Pena detentiva per il giornalista soltanto quando il fatto è di particolare gravità

Alla luce del recente intervento della Consulta e tenuto conto del quadro ermeneutico elaborato dalla Corte EDU occorre, per applicare la sanzione detentiva ad un giornalista responsabile di diffamazione a mezzo stampa, che il fatto sia considerabile di eccezionale gravità valutazione, con tutta evidenza, spettante al giudice di merito.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, sez. V Penale, con la sentenza n. 26509/20 depositata il giorno 22 settembre. La Benemerita finisce nel mirino di un giornale. L’interessante sentenza che oggi commentiamo trae origine da un processo per diffamazione a mezzo stampa nel quale il direttore di una testata giornalistica calabrese viene coinvolto e condannato sia in primo che in secondo grado per avere offeso la reputazione di alcuni ufficiali e sottufficiali dell’Arma. L’accusa, mossa dalle colonne del giornale, era tutt’altro che di poco conto secondo quanto scritto negli articoli incriminati, un carabiniere sarebbe stato complice di un pericoloso latitante e lo avrebbe aiutato a sfuggire alla cattura. La responsabilità del presunto fattaccio era – in quegli scritti – variamente attribuita ad un militare e alla catena di comando che lo precedeva. Sulla base di queste evidenze, la querela per diffamazione finiva per coinvolgere la responsabilità del direttore della pubblicazione, mentre rimaneva nell’ombra l’autore o gli autori degli articoli due di essi erano infatti anonimi e due erano sottoscritti con un acronimo che non consentiva di identificare la mano che lo aveva redatto. Nel giudizio di merito si dimostrava la falsità della notizia. Risultato otto mesi di reclusione per il direttore del giornale. Tra tutti i motivi sollevati con il ricorso per Cassazione uno colpisce nel segno e riguarda l’eccessività del trattamento sanzionatorio inflitto all’imputato. La questione, che potrebbe sembrare di poco momento perché lascia ferma l’asserzione di responsabilità, è invece assai interessante per gli addentellati costituzionali e non solo che la caratterizzano. Aspettando la riforma della diffamazione a mezzo stampa. I punti di partenza sono due da cui prende le mosse il ragionamento degli Ermellini sono due. Il primo è quello del dato normativo contenuto nella disposizione incriminatrice della diffamazione a mezzo stampa. Essa, come è noto, prevede la possibilità di applicare al soggetto ritenuto responsabile la pena alternativa della reclusione o della multa. Il secondo è quello della esistenza in corso di valutazione di alcuni progetti di legge in corso d’esame alle Camere relativi alla riforma della diffamazione col mezzo della stampa. Di recente, a questo proposito, è intervenuta la Corte Costituzionale con una ordinanza interlocutoria con la quale – per non intralciare il lavoro parlamentare – ha rinviato a giugno del 2021 la decisione sulla questione di legittimità costituzionale sollevata con specifico riferimento alla parte del trattamento sanzionatorio previsto per il reato in esame. Il dubbio di costituzionalità riguarda la compatibilità della pena detentiva con il diritto di espressione tutelato sia dalla nostra Costituzione ma anche, come vedremo, dalla CEDU. La pena detentiva va bene soltanto in casi di eccezionale gravità. Il concetto generale che viene posto a base della valutazione è quello della possibilità di ritenere la pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa compatibile con il sistema costituzionale e con quello convenzionale, se gettiamo lo sguardo oltre i confini del diritto nazionale soltanto nei casi di eccezionale gravità della condotta diffamatoria. La Corte EDU ha considerato sempre più spesso sproporzionate le sanzioni detentive per le ipotesi diffamatorie anche quando la pena sia condizionalmente sospesa o in altro modo non eseguita. Limitare l’applicazione della reclusione ai soli casi di esorbitante offensività della condotta viene considerato l’ unico criterio ermeneutico utile a bilanciare il diritto di libera manifestazione del pensiero – al quale è chiaramente ispirata l’attività giornalistica – con il diritto alla tutela della reputazione personale, che non può certamente essere lasciata sguarnita da ogni forma di protezione, tanto più che oggi, grazie alla diffusività dei mezzi di informazione, gli effetti di una notizia diffamatoria sono immediati e talvolta devastanti. Gli auspici della Consulta sono chiari meglio fare ricorso a sanzioni civili o disciplinari severe ed effettive piuttosto che alla reclusione, la quale potrà trovare applicazione soltanto in ipotesi-limite di particolare gravità. Il compito di mettere mano ad una disciplina del genere è chiaramente del legislatore e, nell’attesa, i giudici dovranno dosare con estrema prudenza il trattamento sanzionatorio, ricorrendo alla pena detentiva soltanto in casi di conclamata gravità.