Confisca di prevenzione in relazione a reati a circuito mafioso: la (cedevole) tutela del terzo estromesso dal giudizio

La confisca di prevenzione di un complesso aziendale non può essere disposta, in ragione del carattere unitario del bene che ne è oggetto, con limitazione alle componenti di provenienza illecita, specialmente ove l’intera attività di una determinata impresa sia stata agevolata dalla cointeressenza con organizzazioni criminali di tipo mafioso.

È quanto ha stabilito, insieme ad ulteriori principi dirimenti, la I sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11666/20, depositata in cancelleria l’8 aprile. Associazione di stampo mafioso confisca di prevenzione delle società del prestanome”. Nel caso di specie, in seno ad un procedimento penale per vari reati di traffico di stupefacenti e criminalità organizzata, è stata disposta, a carico di un imprenditore assunto prestanome , la confisca di prevenzione - disposta nella vigenza dell’art. 3- qiunquies l. n. 575/1965 - del capitale sociale e dell’intero compendio aziendale di ben quattro società di capitali. Avverso il provvedimento è stato dapprima proposto ricorso dinanzi al Tribunale, sezione misure di prevenzione, il quale, tuttavia, ha rigettato la richiesta di annullare la misura negativa. Tanto ha confermato la Corte d’appello, adita in sede di gravame dalla difesa. Per entrambi i giudici, infatti, la circostanza che il formale titolare dei beni confiscati i.e. l’imprenditore ricorrente non avesse preso parte al primo grado del giudizio di prevenzione non sarebbe risultata circostanza utile alla invalidazione del provvedimento assunto nell’ottica di congelare i beni riconducibili a una nota cosca mafiosa. La decisione è stata infine contestata dinanzi agli Ermellini, ai quali è stata reiterata la richiesta già avanzata dinanzi ai giudici del merito. In particolare, in sede di legittimità è stata ribadita l’assunta violazione dell’artt. 2 e 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo CEDU , proprio in ragione dell’omessa partecipazione al giudizio, insistendo per la riapertura del processo. A detta del ricorrente, i Giudici del merito avrebbero altresì violato ulteriori previsioni della medesima Convenzione artt. 1 e 7 oltre che della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2014/42/CE del 3 aprile 2014 nelle parti in cui si assicura protezione al diritto di proprietà in riferimento all’esigenza di evitare confusione tra proventi del reato e beni di origine legittima, essendo possibile l’ablazione soltanto di quelli di provenienza illecita. Ebbene, non una delle censure sopra sintetizzate hanno incontrato l’accoglimento del ‘Palazzaccio’. Estromissione del terzo non invalidante. In relazione alla prima censura, la Cassazione ha ribadito che, con riferimento al quadro normativo applicabile ratione temportis , la mancata citazione del procedimento finalizzato all’applicazione di misura di prevenzione del terzo interessato non invalida il rapporto processuale, non pregiudica l’applicazione della misura disposta e non determina nemmeno la nullità degli atti compiuti . Al terzo pretermesso, invero, è riconosciuta sia la facoltà di prendere parte al processo mediante la costituzione volontaria, sia di esplicare le sue difese in sede di incidente di esecuzione, quale persona assoggettata, di riflesso, all’esecuzione della misura disposta nei confronti del proposto, con l’ulteriore possibilità di proporre ricorso per cassazione avverso l’ordinanza all’esito dell’incidente medesimo. Insomma - secondo i Giudici romani - resta escluso, con riferimento al citato quadro normativo applicabile, che la partecipazione del terzo al processo di prevenzione abbia rappresentato un presupposto indefettibile per la sua valida celebrazione all’epoca . All’uopo – si spiega – soltanto con d.lgs. n. 159/2011 c.d. codice antimafia è stata prevista, a pena di nullità, la citazione del terzo interessato, ma senza valenza retroattiva. Nemmeno può farsi riferimento a prove nuove” per garantire tutela