Banconote false al sacerdote in cambio delle monete lasciate dai fedeli: condanna più grave per il truffatore

Confermata la responsabilità di un uomo che ha raggirato un parroco. A rendere più severa la pena il riconoscimento dell’aggravante prevista per avere compiuto il fatto ai danni di un ministro del culto cattolico. Decisivo il riferimento all’origine delle monete a disposizione dell’uomo di chiesa.

Il parroco deve cambiare oltre 500 euro in monete, frutto delle donazioni dei fedeli, con più maneggevoli soldi di carta. A farsi avanti è un conoscente, che però gli consegna delle banconote false. Il bluff dura poco, e, una volta che il sacerdote si è reso conto dell’inganno, il suo conoscente finisce condannato anche per truffa e messa in circolazione di monete false”. Ad aggravare la sua posizione, poi, il fatto che egli abbia agito contro un ministro del culto cattolico Cassazione, sentenza n. 1178/21, depositata oggi il 13 gennaio . Scenario della vicenda è la provincia siciliana. Sotto accusa un uomo che mentre era agli arresti domiciliari si è recato fuori dalla propria abitazione ed ha ceduto cinque banconote false a un sacerdote per ottenere in cambio la corrispondente somma in monete, pari a 510 euro . Inevitabile il processo, che si chiude, sia in primo che in secondo grado, con la condanna dell’uomo che ha raggirato l’uomo di chiesa, ed è ritenuto colpevole di evasione, truffa e messa in circolazione di monete false . In Appello, poi, la pena viene fissata in tre anni e venti giorni di reclusione e 400 euro di multa . Rilevante l’applicazione dell’aggravante prevista per avere agito contro un ministro del culto cattolico . E proprio su questo dettaglio è centrato il ricorso proposto in Cassazione dal difensore dell’uomo sotto processo secondo il legale la condotta di reato non era collegata all’esercizio del culto, benché il denaro provento della truffa era riferibile, secondo il sacerdote, alle offerte dei fedeli e destinato a favore di alcuni parrocchiani . Prima di addentrarsi nella vicenda, i Giudici della Cassazione si soffermano in maniera ampia sul problema dell’applicabilità dell’aggravante dell’aver commesso il fatto contro una persona rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso dallo Stato” . Ebbene, la norma, osservano i magistrati, sta ad indicare la necessità che la condotta illecita sia diretta contro la persona del soggetto che riveste la qualità di ministro del culto, con l’intenzione di vulnerarne il fisico ovvero l’integrità morale, e che l’offesa debba avere una peculiare coloritura, dovendo essere diretta proprio a svilire, anche circuendoli, i valori della funzione professata dalla vittima . Ciò significa che la previsione della circostanza aggravante è limitata ai soli reati dolosi in ragione della necessaria conoscenza della funzione svolta dalla vittima ed a tutte le condotte che si risolvono nell’aggressione alla persona, sia nel fisico che nel portato morale di cui ella è peculiare espressione, in ragione dell’incarico, funzione o missione espletata e del ruolo che di conseguenza riveste ed a prescindere dagli effetti dannosi che tale condotta può aver generato . E non a caso, aggiungono ancora dalla Cassazione, anche la dottrina opera un’utile distinzione, ritenendo che, nel caso del reato commesso contro un ministro del culto nell’atto dell’adempimento delle funzioni o del servizio, la maggior tutela penale è apprestata per garantire la sicurezza e il decorso dell’esercizio delle funzioni o del servizio . In sostanza, l’offesa deve essere diretta contro la persona in ragione della istituzione che essa rappresenta e tale qualità deve causare o concorrere a causare il reato . In questa ottica le opere di carità rappresentano un servizio tipico del ministero cattolico – basti pensare alla destinazione delle elemosine o delle somme espressamente destinate dagli oblanti ai poveri delle parrocchie –, sicché modeste elargizioni a persone bisognose o indigenti costituiscono, di fatto, una costante dell’attività dei parroci . E quindi è logico sancire che in questa vicenda proprio per le funzioni sacerdotali l’autore della condotta si era rivolto alla vittima , cioè al sacerdote. Impossibile, quindi, ritenere che il maggior disvalore della condotta derivi unicamente e di per sé da una maggior tutela soggettiva di chi rivesta una determinata qualifica professionale, religiosa o istituzionale, a prescindere dal