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 9 luglio – 22 settembre 2020, n. 26509 Presidente Vessichelli – Relatore Borrelli Ritenuto in fatto 1. La sentenza impugnata è stata emessa il 15 marzo 2019 dalla Corte di appello di Catanzaro, che ha confermato la decisione del Tribunale di Cosenza che aveva condannato C.G. , direttore responsabile della testata omissis , ad otto mesi di reclusione per diffamazione aggravata continuata a mezzo stampa ai danni capo A di tre Ufficiali dei Carabinieri, il Colonnello F.F. Comandante Provinciale di Cosenza il Tenente Colonnello Fr.Vi. Comandante del Reparto Operativo del Comando Provinciale di Cosenza il maggiore L.P. Comandante del Nucleo investigativo dell’anzidetto reparto Operativo Capo B del Maresciallo Ce.To. , in servizio presso il Nucleo Investigativo di cui sopra. I reati sarebbero stati commessi in altrettanti articoli, pubblicati il omissis sulla testata diretta da C. , due dei quali senza firma e due firmati con un acronimo, riguardanti il trasferimento, ricondotto alla volontà dei tre ufficiali/persone offese sopra menzionati, di alcuni sottufficiali dipendenti che, in occasione delle indagini relative alla cattura di un latitante, avevano segnalato la possibile complicità con quest’ultimo del loro collega Ce.To. , nonché la circostanza che i sottufficiali avessero le prove di detta complicità, servita a rivelare al pericoloso latitante la presenza di microspie installate per catturarlo e che, nonostante ne avessero messo a parte i superiori, nulla era stato fatto e, anzi, detti superiori avevano omesso o ritardato le ulteriori informative di competenza. 2. Ricorre avverso detta sentenza l’imputato con due distinte impugnative a firma dei due difensori. 3. Il ricorso dell’Avv. Nicola Mondelli, si compone di due motivi. 3.1. Il primo motivo di ricorso deduce errata imputazione e qualificazione giuridica del reato perché l’imputato era stato condannato quale autore degli articoli, mentre si trattava solo del direttore della testata e gli scritti erano di un anonimo mai individuato donde C. andava assolto per non aver commesso il fatto e gli atti trasmessi in Procura affinché si procedesse nei confronti degli autori degli articoli nonché nei riguardi del ricorrente per omesso controllo ex art. 57 c.p A quest’ultimo proposito, nel ricorso si legge che in questa sede non è possibile nè una riqualificazione nè può ritenersi che C. fosse stato chiamato a rispondere anche nella veste di direttore, perché la lettura del capo di imputazione evidenzia che l’imputato era stato tratto a giudizio come autore degli scritti. 3.2. Il secondo dei motivi di ricorso lamenta l’errata determinazione della pena per violazione dell’art. 133 c.p., per avere inflitto una pena troppo severa in rapporto alla gravità di fatti, cioè la pena detentiva di otto mesi di reclusione e non quella pecuniaria, peraltro non condizionalmente sospesa. L’inflizione di una pena detentiva assume il ricorrente sarebbe in contrasto con l’art. 10 CEDU. 4. Il ricorso sottoscritto dall’Avv. Giovanni Cadavero, consta di un solo motivo, che denunzia violazione di legge e vizio di motivazione. Esordisce il ricorrente assumendo che la sentenza impugnata non avrebbe dato riscontro ai motivi di appello. La versione dei fatti delle persone offese valorizzata dal Giudice di prime cure era capziosa, non corrispondente alla realtà e quantomeno imprecisa. A dispetto di quanto dichiarato dalle persone offese, la deposizione di cui vengono riportati stralci dei Marescialli Lu. e R. due di quelli coinvolti nel trasferimento oggetto nell’articolo aveva chiarito che le indagini per la cattura del latitante La. loro affidate avevano fatto registrare grandi progressi. A dispetto di ciò, nell’aprile 2011, il tenente Colonnello F. , in maniera del tutto autonoma, aveva istituito un altro gruppo di indagine, con a capo il Maresciallo Ce. . Il nome di quest’ultimo era però stato captato in una conversazione del omissis e ciò avrebbe reso necessario attuare un’indagine interna al Comando Provinciale al fine di comprendere se Ce. fosse coinvolto nella scoperta delle microspie a casa della compagna del latitante che intanto si era registrata. Tale inchiesta non era stata avviata e della vicenda Ce. non era stato informato