al terzo pretermesso. In proposito, si sottolinea – la revoca ex tunc della misura di prevenzione della confisca già definitiva non è consentita a fronte della deduzione dell’affermazione, in epoca successiva alla decisione da rescindere, di difforme interpretazione della norma penale applicata, poiché la prova nuova rilevante a tal fine è soltanto quella idonea a modificare il quadro probatorio che ha condotto alla ricostruzione del fatto e non quella riguardante la sua ricostruzione giuridica . Confisca di prevenzione ad oggetto allargato”. Parimenti, sotto il profilo dell’oggetto del confiscato, stesso epilogo reiettivo. In proposito, la Suprema Corte si richiama alla cristallina giurisprudenza secondo cui la confisca di prevenzione di un complesso aziendale non può essere disposta, in ragione del carattere unitario del bene che ne è oggetto, con limitazione alle componenti di provenienza illecita, specialmente ove l’intera attività di una determinata impresa sia stata agevolata dalla cointeressenza con organizzazioni criminali di tipo mafioso. Non solo. La Cassazione - con attento principio di diritto, ricostruito ripercorrendo l’ excursus storico registratosi in materia - ha precisato che la confisca ex art. 3- quinquies , l. n. 675/1965, laddove consente di sottrarre alla disponibilità del proposto e dei terzi beni che si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, non si pone in contrasto con la Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2014/42/CE del 3 aprile 2014, con la quale, ai fini dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali, è stata introdotta soltanto una disciplina minima della confisca che riconosce ai singoli Stati membri la possibilità di prevedere strumenti più estesi ed incisivi sul fronte del contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata. Misura di prevenzione confermata. Sul crinale delle considerazioni che precedono, la Suprema Corte ha dunque rigettato il ricorso, con conseguente conferma della confisca comminata e condanna alla refusione delle spese di lite a carico del ricorrente.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 22 gennaio – 8 aprile 2020, n. 11666 Presidente Iasillo – Relatore Boni Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza in data 19 dicembre 2018 la Corte di appello di Palermo respingeva l’appello, proposto da C.I.P. , avverso il provvedimento, emesso in data 11 giugno 2015 dal Tribunale di Palermo, sezione misure di prevenzione, che aveva respinto la sua richiesta di revoca della confisca di prevenzione, disposta con decreto del 14 novembre 2006, confermato dalla Corte di Appello di Palermo in data 15 ottobre 2010, irrevocabile il 30 settembre 2011, avente ad oggetto l’intero capitale sociale e l’intero compendio aziendale delle società Centralgas s.p.a., Virgogas Serbatoi s.r.l., Gas Sud s.r.l. e Italmetano s.r.l 1.1 A fondamento della decisione rilevava che, in ordine all’integrazione del contraddittorio con l’appellante sin dal primo grado del giudizio prevenzionale, secondo quanto osservato dalla stessa Corte di appello nel procedimento già definito, l’omissione integrava una mera irregolarità, non foriera di nullità, poiché al terzo interessato pretermesso era sempre consentito intervenire volontariamente nel giudizio e promuovere incidente di esecuzione per chiedere la revoca della confisca. Priva del carattere di novità era anche la consulenza tecnico-contabile che era stata già valutata nel processo che aveva condotto alla confisca. 