collegamento della condotta di reato con la funzione rivestita ed il suo esercizio . Evidente, quindi, secondo i Giudici della Cassazione, che, in questo caso, la condotta, per il contesto e l’oggetto del furto, deve essere considerata diretta nei confronti della persona offesa proprio perché titolare di somme di denaro, derivanti dalle offerte dei parrocchiani e solitamente aduso, per comodità e consuetudine, a cambiarle, sì da essere la vittima ideale della truffa ordita ai suoi danni attraverso la dazione di banconote false corrispondenti al valore delle monete disponibili . In sostanza, l’autore della condotta si è rivolto non a caso al sacerdote in ragione della sua funzione, e per mettere in atto la truffa ha sfruttato le circostanze dell’essere la vittima un ministro di culto, qualità, dunque, che ha concorso a determinare il reato così come realizzato . Confermata, quindi, l’aggravante stabilita dai Giudici di merito, poiché l’uomo si è appropriato con modalità truffaldine delle opere di carità che, come i proventi delle elemosine, rappresentano un servizio tipico del ministero cattolico, funzionale ad attendere alla cura di poveri e bisognosi, grazie alle modalità con le quali queste vengono normalmente elargite monete di piccolo taglio delle quali è necessario ordinariamente il cambio per una migliore spendita e fruizione .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 20 novembre 2020 – 13 gennaio 2021, n. 1178 Presidente Miccoli – Relatore Brancaccio Ritenuto in fatto 1. Con il provvedimento impugnato, datato 14.10.2019, la Corte d'Appello di Messina ha confermato la condanna emessa dal Tribunale di Messina il 20.9.2018 a carico di Ro. Sc. per i reati di evasione, truffa e messa in circolazione di monete false, questi ultimi commessi ai danni di Agostino Giacalone, parroco della chiesa di Madonna del Porto Salvo di Santa Teresa di Riva, confermando altresì tutte le aggravanti, compresa quella di cui all'art. 61, comma primo, n. 10, cod. pen., tranne quella di cui di cui all'art. 61, comma primo, n. 11-quater, cod. pen., in relazione alla cui esclusione, parzialmente riformando la sentenza di primo grado su tale punto, ha anche rideterminato la pena finale, modulandola nella misura di anni tre e giorni 20 di reclusione, oltre Euro 400 di multa. L'imputato, mentre era agli arresti domiciliari in esecuzione della misura cautelare applicata dalla Corte d'Appello di Messina, si è recato fuori dalla propria abitazione ed ha ceduto cinque banconote false alla persona offesa per ottenere in cambio la corrispondente somma in monete pari a 510 Euro. 2. Ha proposto ricorso Ro. Sc. tramite il difensore, avv. Sc., deducendo due motivi diversi. 2.1. Il primo argomento di censura evidenzia il vizio di violazione di legge in relazione ad una delle aggravanti comunque confermate dalla Corte d'Appello, quella di aver commesso il fatto contro un ministro del culto cattolico. L'aggravante non sussisterebbe poiché la condotta di reato non era collegata all'esercizio del culto, benché il denaro provento della truffa, secondo la persona offesa, era riferibile alle offerte dei fedeli e destinato a favore di alcuni parrocchiani. Si cita la sentenza n. 17644 del 2004 della Quinta Sezione Penale della Corte di cassazione per sostenere la tesi della non configurabilità dell'aggravante in esame nel caso di specie. 2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce vizio di mancanza di motivazione quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche e nonostante lo specifico motivo d'appello proposto sulla loro concedibilità all'imputato. 3. Il Sostituto Procuratore Generale Ma. Fr. Lo., con requisitoria scritta del 4.11.2020, ha chiesto che venga dichiarata l'inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso deve essere rigettato poiché complessivamente infondato. 