il pubblico ministero della D.D.A. che si occupava delle indagini ma, anzi, il gruppo investigativo che era sulle tracce di La. era stato smantellato ciò era accaduto dopo che il Luogotenente D.C. , il Maresciallo Lu. , il Maresciallo R. e l’Appuntato G. avevano redatto un’annotazione diretta al pubblico ministero onde spiegare le ragioni del distacco delle apparecchiature intercettive. Le ragioni di opportunità che F. aveva indicato come alla base del trasferimento non erano credibili, sia quanto alla pochezza dei risultati investigativi della squadra, che alla carenza di organico che detto trasferimento sarebbe servito a fronteggiare. I trasferimenti erano provvisori, sostanzialmente declassanti e le testimonianze dei Marescialli Lu. e R. ponevano in luce come le presunte esigenze di servizio che li giustificavano fossero fittizie. I militari erano stati altresì oggetto di una sanzione disciplinare per avere interessato un avvocato allo scopo di tutelare i propri diritti ed agli stessi era stata anche sottratta, dopo i trasferimenti, l’indagine sulla morte del calciatore B. . Da tutte queste considerazioni il ricorrente fa discendere che era stato rispettato il requisito della verità della notizia, mentre l’utilizzo di un linguaggio forte era tipico del giornalismo d’inchiesta. 5. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte D.L. 17 marzo 2020, n. 18, ex art. 83, comma 12-ter, conv. con modifiche con L. 24 aprile 2020, n. 27, ha osservato che il ricorso dell’Avv. Cadavero è inammissibile siccome versato in fatto e che il ricorso dell’Avv. Mondelli è manifestamente infondato perché la giurisprudenza di questa Corte reputa la responsabilità concorsale del direttore quando risulti dimostrato che vi sia la sua consapevole adesione al contenuto dello scritto, come nel caso di specie. 6. Il 26 giugno 2020, l’Avv. Mondelli ha replicato alle conclusioni del Procuratore generale, osservando che nulla la parte pubblica aveva affermato quanto alla questione della pena detentiva applicata A questo riguardo, la parte richiama la sentenza della Corte EDU Sallusti contro Italia ed invoca, in primo luogo, la prescrizione del reato, in subordine la rimessione degli atti alla Procura di Cosenza per il diverso reato ex art. 57 c.p., e, in ulteriore subordine, la rideterminazione della pena da detentiva a pecuniaria. 7. I difensori delle parti civili Avv.ti Fabrizio Costarella per F. , Fr. e L. e Pasquale Vaccaro per Ce. hanno depositato il 9 luglio 2020, conclusioni scritte e nota spese. Considerato in diritto Il ricorso dell’Avv. Mondelli è fondato quanto al trattamento sanzionatorio, mentre l’altro motivo è inammissibile, così come è inammissibile il ricorso a firma dell’Avv. Cadavero. 1. Il primo motivo di ricorso dell’Avv. Mondelli dove si legge che l’imputato era stato erroneamente condannato quale autore degli articoli, mentre si trattava solo del direttore della testata, che, quindi, avrebbe dovuto essere assolto per non aver commesso il fatto è inammissibile per due concorrenti ragioni. 1.1. In primo luogo, la doglianza è manifestamente infondata perché muove da un presupposto errato, vale a dire che C. fosse stato condannato come autore degli articoli mentre, secondo quanto si evince dalla descrizione in fatto presente nei capi di imputazione e dalla sentenza di primo grado pag. 11 , l’imputato era stato tratto a giudizio e poi condannato non già quale autore degli scritti, ma come direttore responsabile della testata su cui detti articoli erano stati pubblicati. 1.2. Va poi anche segnalato che, a ben vedere, ciò che nel ricorso si contesta sul presupposto che la condanna sia intervenuta erroneamente reputando che C. fosse l’autore degli scritti è la riferibilità soggettiva della materiale redazione degli articoli all’imputato tanto che il ricorrente si duole della mancata assoluzione per non aver commesso il fatto . Ebbene, se questa è la censura al vaglio di questa Corte, allora non si può che concludere nel senso che, quand’anche il ricorrente fosse stato condannato come autore degli articoli, il ricorso sarebbe comunque inammissibile, giacché la questione della riferibilità soggettiva del fatto materiale imputatogli non era stata oggetto dell’appello. Non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione, infatti, questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare siccome non devolute alla sua cognizione, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o che non sarebbe stato possibile dedurre in precedenza cfr. l’art. 606 c.p.p., comma 3, quanto alla violazione di legge si vedano, con specifico riferimento al vizio di motivazione, Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316 Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 269745 Sez. 2, n. 22362 del 19/04/2013, Di Domenica . 2. È inammissibile, altresì, il motivo unico di ricorso a firma dell’Avv. Cadavero, siccome completamente versato in fatto ed aspecifico. Il Collegio precisa che la sentenza impugnata, letta in uno a quella di primo grado, ha dato conto di avere escluso la sussistenza della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca sulla scorta della mancanza del requisito della verità della notizia, che era stato travalicato laddove, accanto a notizie vere cfr. sentenza di primo grado pag. 9 , vi era anche il resoconto di accadimenti falsi, frutto di ipotesi e congetture non suffragate da alcuna fonte attendibile. Si tratta della circostanza che il Capitano L. e il Colonnello Fr. avessero confermato i sospetti su Ce. a seguito dell’ascolto dell’intercettazione in cui quest’ultimo pareva essere stato chiamato in causa dai familiari del latitante dell’esistenza, nell’ambito di una storia squallida , di omissioni , abusi , intrallazzi , accordi sottobanco della soggezione dei quattro carabinieri ad altri poteri e della loro attività tesa a screditare i loro fedeli sottoposti. Situazioni e comportamenti secondo quanto si legge nelle conformi sentenze di merito non emersi dall’istruttoria dibattimentale, che pure aveva visto l’audizione sia delle persone offese che di tre dei carabinieri in tesi danneggiati dall’operato di queste ultime. 2.1. Ebbene, di fronte a tale costrutto in fatto, il ricorso, in primo luogo, pretenderebbe da questa Corte un nuovo scrutinio di merito circa gli accadimenti interni al Comando Provinciale dei Carabinieri di Cosenza, onde riconsiderare la verità della notizia, limitandosi a riproporre, pressoché testualmente, l’atto di appello. Il ricorrente, così facendo, trascura però che questa Corte non può rivalutare i fatti storici accertati nel corso dei gradi di merito e restituiti con congrua motivazione. Come autorevolmente sancito da Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944, infatti, l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato per espressa volontà del legislatore a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali ex multis, anche Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074 Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260 . 2.2. In secondo luogo, l’impugnativa in esame manca di confrontarsi con le argomentazioni offerte dai Giudici di merito, perseguendo un proprio iter ricostruttivo che omette, tuttavia, di evidenziare falle argomentative nella sentenza impugnata. Questa impostazione pregiudica ulteriormente l’ammissibilità del ricorso va ricordato, a questo riguardo, come Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268823, abbia ribadito un concetto già accreditato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui i motivi di ricorso per cassazione sono inammissibili non solo quando risultino intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato. 3. Come anticipato, è fondato, invece, il secondo motivo del ricorso a firma dell’Avv. Mondelli, quello concernente il trattamento sanzionatorio, con particolare riferimento all’irrogazione all’imputato della pena detentiva. 3.1. A questo proposito, appare opportuno rievocare quale autorevole riferimento per un approccio costituzionalmente e convenzionalmente orientato sul tema la recentissima ordinanza n. 132 del 2020 pronunziata a seguito della camera di consiglio del 9 giugno 2020 e depositata il successivo giorno 26 della Corte Costituzionale la Consulta investita dai Tribunali di Salerno e Bari di analoghe questioni di costituzionalità dell’art. 595 c.p., comma 3 e la L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 13, con riferimento alla previsione, alternativa o cumulativa, della pena detentiva accanto a quella pecuniaria per la diffamazione aggravata a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato ha rinviato la decisione al 22 giugno 2021, spiegando che il rinvio si è imposto nell’ottica di una leale collaborazione istituzionale in attesa dell’evoluzione dei progetti di legge dedicati alla revisione della disciplina della diffamazione a mezzo della stampa, che risultano allo stato in corso di esame avanti alle Camere. Ebbene, a prescindere dalla natura interlocutoria del provvedimento, la Consulta ha tuttavia fornito, in primo luogo, alcune direttrici ermeneutiche utili all’inquadramento dei limiti della compatibilità convenzionale della