1.2 Avverso detto provvedimento ha proposto ricorso il C.I. , il quale a mezzo del difensore, munito di procura speciale, avv.to Baldassare Lauria, ne ha chiesto l’annullamento per a violazione e falsa applicazione dell’art. 125 in relazione all’art. 4 del Protocollo 7 aggiunto alla CEDU, all’art. 6 CEDU ed alla L. n. 1423 del 1956, art. 7. Il decreto impugnato è privo di motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza delle condizioni di legge, previste dagli artt. 4 del Protocollo 7 CEDU e L. n. 1423 del 1956, art. 7, per la revoca della confisca, che era stata disposta ai sensi della L. n. 575 del 1965, art. 3-quinquies, nell’ambito del procedimento di prevenzione a carico di B.F. sul presupposto che i beni fossero a questi riferibili e funzionali ai suoi interessi criminosi di trafficante di droga, appartenente ad associazione mafiosa. Il rigetto del motivo riguardante la violazione del principio del contraddittorio si pone in contrasto con la disposizione di cui all’art. 4 del Protocollo 7 della CEDU e non tiene conto che l’omessa partecipazione al primo grado del giudizio di prevenzione ha seriamente compromesso il diritto di difesa del ricorrente, privato di un secondo grado di merito e della possibilità di far valere in sede di legittimità ogni questione attinente alla lettura dei dati probatori. Nella vigenza della L. n. 575 del 1965 il procedimento di prevenzione era disciplinato dalle norme processuali dell’incidente di esecuzione e nessuna di esse consentiva si celebrasse il relativo giudizio senza la regolare citazione del destinatario del provvedimento chiesto dal proponente. Tanto si ricava anche dal successivo D.Lgs. n. 159 del 2011, laddove l’art. 7, commi 2 e 7, ha previsto a pena di nullità la citazione del terzo. L’omessa partecipazione al giudizio di primo grado e l’impossibilità di un secondo grado di merito, garantito dall’art. 2, protocollo 7, CEDU, legittima la riapertura del processo, regola che deve estendersi anche al procedimento di prevenzione, che, seppur estraneo alla materia penale, è finalizzato ad emettere provvedimenti afflittivi, come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte costituzionale in ultimo, sentenza 24 del 2019 . Invero, la norma di cui al citato art. 4 del Protocollo 7 della CEDU costituisce una clausola di chiusura dello stesso ordinamento internazionale, volta al recupero ed al controllo della legalità della decisione giurisdizionale anche a prescindere dall’emersione di nuove prove, non in precedenza assunte. b Violazione e falsa applicazione dell’art. 125 in relazione agli artt. 629 e 630 c.p.p., alla L. n. 1423 del 1956, art. 7, ed all’art. 4 Protocollo 7 della CEDU. La ritenuta insussistenza della condizione di novità probatoria è immotivata per l’omessa indicazione degli specifici passaggi della motivazione del decreto ablativo che darebbero conferma della già avvenuta disamina dei fatti indicati nell’istanza di revoca. Invero, il decreto della Corte di appello di Palermo tratta la posizione del C.I. da pagina 84 senza però avere affrontato le nuove questioni introdotte per avere affermato il supposto reinvestimento dei capitali illeciti provenienti dal mercato della droga nei tre versamenti in conto capitale della società Centralgas, effettuati da C.I.P. per l’importo complessivo di 40.000,00 Euro, il provvedimento non aveva considerato i tre assegni tratti dallo stesso ricorrente e negoziati da Centralgas, utilizzando fondi di origine lecita, costituiti da redditi derivanti dall’attività agricola per 209.000.00 Euro contributi ACEA erogati in relazione alla predetta attività agricola, ammontanti a lire 35.691.000 per il periodo 2001/2005 introiti derivanti dalla dismissione di titoli nel periodo 2001/2003 per un ammontare di Euro 75.000.00 e da dismissione di immobili per Euro 180.000.00, dal risarcimento danni per Lire 125.001.990 il 19.01.2001, Lire 15.000.106 il 10.07.2001, Lire 54.749.003 il 10.07.2001 ed Euro 54.661.95 il 3.11.2014, secondo quanto esposto nella consulenza tecnica di parte. c Violazione ed errata applicazione dell’art. 125 in relazione all’art. 7 Cedu, all’art. 1 Cedu, alla direttiva del Parlamento Europeo n. 42 del 2014 e all’art. 4 prot. 7 Cedu, alla L. n. 575 del 1965, art. 3-quinquies, e L. n. 1423 del 1956, art. 7. Il provvedimento impugnato è immotivato anche in ordine alla violazione del principio di legalità e di proporzionalità di cui alla Direttiva del parlamento Europeo 2014/42 del 3/4/2014, che assicura protezione al diritto di proprietà in riferimento all’esigenza di evitare confusione tra proventi da reato e beni di origine legittima, essendo possibile l’ablazione soltanto di quelli di provenienza illecita. Nel caso di specie, il decreto ablativo ha omesso di verificare le fonti lecite nei confronti del terzo non colpito dall’accertamento di pericolosità sociale, mentre la confisca avrebbe dovuto essere limitata alla quota ideale del bene rapportata al maggior valore assunto per effetto del reimpiego di denaro illecito. Inoltre, la natura illecita dei beni, ai fini della confisca, prima ricondotta a qualunque tipologia di illiceità, anche non criminosa, a seguito della sentenza n. 24 del 2019 della Corte Costituzionale deve essere limitata alle sole attività illecite di natura delittuosa. Il decreto della Corte di appello di Palermo del 15/10/2010, oggetto della richiesta di revoca, assumeva a pag. 105 che il tenore della L. n. 575 del 1965, art. 3-quinquies, consentiva di sottoporre a confisca non solo i beni che direttamente provenivano dall’attività agevolata ma anche quelli derivati da altre attività illecite, anche non espressamente mafiose, consistenti nella presentazione per lo sconto di ricevute bancarie fittizie col conseguente accesso al credito senza il rispetto di rigorose istruttorie nel sistema fittizio della cessione dei rami di azienda nella circolazione di assegni bancari post datati nella omessa quantificazione delle rimanenze di magazzino ai fini di un gestione in nero nell’ottenimento di finanziamenti ai sensi della L. n. 488 del 1992, senza il possesso di requisiti. Si tratta di attività illecite che non rientrano in specifiche ipotesi di reato e la cui considerazione non può più ritenersi conforme al precetto di cui alla L. n. 575 del 1965, artt. 2-ter e 3-quinquies, che ne resta violato, con la conseguente nullità genetica del provvedimento ablativo. 3. Con requisitoria scritta, il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, Dott. Birritteri Luigi, ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, in quanto il giudicato preclude di rilevare la questione del diritto al doppio grado di giudizio di merito la consulenza tecnica di parte non è idonea a costituire prova nuova ed è priva di autonoma valenza demolitoria i principi espressi nella sentenza n. 24/2019 della Corte costituzionale attengono al giudizio di pericolosità generica e non hanno attinenza sul giudicato in materia di misura di prevenzione reale sul presupposto della pericolosità qualificata. Considerato in diritto Il ricorso è privo di fondamento e va dunque respinto. 1. Va premesso che nel caso di specie è già intervenuta una prima pronuncia di legittimità, la sentenza sez. 1, n. 32865 del 20/06/2014, che in separato procedimento aveva annullato senza rinvio per incompetenza funzionale l’ordinanza di rigetto di precedente istanza di revoca della confisca definitiva di prevenzione, applicata nei confronti del ricorrente. Con quella decisione si era altresì stabilito che l’istanza ricadeva nell’ambito di applicazione della L. n. 1423 del 1956, art. 7, comma 2, poiché la misura di cui si era chiesta la rimozione risulta essere stata emessa con provvedimento divenuto irrevocabile prima dell’introduzione del D.Lgs. n. 159 del 2011, sicché, a norma dell’art. 117 dello stesso testo normativo, al relativo procedimento dovevano essere applicate le disposizioni previgenti. Le medesime considerazioni conservano validità anche per il presente procedimento, avente identico oggetto. Sempre in via preliminare, è opportuno ricordare che la misura di cui si chiede la revoca è stata imposta nei confronti del ricorrente, quale terzo interessato, nell’ambito del procedimento che ha esitato l’accertamento irrevocabile della pericolosità sociale di B.F.P. , ritenuta qualificata dall’appartenenza ad associazione dedita al traffico di stupefacenti ed a quella di stampo mafioso a norma della L. n. 575 del 1965, art. 1, e la sua sottoposizione alle misure di prevenzione personale e reale. 2. Tanto premesso, il primo motivo di ricorso non è fondato. 2.1 Questa Corte ha già affermato con costante orientamento che la mancata citazione nel procedimento finalizzato all’applicazione di misura di prevenzione del terzo interessato non invalida il rapporto processuale, non pregiudica l’applicazione della misura disposta e non determina nemmeno la nullità degli atti compiuti al terzo pretermesso è riconosciuta, sia la facoltà di prendere parte al processo mediante la costituzione volontaria, sia di esplicare le sue difese in sede di incidente di esecuzione, quale persona assoggettata, di riflesso, all’esecuzione della misura disposta nei confronti del proposto, con l’ulteriore possibilità di proporre ricorso per cassazione avverso l’ordinanza emessa all’esito dell’incidente medesimo sez. 1, n. 16806 del 21/04/2010, Monachino, rv. 247072 sez. 1, n. 28032 del 22/06/2007, Scala e altri, rv. 236930 sez. 2, n. 40880 del 17/10/2002, Ferdico ed altri, rv. 223021 sez. 5, n. 2357 del 14/04/2000, Spierto, rv. 216542 sez. 6, n. 803 del 6/10/1999, Morabito ed altro, rv. 214780 . Al riguardo appaiono illuminanti e meritano piena adesione le osservazioni contenute nella sentenza Ferdico sopra citata, secondo la quale La posizione pretensiva di cui il terzo è portatore non può, infatti, essere perequata a quella di chi sia soggetto non mediato del procedimento di prevenzione e, dunque, sia il destinatario diretto della misura, personale e patrimoniale, che ne costituisce l’eventuale epilogo. Il fascio delle garanzie partecipative ben può essere quindi diverso, così come diversi possono essere i rimedi che l’ordinamento appronta per tutelare i corrispondenti diritti, e diverse, infine, le conseguenze che possono scaturire dalla mancata osservanza degli specifici presidi procedimentali approntati per rendere effettive quelle garanzie. Da ciò è pertanto possibile dedurre che l’eventuale turbamento dell’ordine processuale in capo al terzo - per definizione estraneo alla misura, ma portatore di una posizione soggettiva qualificata in ordine alla res da confiscare, e, dunque, titolare di uno specifico ius ad loquendum sulla destinazione finale del bene - non determini conseguenze invalidanti rispetto a quel procedimento, a prescindere dal momento processuale in cui quell’ordine è stato turbato, purché, ovviamente, quel diritto alla interlocuzione , di cui innanzi si è detto, sia comunque assicurato nella conferente sede dell’incidente di esecuzione. La mancata partecipazione del terzo al procedimento di prevenzione, non può, pertanto, che ricevere unitario trattamento ed omologa disciplina, a prescindere dalla circostanza - del tutto ininfluente - che si tratti di una mancata partecipazione sin dall’inizio oppure soltanto nel corso di quel procedimento, giacché, ove così non fosse, l’ordinamento paradossalmente riconoscerebbe portata invalidante alla mancata partecipazione parziale , escludendola, invece, nel caso di mancata partecipazione totale , di evidente maggiore gravità. Ciò che in definitiva rileva è che l’esame della posizione del terzo abbia ricevuto, in executivis, adeguata ponderazione e congruo spazio difensivo . Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, resta escluso che la partecipazione del terzo al processo di prevenzione abbia rappresentato un presupposto indefettibile per la sua valida celebrazione all’epoca in cui quello nei confronti del ricorrente è stato definito, perché non imposta, nè dallo specifico statuto normativo del processo di prevenzione, nè dalla disciplina degli incidenti di esecuzione in quanto applicabile soltanto col D.Lgs. n. 159 del 2011 è stata prevista a pena di nullità la citazione del terzo interessato, senza però che la relativa disposizione dell’art. 7, - avente appunto valore processuale ed applicabile soltanto per il futuro, possa essere utilizzata quale parametro di valutazione in via retroattiva della legittimità procedurale della misura applicata col decreto di cui si è chiesta la revoca, che risulta perfettamente aderente alla regolamentazione allora vigente. 