettiva, escluso che possa essere messo in discussione il carattere lesivo della comunicazione in danno di tutti e ciascuno dei soggetti fotografati, va aggiunto che l’accento posto in ricorso sul diritto di critica tout court, senza riferimento alcuno alla qualificazione politica della stessa, è privo di fondamento. Infatti, le affermazioni adoperate sono prive di razionale correlazione con una base fattuale obiettiva, se si considera che l’avere riprodotto un singolo momento dell’attività lavorativa è condotta del tutto inidonea a rappresentare il fondamento di una critica che, come nel caso di specie, investe l’intera portata della attività stesso o, meglio, della diligenza e dell’impegno di coloro che vi sono coinvolti. In altre parole, non è sufficiente un qualunque collegamento con singoli episodi a giustificare conclusioni critiche che, aspre o non che siano nei toni, offendono la reputazione dei soggetti interessati, finendo per essere suggestive ed insinuanti, nella misura in cui lasciano intendere ai destinatari della comunicazione che quei singoli episodi siano - ciò che invece non è documentato, ossia non risponde al vero - espressione di una condotta generalizzata. 2. Alla pronuncia di rigetto consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Non si provvede alla liquidazione delle spese delle parti civili, in ragione della peculiarità della questione e dell’assenza di richiesta in tal senso. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.