2. Il primo motivo è infondato. Non molto frequentemente la giurisprudenza di legittimità si è trovata a doversi confrontare con il problema dell'applicabilità dell'aggravante dell'aver commesso il fatto contro una persona rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso dallo Stato prevista dall'art. 61, comma primo, n. 10, cod. pen. In una interessante pronuncia - la sentenza Sez. 2, n. 3339 del 24/10/2012, dep. 2013, n.m. - il ricorrente, in un'ipotesi di condanna per furto aggravato commesso contro un sacerdote, ministro del culto cattolico, chiedeva l'annullamento della sentenza, deducendo con il primo motivo l'inosservanza della legge penale e il vizio di motivazione in relazione alla riconosciuta sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61, comma primo, n. 10, cod. pen., ritenuta dalla Corte di merito anche se il sacerdote non era nell'esercizio delle sue funzioni quando conferì il denaro all'imputato. Ebbene, afferma la Corte in proposito che, secondo la disposizione normativa predetta, aggrava il reato l'avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell'atto o a causa dell'adempimento delle funzioni o del servizio e che l'utilizzo dell'avverbio contro sottende una particolare valenza della condotta. L'espressione sta ad indicare, infatti, la necessità che la condotta illecita sia diretta contro la persona del soggetto che riveste la qualità di pubblico ufficiale, incaricato di pubblico servizio o di ministro del culto, con l'intenzione di vulnerarne il fisico ovvero l'integrità morale, e che l'offesa debba avere una peculiare coloritura, dovendo essere diretta proprio a svilire, anche circuendoli, i valori della funzione professata dalla vittima si richiama Sez. 2, n. 673 del 5/12/1955, dep. 1956 . Pertanto, l'avverbio contro , usato quale elemento differenziatore del più comune in danno , delimita la previsione della circostanza aggravante, soggettivamente, ai soli reati dolosi in ragione della necessaria conoscenza della funzione svolta dalla vittima ed, oggettivamente, a tutte le condotte che si risolvono nell'aggressione alla persona, sia nel fisico che nel portato morale di cui ella è peculiare espressione, in ragione dell'incarico, funzione o missione espletata e del ruolo che di conseguenza riveste ed a prescindere dagli effetti dannosi che tale condotta può aver generato. Si evidenzia in proposito come anche la dottrina opera un'utile distinzione, ritenendo che, nel caso del reato commesso contro un ministro del culto o altro soggetto appartenente ad una delle categorie contemplate dalla disposizione aggravatrice in esame nell'atto dell'adempimento delle funzioni o del servizio, la maggior tutela penale è apprestata per garantire la sicurezza e il decorso dell'esercizio delle funzioni o del servizio nell'ipotesi del reato commesso a causa dell'adempimento medesimo, la più energica tutela penale è stabilita per impedire le vendette e le altre ingiuste reazioni cui può dar luogo il detto esercizio. Tale duplice ragione sanzionatrice rafforza la convinzione che l'offesa deve essere diretta contro la persona in ragione della istituzione, sovrana o religiosa, che la stessa rappresenta e che tale qualità debba causare o concorrere a causare il reato. La Corte di cassazione, con la sentenza predetta, ha ritenuto che le opere di carità rappresentino un servizio tipico del ministero cattolico - basti pensare alla destinazione delle elemosine o delle somme espressamente destinate dagli oblanti ai poveri delle parrocchie - sicché modeste elargizioni a persone bisognose o indigenti costituiscono, di fatto, una costante dell'attività dei parroci proprio, dunque, per le funzioni sacerdotali l'autore della condotta si era rivolto alla vittima. 3. Il Collegio condivide la cornice generale ricostruita dalla pronuncia esaminata, secondo un'impostazione evocata in un'ulteriore decisione - la sentenza Sez. 5, n. 17664 del 5/3/2004, Pa., Rv. 229189, richiamata anche dalla difesa del ricorrente - che in motivazione ha ribadito come la dizione normativa dell'aggravante di cui all'art. 61, comma primo, n. 10, cod. pen., riferita al fatto commesso contro e non solo ai danni di un ministro di culto, impone una lettura oggettivizzante, in base alla quale la qualifica di sacerdote del soggetto passivo, per essere rilevante ai fini della configurabilità dell'aggravante, deve aver determinato o concorso a determinare l'azione aggressiva del soggetto attivo. È questa, dunque, la lettura ermeneutica preferibile e che conduce l'aggravante entro una cornice di compatibilità costituzionale, non potendosi ritenere che il maggior disvalore derivi unicamente e di per sé da una maggior tutela soggettiva di chi rivesta una determinata qualifica professionale, religiosa o istituzionale a prescindere dal collegamento della condotta di reato con la funzione rivestita ed il suo esercizio. In tale ottica, non vi è immediato contrasto neppure tra l'opzione interpretativa entro cui si orienta il Collegio e quella proposta da Sez. 4, n. 32393 del 5/7/2012, secondo cui l'aggravante in esame prevede una tutela maggiorata in favore di un determinato soggetto in ragione dello speciale ruolo rivestito nella specie, appunto, ministro di culto richiedendo che il fatto sia stato commesso nell'atto in cui il soggetto tutelato eserciti le sue funzioni sia pure in un semplice rapporto di contestualità o contemporaneità, non potendo estendersi sotto un profilo oggettivo a tutte quelle fattispecie che vedano il soggetto tutelato solo indirettamente coinvolto. Tuttavia, la sentenza citata ha ritenuto insussistente l'aggravante nella fattispecie decisa, riferita ad un imputato di furto aggravato, accusato di essersi impossessato delle offerte in danaro donate ai fedeli e riposte in una cassetta obolo installata in una cappella di una chiesa. 3.1. Applicando i principi suddetti nel caso di specie, molto diverso da quello oggetto della sentenza del 2004 appena esaminata e paradigmaticamente citata anche dalla difesa ed invece molto simile a quello deciso nella pronuncia n. 3339 del 2013, la condotta dell'imputato, per il contesto e l'oggetto del furto, deve essere considerata diretta nei confronti della persona offesa proprio perché titolare di somme di denaro, derivanti dalle offerte dei parrocchiani e solitamente aduso, per comodità e consuetudine, a cambiarle, si da essere la vittima ideale della truffa ordita ai suoi danni attraverso la dazione di banconote false corrispondenti al valore delle monete disponibili. L'autore della condotta, dunque, si è rivolto non a caso al sacerdote in ragione della sua funzione e, per mettere in atto la truffa, ha sfruttato le circostanze dell'essere la vittima un ministro di culto, qualità, dunque, che ha concorso a determinare il reato così come realizzato. Il ricorrente lamenta in ogni caso un profilo di erroneità delle ragioni motivazionali addotte dalla Corte d'Appello per ritenere configurata l'aggravante di cui all'art. 61, comma primo, n. 10, cod. pen., incentrate sulla destinazione ad esigenze di culto del denaro artatamente procuratosi dal ricorrente tuttavia, non è fuori dal fuoco di sussistenza oggettiva della circostanza in esame, come si è visto, ritenere che l'offesa, diretta contro la persona in ragione dell'occasione favorevole al reato creata dalla sua qualità soggettiva, sia aggravata dall'essersi l'imputato appropriato con modalità truffaldine delle opere di carità che, come i proventi delle elemosine, rappresentano un servizio tipico del ministero cattolico, funzionale ad attendere alla cura di poveri e bisognosi, grazie alle modalità con le quali queste vengono normalmente elargite monete di piccolo taglio delle quali è necessario ordinariamente il cambio per una migliore spendita e fruizione . Ad ogni modo, precisate le ragioni di sussistenza dell'aggravante nel senso già esposto dal Collegio, rimane integra la correttezza della decisione adottata dal giudice di merito 3. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato, poiché i giudici di secondo grado hanno risposto al motivo difensivo riferito al diniego delle circostanze attenuanti generiche attraverso l'adeguamento sanzionatorio, rimodulato in senso più favorevole al ricorrente, pur non ritenendo di applicargli il suddetto beneficio, del quale evidentemente non è stato ritenuto meritevole, come si può evincere anche dal richiamo alla gravità oggettiva del fatto ed alla personalità dell'imputato il quale - si rammenta - ha commesso i reati evadendo dagli arresti domiciliari ai quali era sottoposto svolto proprio in sede di rideterminazione della pena. Del resto, la concessione o meno delle attenuanti generiche è un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, sottratto al controllo di legittimità, e può ben essere motivato implicitamente attraverso l'esame esplicito di tutti i criteri di cui all'art. 133 cod. pen. Sez. 6, n. 36382 del 4/7/2003, Dell'Anna, Rv. 227142 , né peraltro risultano elementi positivi in favore del ricorrente dai quali si possa desumere un diverso giudizio di meritevolezza cui la Corte d'Appello non abbia dato seguito. Il motivo di ricorso, in ogni caso, è del tutto genericamente formulato poiché si limita a evidenziare la mancata risposta al riguardo da parte del provvedimento impugnato senza, tuttavia, rappresentare alcuna ragione specifica che militi nel senso della concedibilità del beneficio. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.