Continuazione tra reati e termine di durata della custodia cautelare

In caso di condanna non ancora definitiva per reato considerato come unito per continuazione ad un altro per il quale vi sia già stata condanna irrevocabile, non può considerarsi come custodia cautelare, ai fini del non superamento dei termini di durata massima previsti dal comma 4 dell’art. 303 c.p.p., la privazione della libertà sofferta in espiazione della pena a suo tempo inflitta con la condanna irrevocabile.

Così ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 24025/20, depositata il 24 agosto. Una parte domandava la declaratoria dell’ estinzione della misura della custodia cautelare in carcere pe avvenuto decorso dei termini di durata e la richiesta veniva rigettata. Avverso la decisione questi ricorreva innanzi alla Corte di Cassazione lamentando che, per effetto del riconoscimento della continuazione tra reati già giudicati con sentenza dalla Corte d’Appello, tutti i reati avvinti dal vincolo della continuazione andavano considerati come unico reato al quale corrispondeva un unico termine di durata della custodia cautelare già patito per i fatti giudicati con precedenti sentenze. La Cassazione, ritenendo infondato il ricorso, ha chiarito che ai fini del computo della fungibilità della pena di cui all’art. 657 c.p.p., comma 4, nel caso di riconoscimento della continuazione tra reati commessi e giudicati in tempi diversi , l’esecuzione di pena o custodia cautelare avvenuta per uno di essi è valutata con esclusivo riferimento al singolo reato cui detta esecuzione si riferisce e non al trattamento determinato per effetto della continuazione. Pertanto, quando è applicata la continuazione tra reati commessi e giudicati in tempi diversi e per uno dei quali vi è stata esecuzione di pena o custodia cautelare, quest’ultima, nel giudizio di fungibilità, è valutata con riferimento al reato per il quale è stata applicata , in modo autonomo rispetto al trattamento determinato dalla continuazione. Ciò perché, altrimenti, sarebbe violato il principio - sancito dall’art. 657 c.p.p., comma 4, - di non consentire ad alcuno di fruire di crediti di pena che possano agevolare la commissione di fatti criminosi nella consapevolezza della assenza di conseguenze sanzionatorie. Il principio è dettato dall’esigenza di non consentire la precostituzione di riserve di impunità e deve ritenersi operante anche nella fase cautelare, non potendo consentirsi di imputare il periodo di custodia cautelare già sofferto a fatti commessi successivamente a tale periodo . Pertanto, la Suprema Corte sottolinea che, ai fini del termine di durata della custodia cautelare, non è possibile imputare il periodo di custodia cautelare già sofferto ad un reato commesso successivamente, anche quando i due reati siano legati dal vincolo della continuazione. A conferma di questo occorre tenere conto della giurisprudenza secondo cui il riconoscimento della continuazione tra più reati in sede esecutiva , con la conseguente determinazione di una pena complessiva inferiore a quella risultante dal cumulo materiale, non comporta che la differenza così formatasi sia automaticamente imputata alla detenzione da eseguire . Infine, in caso di condanna non ancora definitiva per reato considerato come unito per continuazione ad altro per il quale vi sia già stata condanna irrevocabile , non può considerarsi come custodia cautelare , ai fini del non superamento dei termini di durata massima previsti dall’art. 303 c.p.p., comma 4, la privazione della libertà sofferta in espiazione della pena a suo tempo inflitta con la condanna irrevocabile. Alla luce di questo il ricorso viene rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Feriale Penale, sentenza 20 – 24 agosto 2020, n. 24025 Presidente Messini D’Agostini – Relatore Romano Ritenuto in fatto 1. Con la ordinanza in epigrafe il Tribunale del riesame di Napoli ha rigettato l’appello proposto da F.P. avverso l’ordinanza del 4 marzo 2020 con la quale la Corte di appello di Napoli ha rigettato l’istanza del predetto di declaratoria dell’estinzione della misura della custodia cautelare in carcere in conseguenza dell’avvenuto decorso dei termini di durata di cui all’art. 303 c.p.p., comma 4, lett. b e art. 304 c.p.p., comma 6. 