Targhette rimosse dai capi di abbigliamento rubati: condanna più grave

Sanzione più pesante per il ladro. Riconosciuta difatti l’aggravante prevista per l’effrazione. Per i giudici l’azione compiuta dal ladro ha mutato la destinazione di merce esposta al pubblico per la vendita.

Beccato a portar via alcuni capi di abbigliamento dal negozio. Inevitabile la condanna per furto , resa però più grave non solo dalla esposizione alla pubblica fede ma anche dalla effrazione” consistita nel rimuovere le targhette relative all’indicazione della marca dei prodotti. Cassazione, sentenza n. 1503/21, sez. V Penale, depositata il 14 gennaio . Ricostruito l’episodio incriminato, il GIP prima e i giudici dell’appello poi ritengono evidente la colpevolezza dell’uomo sotto processo. Consequenziale la sua condanna per furto aggravato dall’effrazione e dalla esposizione alla pubblica fede avente ad oggetto alcuni articoli di abbigliamento esposti in vendita sugli scaffali di un esercizio commerciale . Obiettivo della difesa è quello di mettere in discussione col ricorso in Cassazione le due aggravanti riconosciute in secondo grado e puntare così a un ridimensionamento della pena. Innanzitutto, il legale sostiene che il suo cliente ha rimosso, in occasione del furto, i cartellini dei prezzi ma tale azione non poteva rendere i capi invendibili Su questo fronte, però, i giudici della Cassazione ribattono, condividendo la linea tracciata in Appello, che è superfluo stabilire se si tratti di cartellini dei prezzi o di targhette, la cui asportazione renderebbe invendibile la merce, posto che ogni alterazione forzosa di un bene costituisce comunque effrazione . Difatti, appare evidente che l’asportazione dell’elemento che caratterizzava il capo d’abbigliamento come merce messa in vendita all’interno di un negozio aperto al pubblico, sia esso cartellino del prezzo o targhetta, ne ha mutato la destinazione di merce esposta al pubblico per la vendita, per il cui acquisto sarebbe stato necessario pagare il relativo prezzo alla cassa . Per quanto concerne poi la circostanza aggravante della esposizione alla pubblica fede , l’assunto difensivo è centrato sulla circostanza che l’addetto alla sorveglianza ha effettuato un controllo continuativo dell’autore del furto, seguendolo in tutte le fasi attraverso le quali si è sviluppata l’azione predatoria . Dalla Cassazione ribattono però ricordando che la semplice presenza di un addetto alla sicurezza non esclude di per sé la sussistenza della circostanza di avere commesso il fatto su cose esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, rappresentate in questo caso dagli articoli di abbigliamento di cui il ladro si è pacificamente impadronito senza pagare il relativa prezzo . Per fare chiarezza, poi, i giudici sottolineano che l’aggravante della esposizione della cosa per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede si concretizza anche quando il soggetto si impossessi della merce sottratta dai banchi di un supermercato, considerato che nei supermercati – in cui la scelta delle merci avviene con il sistema del ‘self service’ – la vigilanza praticata dagli addetti è priva di carattere continuativo e si connota come occasionale e a campione, mentre l’esclusione dell’aggravante in questione richiede che sulla cosa sia esercitata una custodia continua e diretta, non essendo sufficiente, a tal fine, una vigilanza generica, saltuaria ed eventuale . Ebbene, in questa vicenda si è appurato che generica e saltuaria erano la vigilanza e, quindi, la custodia assicurate all’interno del negozio, in cui la vendita delle merci avveniva con il sistema tipico dei supermercati, caratterizzato dalla esposizione dei beni al pubblico . A conferma di questa considerazione anche il fatto che l’addetto alla vigilanza aveva concentrato la propria attenzione sul ladro solo perché si era accorto che quest’ultimo già si era reso responsabile di un furto mesi prima, riuscendo, in quell’occasione, a dileguarsi proprio grazie alla mancanza di un sistema di vigilanza continuativa .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 26 ottobre 2020 – 14 gennaio 2021, n. 1503 Presidente Catena – Relatore Guardiano Fatto e diritto Con la sentenza di cui in epigrafe la Corte di appello di Bologna confermava la sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Modena, in data 20.6.2017, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato Fe. Er. alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al reato di furto aggravato dall'effrazione e dalla esposizione alla pubblica fede, in rubrica ascrittogli, avente ad oggetto articoli di abbigliamento esposti in vendita sugli scaffali di un esercizio commerciale appartenente alla catena Decathlon . 