previsione, per la diffamazione a mezzo stampa, anche della pena detentiva, nell’ottica del rispetto dell’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 10 della CEDU, norme intorno alle quali pur con leggere differenze di impostazione vertono prevalentemente i dubbi di costituzionalità dei Giudici rimettenti il Tribunale Di Salerno dubita anche della compatibilità con gli artt. 3, 21, 25 e 27 Cost. . La Consulta ha preso le mosse dalla rievocazione della sentenza della Grande Camera della Corte di Strasburgo del 17 dicembre 2004 Cumpn e Mazre contro Romania, concernente il ricorso di due giornalisti, condannati per diffamazione in quanto autori di un articolo nel quale accusavano di corruzione un Giudice. Nell’occasione, la Corte EDU, pur riconoscendo la legittimità dell’affermazione di responsabilità penale degli imputati i fatti erano stati distorti ed erano privi di adeguati riscontri , ritenne tuttavia che l’irrogazione nei loro confronti di una pena di sette mesi di reclusione non sospesa ancorché in concreto non eseguita per effetto di un provvedimento di grazia presidenziale costituisse un’interferenza sproporzionata con il loro diritto alla libertà di espressione, tutelata dal paragrafo 1 dell’art. 10 CEDU. Il doveroso controllo, da parte degli Stati, sull’esercizio della libertà di espressione in modo da assicurare per legge un’adeguata tutela della reputazione delle persone sostennero i Giudici di Strasburgo non può avvenire in una maniera tale da dissuadere indebitamente i media dallo svolgimento del loro ruolo di segnalare all’opinione pubblica casi apparenti o supposti di abuso dei pubblici poteri, dissuasione che può discendere dallo spettro di una sanzione detentiva, il che può riverberarsi sul giudizio di proporzionalità, e dunque di legittimità alla luce della Convenzione, di tali sanzioni. Nell’occasione, la Corte come pure ricorda la Consulta concluse che l’imposizione di una pena detentiva per un reato a mezzo stampa è compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti, garantita dall’art. 10 della Convenzione, soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente quando altri diritti fondamentali siano stati seriamente offesi, come ad esempio nel caso di diffusione di discorsi d’odio hate speech o di istigazione alla violenza . Detti principi, come pure ha avuto cura di ricordare la Corte Costituzionale, sono stati poi costantemente ribaditi dalla Corte EDU nella propria successiva giurisprudenza, ivi comprese le sentenze 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia e 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia. In tali ultime pronunce, i Giudici di Strasburgo, da un lato, hanno ritenuto legittima l’affermazione di responsabilità penale in capo ai ricorrenti da parte dei giudici italiani, stante la non veridicità e la gravità degli addebiti rivolti alle persone offese, in assenza dei doverosi controlli da parte del giornalista ovvero del direttore responsabile ma, dall’altro lato, hanno reputato sproporzionata l’inflizione nei loro confronti di una pena detentiva, ancorché condizionalmente sospesa ovvero cancellata da un provvedimento di grazia del Presidente della Repubblica. La Consulta ha, inoltre, ricordato che numerosi documenti degli organi politici del Consiglio d’Europa raccomandano agli Stati membri di rinunciare alle sanzioni detentive per il delitto di diffamazione, allo scopo di tutelare più efficacemente la libertà di espressione dei giornalisti e, correlativamente, il diritto dei cittadini a essere informati. Non è, tuttavia, solo il quadro convenzionale che va riguardato la Corte ha ricordato come il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, garantito dall’art. 21 Cost., sia coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione sentenza n. 11 del 1968 , pietra angolare dell’ordine democratico sentenza n. 84 del 1969 , cardine di democrazia nell’ordinamento generale sentenza n. 126 del 1985 e, di recente, sentenza n. 206 del 2019 . Ed è nell’ambito di tale diritto che si iscrive la libertà di stampa, quale irrinunciabile presidio per l’attuazione di un sistema democratico, che garantisce, da un lato, la libertà di espressione del giornalista e, dall’altro, il diritto all’informazione dei cittadini, assicurato dal pluralismo delle fonti informative. Se quella tracciata è la direttrice concettuale che impone di tutelare la libertà di stampa dai condizionamenti che possano derivare dal rischio della detenzione, la Consulta, con precisi riferimenti giurisprudenziali, ha anche rimarcato che tale impostazione non può però tralasciare