1.1. Difatti, con istanza del 17 febbraio 2020 il F. ha evidenziato che con sentenza della Corte di appello di Napoli del 18 dicembre 2018, non ancora definitiva, in parziale riforma della sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli del 22 giugno 2017, egli è stato riconosciuto colpevole del reato di cui all’art. 416-bis c.p. e, ritenuta la continuazione con altri reati per i quali è stato condannato con sentenza della Corte di appello di Napoli del 10 dicembre 2010 ormai passata in giudicato - tra i quali anche quello di cui all’art. 416-bis c.p. -, la pena complessiva è stata fissata in anni dodici di reclusione. Egli ha sostenuto che, poiché in relazione al processo conclusosi con la sentenza della Corte di appello di Napoli del 10 dicembre 2010 egli aveva sofferto un periodo di custodia cautelare di anni due, mesi nove e giorni dieci, mentre in relazione al processo ancora pendente il periodo di custodia cautelare sofferto era di anni tre e mesi cinque circa, il periodo di custodia complessivamente subito in relazione al reato continuato era pari ad anni sei e mesi due, superiore al limite massimo di cui all’art. 304 c.p.p., comma 6, che è di anni sei. 1.2. Con ordinanza del 4 marzo 2020 la Corte di appello di Napoli ha rigettato l’istanza evidenziando che con la sentenza della Corte di appello di Napoli del 10 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 27 aprile 2011, l’imputato era stato condannato per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. capo a commesso sino al omissis e per il delitto di estorsione aggravato sia ai sensi dell’art. 629 c.p., comma 2, sia ai sensi del L. n. 203 del 1991, art. 7 capo b e poiché la precedente condanna per il delitto associativo si riferiva ad un periodo anteriore a quello per il quale ancora pendeva processo, non era possibile retrodatare il termine di decorrenza della custodia cautelare sofferta nel processo ancora pendente al momento in cui era stata emessa la prima ordinanza. 1.3. Avverso detta ordinanza ha proposto appello ai sensi dell’art. 310 c.p.p. il difensore del F. deducendo che la Corte di appello ha trascurato gli effetti del riconoscimento del vincolo della continuazione con i reati per i quali il F. era stato già condannato con la sentenza del 2010. Tale riconoscimento, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite Sez. U, n. 3286 del 27/11/2008 - dep. 2009, Chiodi, Rv. 241755 , comporta che il reato continuato deve essere considerato unitariamente per gli effetti espressamente previsti dalla legge, come quello relativo alla pena, mentre per tutti gli altri effetti non espressamente previsti la considerazione unitaria può essere ammessa esclusivamente a condizione che essa garantisca un risultato favorevole al reo. Anche nel caso di specie i vari reati per i quali il F. era stato giudicato separatamente ed erano stati ritenuti legati dal vincolo della continuazione dovevano essere considerati come un unico reato al quale corrispondeva un unico termine di durata massima della custodia cautelare che, sommando i due periodi sofferti nei due procedimenti penali, risultava interamente decorso. 1.4. Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Tribunale del riesame ha rigettato l’impugnazione del F. osservando per i fatti per i quali il F. era stato giudicato con la sentenza della Corte di appello di Napoli del 10 dicembre 2010 nessuna misura cautelare era più in corso di esecuzione, mentre in tema di durata della custodia cautelare, ai fini della individuazione dei termini, in caso di condanna per più reati avvinti dal vincolo della continuazione, occorreva avere riguardo alla pena complessiva, purché per gli stessi fosse ancora in corso la misura coercitiva Sez. U, n. 23381 del 31/05/2007, Keci, Rv. 236393 , situazione, questa, che non ricorreva nel caso di specie. In particolare, il Tribunale del riesame ha evidenziato che, ai fini della durata della custodia cautelare, era necessario che la misura cautelare fosse ancora in atto al momento della proposizione dell’istanza. Ai fini della decorrenza del termine di durata della custodia cautelare doveva farsi riferimento a quello di inizio di esecuzione della misura della custodia cautelare ancora in essere, ovvero quella per i fatti giudicati con la sentenza della Corte di appello di Napoli del 18 dicembre 2018, e quindi alla data del 28 settembre 2016, con la conseguenza che il termine non risultava ancora decorso. 2. Avverso quest’ultima ordinanza ha proposto ricorso F.P. , a mezzo del suo difensore, chiedendone l’annullamento ed affidandosi ad un unico motivo con il quale lamenta la violazione dell’art. 303 c.p.p., comma 4, lett. b , art. 304 c.p.p., comma 6 e art. 310 c.p.p., tornando a ribadire che, per effetto del riconoscimento della continuazione tra i reati già giudicati con sentenza della Corte di appello di Napoli del 10 dicembre 2010 e quelli per i quali è stata emessa la sentenza della stessa Corte di appello del 18 dicembre 2018, tutti i reati avvinti dal vincolo della continuazione andavano considerati come un unico reato al quale, per il principio del favor rei, corrispondeva un unico termine di durata della custodia cautelare, cosicché, sommando il periodo