2. Avverso la sentenza della Corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione il Fe., a mezzo del suo difensore di fiducia, lamentando 1 violazione di legge e vizio di motivazione, sotto il profilo del travisamento della prova 2 violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al contenuto dell'annotazione di polizia giudiziaria del 23.5.2016 3 vizio di motivazione con riferimento alla valutazione delle dichiarazioni rese in data 23.5.2016 da Nd. El. 4 violazione di legge processuale, con riferimento all'art. 526, co. 1, c.p.p. 3. Il ricorso va dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni. 4. Di natura fattuale, generici e manifestamente infondati appaiono i rilievi volti a contestare la sussistenza della ritenuta circostanza aggravante di cui all'art. 625, co. 1, n. 2 , c.p., sulla base della pretesa incongruenza di quanto affermato dalla forte territoriale in ordine alla presenza, sui capi di abbigliamento oggetto dell'azione predatoria, di targhette, risultanti dagli atti, riferibili all'indicazione della marca cucita all'interno del capo, laddove si tratterebbe, in realtà, di cartellini dei prezzi, la cui asportazione non renderebbe i capi invendibili. Ed invero, come correttamente rilevato dal giudice di secondo grado, ai fini della configurabilità della suddetta circostanza aggravante, è del tutto superfluo stabilire se si tratti di cartellini dei prezzi o di targhette , la cui asportazione renderebbe invendibile la merce, posto che ogni alterazione forzosa di un bene costituisce comunque effrazione . Premesso che in tema di furto, sussiste l'aggravante della violenza sulle cose qualora il soggetto usi, per commettere il fatto, energia fisica provocando la rottura, il guasto, il danneggiamento, la trasformazione della cosa altrui o determinandone il mutamento di destinazione cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 5, n. 641 del 30/10/2013, Rv. 257949 , appare evidente che l'asportazione dell'elemento che caratterizzava il capo d'abbigliamento come merce messa in vendita all'interno di un negozio aperto al pubblico, sia esso cartellino del prezzo o targhetta, ne ha mutato la destinazione di merce esposta al pubblico per la vendita, per il cui acquisto sarebbe stato necessario pagare il relativo prezzo alla cassa. Con riferimento, poi, al rilievo relativo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante della esposizione alla pubblica fede, ne va del pari rilevata la natura meramente fattuale e manifestamente infondata, in quanto l'assunto difensivo secondo il quale l'addetto alla sorveglianza avrebbe effettuato un controllo continuativo del Fe., seguendolo in tutte le fasi attraverso le quali si è sviluppata l'azione predatoria, non può essere condiviso. Trascura il ricorrente di considerare che la semplice presenza di un addetto alla sicurezza non esclude di per sé la sussistenza della circostanza di avere commesso il fatto su cose esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede , rappresentate nel caso di specie dagli articoli di abbigliamento di cui l'imputato si è pacificamente impadronito senza pagare il relativo prezzo. Come chiarito dall'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, infatti, ai fini della configurabilità dell'aggravante dell'esposizione alla pubblica fede è necessario che il titolare del diritto di proprietà sulla cosa oggetto dell'azione delittuosa o altra persona addetta alla vigilanza non possa esercitare una vigilanza diretta e continua sul bene cfr. Cass., Sez. 2, n. 42023 del 19/06/2019, Rv. 277046 Cass., Sez. 5, n. 51098 del 21/09/2017, Rv. 271602 Cass., Sez. 5, n. 45172, del 15/05/2015, Rv. 265681 . In questa prospettiva è stato precisato che sussiste l'aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n. 7, c.p., - sub specie di esposizione della cosa per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede - nel caso in cui il soggetto attivo si impossessi della merce sottratta dai banchi di un supermercato, considerato che nei supermercati - in cui la scelta delle merci avviene con il sistema del self service - la vigilanza praticata dagli addetti è priva di carattere continuativo e si connota come occasionale e/o a campione, mentre l'esclusione dell'aggravante in questione richiede che sulla cosa sia esercitata una custodia continua e diretta, non essendo sufficiente, a tal fine, una vigilanza generica, saltuaria ed eventuale cfr. Cass., Sez. 5, n. 6416 del 14/11/2014, Rv. 262663 . Tali erano la vigilanza e, quindi, la custodia assicurate all'interno del negozio Decathlon , in cui la vendita delle merci avveniva con il sistema tipico dei supermercati, caratterizzato dalla esposizione dei beni al pubblico, come si evince dalla annotazione di p.g. del 23.5.2016 e dalle dichiarazioni rese dall'addetto alla sicurezza Nd., allegate al ricorso. Atti dai quali traspare anche, a riprova del carattere del tutto eventuale della vigilanza assicurata, come l'attenzione del suddetto Nd. si fosse concentrata sul Fe., solo perché si era accorto che quest'ultimo già si era reso responsabile di un furto mesi prima, riuscendo, in quell'occasione, a dileguarsi, proprio grazie alla mancanza di un sistema di vigilanza continuativa. 5. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 3000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della circostanza che l'evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest'ultimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende.