Pressioni sulla persona che ha acquistato all’asta l’immobile: condannato per violenza privata

Esclusa l’ipotesi più grave, cioè quella dell’estorsione. Nessun dubbio, però, sulla condanna di colui che ha minacciato il nuovo proprietario dell’immobile per costringerlo a cederlo a lui in tempi rapidi.

Pressioni e minacce per riuscire a riavere l’immobile messo all’asta. Esclusa l’ipotesi dell’estorsione, è indiscutibile la condanna per il reato di violenza privata. Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 26218, depositata oggi . Casus belli è una casa. L’acquirente viene avvicinato da un soggetto che lo minaccia per convincerlo a rivendergliela. Si scoprirà poi che quella persona aveva firmato tempo prima un contratto preliminare con una società di costruzioni per quell’immobile, pagando 50milioni di lire e spendendo 80milioni di lire per la ristrutturazione , ma il contratto era stato poi risolto dopo che la società era stata dichiarata fallita . Difficile da digerire l’idea di vedere venduta ad altri un immobile per cui si sono spesi ben 130milioni di lire. Ecco spiegata la reazione rabbiosa della persona che avvicina il nuovo proprietario e pretende di acquistare a sua volta la casa. Inequivocabile la frase incriminata mi devi dare la casa, altrimenti quanto prima ti succede qualcosa di grave a te e a tuo figlio”. Inevitabili la segnalazione dell’episodio, la denuncia e il susseguente processo. In primo grado i Giudici condannano l’uomo sotto processo per tentata estorsione . In secondo grado però viene adottata una linea meno dura i Giudici ridimensionano la condotta in esame e optano per una condanna per mera violenza privata , con annessa pena meno severa. Nonostante la parziale vittoria in Appello, comunque, l’attuale ricorrente decide di portare la questione in Cassazione. E tramite il proprio avvocato egli sostiene che la frase pronunziata nei confronti del nuovo proprietario della casa era inidonea a coartarne la volontà poiché non ne aveva influenzato in modo apprezzabile la capacità di autodeterminazione, né aveva limitato la sua libertà di movimento o influenzato il processo formativo della sua volontà, né aveva prodotto un evento significativo . A sostegno di questa visione il legale aggiunge poi che la persona offesa aveva sporto denunzia solo a seguito di sollecitazione del giudice delegato . Per i Giudici del Palazzaccio, però, la valutazione tracciata in Appello è assolutamente corretta. In primo luogo, per quanto concerne il presunto mancato vulnus alla capacità di autodeterminazione della persona offesa alla luce del fatto che ella ha presentato denunzia su consiglio del giudice delegato , i magistrati ribattono che questo elemento non basta per sostenere che la minaccia subita – mi devi dare la casa, altrimenti quanto prima ti succede qualcosa di grave a te e a tuo figlio” – non fosse idonea a costringere la persona offesa ad assecondare le pressioni provenienti dal ricorrente. Impossibile escludere l’ipotesi della violenza privata . Ciò perché vi è stata una minaccia non già fine a sé stessa, ma diretta ad ottenere che la vittima compisse, in virtù della pressione subita, un’azione come frutto della coartazione, vale a dire quella della rivendita dell’immobile , sottolineano i magistrati.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 20 luglio – 17 settembre 2020, numero 26218 Presidente Catena – Relatore Borrelli Ritenuto in fatto 1. La sentenza impugnata è stata emessa il 12 marzo 2019 dalla Corte di appello di Palermo, che ha riformato la decisione con cui il Tribunale di Sciacca aveva condannato Anumero Be. per tentata estorsione ai danni di Al. e Gi. Pr., minacciati per costringerli a rivendergli l'appartamento che Gi. Pr. aveva acquistato ad un'asta presso il Tribunale di Sciacca la frase attribuita all'imputato è mi devi dare la casa, altrimenti quanto prima ti succede qualcosa di grave a te e a tuo figlio , così la sentenza di primo grado tale appartamento era stato oggetto di un contratto preliminare tra la Safra Costruzioni s.r.l. e l'imputato per cui Be. aveva pagato 50 milioni di lire, oltre ad aver speso 80 milioni per la ristrutturazione , che era stato poi risolto dal curatore dopo che la Safra era stata dichiarata fallita. La riforma in appello è consistita nella riqualificazione del reato in tentata violenza privata, con conseguente rimodulazione in mitius del trattamento sanzionatorio. 2. Ricorre avverso detta sentenza il difensore di fiducia dell'imputato, formulando due motivi. 2.1. Il primo motivo di ricorso denunzia vizio di motivazione sub specie di travisamento della prova. Citando un precedente di questa sezione, il ricorrente assume che la frase pronunziata nei confronti del Pr. sarebbe inidonea a coartare la volontà della persona offesa, giacché non ne aveva influenzato in modo apprezzabile la capacità di autodeterminazione, né aveva prodotto un evento significativo, con conseguente esclusione della materialità del fatto. A comprova di ciò, il ricorrente rappresenta che la persona offesa aveva sporto denunzia solo a seguito di sollecitazione del Giudice delegato. 2.2. Il secondo motivo di ricorso postula la maturazione del termine prescrizionale. 3. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte ex articolo 83, comma 12-ter D.L. 17 marzo 2020, numero 18, conv. con modifiche con L. 24 aprile 2020, numero 27 , ha denunziato l'inammissibilità del ricorso, sostenendo, in particolare, che - il primo motivo di ricorso è generico, aspecifico e manifestamente infondato perché la Corte di merito ha ampiamente argomentato circa le ragioni della diversa qualificazione giuridica attribuita al fatto, mentre le doglianze della parte si limitano ad una censura generica e versata in fatto - la prescrizione non sarebbe maturata, dovendo tenersi conto anche della recidiva, ancorché ritenuta subvalente rectius equivalente rispetto alle circostanze attenuanti generiche. 4. Il 14 luglio 2020, l'Avv. Antonino Augello ha trasmesso conclusioni scritte ex articolo 83, comma 12-ter cit., sostenendo che la frase attribuita all'imputato era assolutamente inidonea a limitare la libertà di movimento o ad influenzare il processo formativo della volontà della persona offesa ed ha ribadito che il reato ritenuto dai giudici di merito sarebbe prescritto, data la neutralità della recidiva, siccome ritenuta subvalente citando, a quest'ultimo proposito, Sezioni Unite numero 20808 del 2019 . Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile. 1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato e generico. In primo luogo, il ricorrente - asserendo di non avere influenzato in modo apprezzabile la capacità di autodeterminazione della vittima e di non aver prodotto un evento significativo - trascura di considerare che la fattispecie ritenuta dalla Corte di appello è una tentata violenza privata, in cui l'evento oggetto della costrizione nei confronti della vittima è fuori dal paradigma della fattispecie, proprio perché tentata. Per il resto, la censura appare generica quanto al mancato vulnus alla capacità di autodeterminazione del soggetto, dal momento che la circostanza che Al. Pr. abbia presentato denunzia su consiglio del Giudice delegato non significa che la minaccia subita - Mi devi dare la casa, altrimenti quanto prima ti succede qualcosa di grave a te e a tuo figlio - non fosse idonea a costringerlo ad assecondare le pressioni provenienti dall'imputato. Non è pertinente, infine, la citazione giurisprudenziale che si legge nel ricorso Sez. 5, numero 10360 del 4.2.19 , giacché, nella specie, la Corte di cassazione aveva escluso la sussistenza del reato di violenza privata - sulla sola scorta della mancanza di un'apprezzabile vulnus alla capacità di autodeterminazione della persona offesa e dell'assenza di un quid ulteriore cui l'azione violenta era teso - in relazione ad un fatto completamente diverso, vale a dire un'azione, durata tre o quattro secondi, in cui l'imputato aveva separato due manifestanti e che si era risolta, appunto, in tale separazione. Nel nostro caso, invece, vi è stata una minaccia non già fine a se stessa, ma diretta ad ottenere che la vittima compisse, in virtù della pressione subita, un'azione come frutto della coartazione, vale a dire quella della rivendita dell'immobile all'imputato. 2. Il secondo motivo di ricorso - che postula la maturazione del termine prescrizionale - è manifestamente infondato. In primo luogo si sottolinea che il ricorso è, sul punto, assolutamente generico, laddove non individua quando l'invocata prescrizione sarebbe maturata ciò rileva a fortiori laddove, data l'inammissibilità dell'altro motivo di ricorso, intanto la prescrizione avrebbe rilievo, in quanto maturata prima della pronunzia della sentenza di appello. Ad ogni buon conto il Collegio ritiene che la prescrizione, ad oggi, non sia ancora maturata. Il termine prescrizionale massimo è, infatti, di dieci anni, ottenuto aumentando di due terzi quello di sei anni di cui all'articolo 157 comma, 1 cod. penumero cui occorre fare riferimento per la determinazione del termine ordinario, dato che il delitto di tentata violenza privata prevede una pena che si colloca al di sotto del tetto minimo di sei anni . L'aumento di due terzi per le interruzioni è, infatti, collegato al riconoscimento, in capo all'imputato, della recidiva reiterata, il che impone l'applicazione del secondo comma dell'articolo 161 cod. proc. penumero Non coglie nel segno l'argomentazione che il ricorrente ha speso nelle conclusioni scritte ex articolo 83, comma 12-ter D.L. 17 marzo 2020, numero 18, conv. con modifiche con I. 24 aprile 2020, numero 27, quando ha sostenuto che la recidiva non andrebbe considerata, in quanto reputata subvalente dai giudici di merito. Tale dato, infatti, non corrisponde alla realtà processuale, laddove la recidiva è stata ritenuta solo equivalente alle attenuanti donde non trova applicazione il dictum delle evocate Sezioni Unite Schettino, circa la neutralizzazione degli effetti secondari della recidiva - ivi compreso quello concernente la determinazione del tempo necessario a prescrivere - quando quest'ultima sia reputata minusvalente rispetto alle attenuanti Sez. U, numero 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Rv. 275319 . 3. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. penumero come modificato ex. I. 23 giugno 2017, numero 103 , al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere la parte in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte cost. 13/6/2000 numero 186 . P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.