di custodia cautelare già patito per i fatti giudicati con la sentenza del 2010 a quello sofferto in relazione al reato giudicato con sentenza del 2018, si superava il termine massimo di durata della misura cautelare, pari ad anni sei. Ha pure aggiunto che l’argomento utilizzato dal Tribunale del riesame per rigettare la sua impugnazione non è condivisibile alla luce del principio, affermato dalle Sezioni Unite Sez. U. n. 23166 del 28 maggio 2020, Mazzitelli , secondo il quale la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, deve essere effettuata computando l’intera durata della custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee. Ha sostenuto che, nonostante il differente ambito di applicazione pratica, ossia le contestazioni a catena e non il termine di durata massima della custodia cautelare, da tale pronuncia si ricava che è possibile frazionare i periodi di carcerazione sofferti ed imputarli anche a fasi non omogenee, il che confermerebbe l’esattezza dell’impostazione difensiva alla base della istanza avanzata alla Corte di appello. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato. 2. Ai fini della decisione occorre innanzitutto chiarire che l’istanza avanzata da F.P. alla Corte di appello non si fonda sul fenomeno delle c.d. contestazioni a catena, disciplinato dall’art. 297 c.p.p., comma 3, come modificato per effetto delle sentenze della Corte costituzionale n. 408 del 3 novembre 2005 e n. 233 del 22 luglio 2011. Tale disposizione prevede, in caso di emissione di più ordinanze applicative di misure cautelari nei confronti dello stesso soggetto, la retrodatazione del termine iniziale di durata massima della misura cautelare applicato con la seconda ordinanza a quello in cui è stata eseguita o notificata la prima, sempre che i fatti per i quali è stata emessa la seconda ordinanza fossero già desumibili dagli atti al momento dell’emissione della prima ordinanza. Le Sezioni Unite Sez. U. n. 23166 del 28 maggio 2020, Mazzitelli hanno recentemente affermato che la retrodatazione mira ad evitare, in perfetta aderenza con i valori di certezza e di durata minima della custodia cautelare, che la rigorosa predeterminazione dei termini di durata massima delle misure cautelari possa essere elusa tramite la diluizione nel tempo di più provvedimenti restrittivi nei confronti della stessa persona, con il conseguente impedimento al contemporaneo decorso dei termini relativi a plurimi titoli custodiali nei confronti del medesimo soggetto. Mediante il ritardo nell’adozione della seconda ordinanza cautelare ed in assenza del correttivo previsto dall’art. 297 c.p.p., comma 3, si determinerebbe l’indebita espansione della restrizione complessiva della libertà personale dell’imputato, tramite il cumulo materiale - totale o parziale dei periodi di custodia afferenti a ciascun reato. Effetto che non si verificherebbe, invece, qualora l’indagato, pur versando nella medesima situazione sostanziale, fosse stato raggiunto da provvedimenti cautelari coevi . Del resto, il F. non ha chiesto la retrodatazione del termine dal quale far decorrere la durata della misura cautelare applicata per i fatti giudicati con la sentenza del 18 dicembre 2018 alla data in cui è stata eseguita l’ordinanza di custodia cautelare emessa per i fatti giudicati con la sentenza del 10 dicembre 2010, ma si è limitato a chiedere di sommare i due periodi di custodia cautelare sofferti nell’ambito dei due processi, sostenendo che all’unitarietà del reato continuato debba corrispondere un unico termine di durata massima della custodia cautelare al quale imputare entrambi i suddetti periodi. Anche quando il F. nel suo ricorso per cassazione invoca il principio affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza Mazzitelli, egli fa riferimento ad esso riconoscendone il differente ambito di applicazione pratica , ossia l’art. 297 c.p.p. e non gli artt. 303 e 304 c.p.p Del resto, l’istanza del F. , laddove fosse stata basata sul disposto dell’art. 297 c.p.p., comma 3, sarebbe risultata manifestamente infondata, laddove si consideri che con la sentenza del 18 dicembre 2018 il F. è stato condannato per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. commesso quanto meno sino al mese di agosto del 2014 vedi pag. 26 della sentenza di secondo grado , cosicché il fatto giudicato con questa sentenza, in quanto successivo, certamente non poteva essere desunto dagli atti alla data di emissione dell’ordinanza applicativa della custodia cautelare emessa per i fatti poi giudicati con la sentenza del 10 dicembre 2010. 3. L’istanza del F. , che, invece, poggia unicamente sulla unitarietà del reato continuato alla quale dovrebbe corrispondere un unico termine di durata massima della custodia cautelare al quale imputare entrambi periodi di custodia cautelare sofferti nell’ambito dei due processi, è comunque infondata. Deve considerarsi che i termini di durata massima della custodia cautelare sono stati fissati in attuazione dell’art. 13 Cost., comma 5, e allo scopo di assicurare effettività alla regola, fissata dall’art. 27 Cost., comma 2, secondo la quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Onde evitare che la custodia in carcere si trasformi in una espiazione anticipata della pena, il legislatore ha fissato dei limiti temporali alla sua durata, in modo da impedire che sia stravolta la sua funzione cautelare. Laddove l’imputato venga condannato, la custodia cautelare sofferta dovrà essere detratta dalla entità della pena inflitta, al fine di determinare l’entità della pena residua da eseguire. Tuttavia, ai sensi dell’art. 657 c.p.p., comma 4, in ogni caso sono computate solo la custodia cautelare subita o le pene espiate dopo la commissione del reato per il quale deve essere determinata la pena da eseguire. Costituisce principio del tutto pacifico che, in ogni ipotesi in cui debba valutarsi la fungibilità della pena ingiustamente espiata al fine della decorrenza di diversa sanzione, il presupposto da verificare per l’eseguibilità dello scomputo è la precedente consumazione del reato in relazione al quale la sanzione deve essere nel concreto applicata. Tale principio opera anche in relazione al reato continuato. Ai fini del computo della fungibilità della pena di cui all’art. 657 c.p.p., comma 4, nel caso di riconoscimento della continuazione tra reati commessi e giudicati in tempi diversi, l’esecuzione di pena o custodia cautelare avvenuta per uno di essi è valutata con esclusivo riferimento al singolo reato cui detta esecuzione si riferisce e non al trattamento determinato per effetto della continuazione Sez. 1, n. 18308 del 23/02/2018, Iannicelli, Rv. 273133, che ha affermato che, quanto al calcolo della pena complessiva da espiare, occorre sottrarre il presofferto per i reati-satellite uniti in continuazione al reato più grave successivo nei limiti del minor periodo corrispondente all’aumento di pena rispetto ad essi applicato . Pertanto, quando è applicata la continuazione tra reati commessi e giudicati in tempi diversi e per uno dei quali vi è stata esecuzione di pena o custodia cautelare, quest’ultima, nel giudizio di fungibilità, è valutata con riferimento al reato per il quale è stata applicata, in modo autonomo rispetto al trattamento determinato dalla continuazione. Ciò perché, altrimenti, sarebbe violato il principio - sancito dall’art. 657 c.p.p., comma 4, - di non consentire ad alcuno di fruire di crediti di pena che possano agevolare la commissione di fatti criminosi nella consapevolezza della assenza di conseguenze sanzionatorie Sez. 1, n. 5537 del 11/11/1998 - dep. 1999, Cartillone G, Rv. 212215, che ha ritenuto corretta la decisione del giudice della esecuzione che aveva calcolato in favore del condannato non l’intero periodo di detenzione subito per i reati minori, ma soltanto il minor periodo corrispondente all’aumento di pena per essi applicato in sede di continuazione con un reato più grave successivamente commesso . Il principio è dettato dall’esigenza di non consentire la precostituzione di riserve di impunità e deve ritenersi operante anche nella fase cautelare, non potendo consentirsi di imputare il periodo di custodia cautelare già sofferto a fatti commessi successivamente a tale periodo. Diversamente ragionando, laddove un soggetto venga sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere e questa sia poi venuta meno per decorrenza dei termini di durata massima, egli non potrà essere nuovamente sottoposto alla stessa misura per altro reato meno grave commesso in continuazione con quello per il quale ha già subito la misura custodiale, poiché, attraverso la imputazione al reato commesso successivamente della custodia già sofferta in precedenza, il termine di durata massima risulta per ciò stesso già decorso. Deve, quindi, concludersi che, ai fini del termine di durata della custodia cautelare, non è possibile imputare il periodo di custodia cautelare già sofferto ad un reato commesso successivamente, anche quando i due reati siano legati dal vincolo della continuazione. Ne è conferma la giurisprudenza di questa Corte che in più occasioni ha affermato che il riconoscimento della continuazione tra più reati in sede esecutiva, con la conseguente determinazione di una pena complessiva inferiore a quella risultante dal cumulo materiale, non comporta che la differenza così formatasi sia automaticamente imputata alla detenzione da eseguire, operando anche in detta eventualità il disposto dell’art. 657 c.p.p., comma 