l’esigenza di garantire la reputazione della persona, che costituisce al tempo stesso un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost., una componente essenziale del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, nonché un diritto espressamente riconosciuto dall’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. Nè può essere trascurata -si legge altresì nell’ordinanza della Corte la necessità di salvaguardare la dignità della persona, lesa dalla divulgazione di notizie false o attinenti esclusivamente alla propria vita privata. Il cuore del problema è, dunque, quello di trovare il punto di equilibrio tra la libertà di stampa, da un lato, e la tutela della reputazione individuale, dall’altro. Soluzione alla quale la legislazione attuale con la previsione in via alternativa o cumulativa, della pena detentiva e l’esegesi di legittimità sul punto con il ricorso ai criteri dell’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, della verità di essa o dell’assenza di colpa nel controllo delle fonti e della continenza formale non forniscono più a giudizio della Corte una risposta adeguata. Ciò con particolare riferimento al fatto che la giurisprudenza della Corte EDU, al di fuori di ipotesi eccezionali, considera sproporzionata l’applicazione di pene detentive, ancorché sospese o in concreto non eseguite, nei confronti di giornalisti che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui. Conclude, pertanto la Corte, sostenendo che Si impone, pertanto, una rimodulazione del bilanciamento sotteso alla disciplina in questa sede censurata, in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica, nel senso ora precisato, con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti . Ciò a maggior ragione in quanto le vittime sono oggi esposte a rischi ancora maggiori che nel passato. Basti pensare, in proposito, agli effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet, il cui carattere lesivo per la vittima in termini di sofferenza psicologica e di concreti pregiudizi alla propria vita privata, familiare, sociale, professionale, politica e per tutte le persone a essa affettivamente legate risulta grandemente potenziato rispetto a quanto accadeva anche solo in un recente passato . Il compito di individuare complessive strategie sanzionatorie che raggiungano l’indicato punto di equilibrio tra esigenze contrapposte è, prima di tutto del legislatore in questo quadro, la Consulta auspica la previsione di sanzioni penali non detentive, di rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati come, in primis, l’obbligo di rettifica e di efficaci misure di carattere disciplinare. Quanto al ricorso alla pena detentiva, l’auspicio ne contempla l’utilizzo solo per quelle condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio . 3.2. Ebbene, al di là della leale collaborazione istituzionale con il Parlamento nell’ambito della quale si colloca la pronunzia interlocutoria in discorso, è evidente che essa fornisce una traccia esegetica di grande rilievo, che non può essere trascurata nell’ottica di una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata del tema del trattamento sanzionatorio agitato dal ricorrente. Secondo la direttrice segnata dal quadro normativo e da quello giurisprudenziale evocato dalla Consulta ed in attesa delle determinazioni del legislatore e di quelle, eventuali, della Consulta stessa, allo stato la scelta di applicare la pena detentiva non può che passare per la valutazione della portata delle condotte diffamatorie addebitate all’imputato ciò allo scopo di apprezzarne o meno l’ eccezionale gravità così come delineata dai precedenti sopra riportati, in presenza della quale sarebbe consentita l’applicazione della pena detentiva. Se questa è la valutazione a farsi, è evidente che si tratta di una decisione che, implicando giudizi concernenti il merito della regiudicanda, spetta al Giudice di merito, il quale dovrà decidere se la meritevolezza della pena detentiva, peraltro non condizionalmente sospesa, discenda dall’inquadramento delle notizie divulgate dagli articoli pubblicati e reputate diffamatorie nell’ambito di quelle di particolare gravità per cui potrebbe ancora trovare applicazione la reclusione. In caso contrario, eventualmente esercitando i poteri di ufficio ex art. 597 c.p.p., u.c., il Giudice del rinvio dovrà rimodulare il trattamento sanzionatorio. 4. Il governo delle spese sostenute nel grado dalle parti civili è rinviato alla definizione del giudizio. P.Q.M. annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro. Spese delle pc al definitivo.