4, per cui a tal fine vanno computate solo custodia cautelare sofferta e pene espiate sine titulo dopo la commissione del reato, e dovendosi conseguentemente scindere il reato continuato nelle singole violazioni che lo compongono Sez. 1, n. 45259 del 27/09/2013, Sapia, Rv. 257618 vedi anche Sez. 1, n. 13646 del 12/02/2019, Cammareri, Rv. 275327 Sez. 6, n. 48644 del 27/09/2017, Iamonte, Rv. 271651 . Ad identiche conclusioni questa Corte è pervenuta anche quando il vincolo della continuazione sia stato riconosciuto dal giudice della cognizione tra reati già giudicati e reati da giudicare. Recentemente questa Corte di cassazione ha affermato, in tema di perdita di efficacia della custodia cautelare ai sensi dell’art. 300 c.p.p., comma 4, che nel caso in cui la sentenza di condanna riconosca il vincolo della continuazione tra più violazioni dell’art. 416-bis c.p., individuando la più grave in quella per la quale è in corso di esecuzione la misura cautelare e il reato satellite in una violazione per la quale l’imputato è stato condannato con sentenza irrevocabile ad una pena già espiata, il credito di pena determinato dall’applicazione del cumulo giuridico ex art. 81 c.p., comma 2, in luogo del cumulo materiale, non può essere imputato alla durata della custodia cautelare in atto per la violazione più grave, in assenza dei presupposti di cui all’art. 657 c.p.p., comma 4, Sez. 5, n. 33230 del 16/05/2019, Capizzi, Rv. 277001, relativa a fattispecie nella quale, avendo l’imputato espiato la pena irrogata per il reato satellite in epoca anteriore alla data di consumazione della condotta associativa dedotta nel titolo cautelare in corso, la Corte ha escluso l’applicazione del principio di fungibilità, che attiene unicamente alla custodia cautelare o alle pene espiate sine titulo dopo la commissione del reato in tal senso anche Sez. 4, n. 27467 del 09/04/2019, D’Ambrogio, Rv. 277447 . Peraltro, questa Corte di cassazione già in passato aveva affermato che in caso di condanna non ancora definitiva per reato considerato come unito per continuazione ad altro per il quale vi sia già stata condanna irrevocabile, non può considerarsi come custodia cautelare , ai fini del non superamento dei termini di durata massima previsti dall’art. 303 c.p.p., comma 4, la privazione della libertà sofferta in espiazione della pena a suo tempo inflitta con la condanna irrevocabile Sez. 1, n. 1976 del 26/03/1996, Anobile, Rv. 204593 . Ne consegue che, ai fini della decorrenza del termine di durata massima della custodia cautelare applicata al F. per i fatti per i quali egli è stato condannato con sentenza del 18 dicembre 2018, non può tenersi conto del periodo di custodia cautelare già sofferto per i fatti per i quali egli è stato condannato con la sentenza del 10 dicembre 2010. 4. La tesi sostenuta dal ricorrente non può trovare conforto nei principi affermati dalle Sezioni Unite nella recentissima sentenza Mazzitelli sopra citata. È ben vero che in detta sentenza si afferma che la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, deve essere effettuata computando l’intera durata della custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee. Neppure si disconosce che nella stessa sentenza si richiama il dictum della sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 22 luglio 2011 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 297 c.p.p., comma 3, nella parte in cui, con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi, non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente alla adozione della seguente ordinanza. In particolare, per effetto della sentenza della Corte costituzionale appena citata, risulta possibile applicare il disposto dell’art. 297 c.p.p., comma 3, anche quando per taluno dei reati la misura cautelare non sia più in corso di esecuzione. Tuttavia, i principi sopra affermati operano laddove ricorrano gli altri presupposti indicati dall’art. 297 c.p.p., comma 3, tra i quali spicca la possibilità di desumere il fatto contestato con la seconda ordinanza di custodia cautelare dagli atti del procedimento nel momento in cui è stata emessa la prima ordinanza applicativa della misura, il che necessariamente richiede che i fatti oggetto dell’ordinanza rispetto alla quale operare la retrodatazione siano stati commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza coercitiva. Tale condizione non sussiste nel caso di specie. Tale presupposto esclude che in relazione al fenomeno delle contestazioni a catena possa entrare in gioco il principio ispiratore dell’art. 657 c.p.p., comma 4. 5. Concludendo, il ricorso deve essere rigettato. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., comma 1, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.