2.2 Nel caso di specie, come rilevato dalla Corte di appello, non soltanto C.I. aveva potuto prendere parte al giudizio di secondo grado del procedimento prevenzionale di cognizione, ma in quella fase era stata già esaminata e disattesa l’eccezione di nullità sollevata a ragione della sua omessa citazione in primo grado senza che fondatamente fosse stata riscontrata una violazione del diritto di difesa e del contraddittorio pagg. 88-89 decreto del 15 ottobre 2010 . È dunque corretta e legittima la considerazione, espressa e motivata nell’ordinanza impugnata, circa la carenza di novità dell’argomentazione giuridica prospettata con la richiesta di revoca. 2.3 Nè a differenti conclusioni è consentito pervenire a ragione dei principi dettati in tema di giusto processo dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali la dizione letterale dell’art. 4 del protocollo addizionale 7 alla Convenzione, sotto la rubrica art. 4 Ne bis in idem, recita 1. Nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura penale di tale Stato. 2. Le disposizioni di cui al paragrafo precedente non impediranno la riapertura del processo, conformemente alla legge ed alla procedura penale dello Stato interessato, se dei fatti nuovi o degli elementi nuovi o un vizio fondamentale nella procedura antecedente avrebbero potuto condizionare l’esito del caso. 3. Nessuna deroga a questo articolo può essere autorizzata ai sensi dell’art. 15 della Convenzione . La riapertura del processo indicata al comma 2 del citato art. 4 postula testualmente che essa riceva regolamentazione dalla legge interna dello Stato membro e che nel corso di una procedura già definita si sia verificato un vizio , oppure che non sia stato possibile considerare deduzioni successivamente rappresentate, in modo tale che la decisione giudiziale sia stata condizionata negativamente per la parte che l’abbia subita o sia stata diversa da quella corretta. Sotto nessun possibile profilo la disposizione può costituire la base normativa per configurare il diritto ad ottenere la rimozione della decisione definitiva, emessa dall’autorità giudiziaria dello Stato membro, quando il preteso vizio sia stato già dedotto nel processo ormai definito e non sia stato riscontrato. Inoltre, rapportato il tema alle previsioni dell’ordinamento giuridico interno, la garanzia che, come preteso nella prospettazione del ricorrente, nel settore delle misure di prevenzione il procedimento si articoli in due gradi di giurisdizione di merito non è ricavabile da nessuna delle norme costituzionali, nè da quelle convenzionali. Da un lato, l’art. 111 Cost., commi 3 e 7, riconosce la possibilità di deroga al contraddittorio nella formazione della prova e rende cogente la previsione del ricorso per cassazione quale mezzo d’impugnazione per contestare sentenze e provvedimenti incidenti sulla libertà personale e l’art. 24 Cost., comma 2, si limita a garantire l’esercizio del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, senza però imporre una determinata articolazione dei gradi in cui lo stesso procedimento debba svolgersi dall’altro, l’art. 2 del protocollo addizionale 7 della Convenzione EDU, a norma del quale 1. Ogni persona dichiarata rea da un tribunale ha il diritto di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza o la condanna da un tribunale della giurisdizione superiore. L’esercizio di tale diritto, ivi inclusi i motivi per cui esso può essere esercitato, è disciplinato dalla legge . , riguarda soltanto gli accertamenti di colpevolezza e le pronunce di condanna emesse nel settore penale, cui le misure di prevenzione sono estranee, pretendendone la possibilità di riesame da parte di altra autorità giudiziaria di grado superiore, e non nell’ambito di più gradi. Anche l’art. 6 della Convenzione EDU nulla dispone in ordine alla cogente necessità che la disciplina del processo contempli un doppio grado di giurisdizione. Pertanto, la lamentata violazione del diritto al contraddittorio non può individuarsi nell’impossibilità per il terzo di ottenere una decisione da parte di due diversi giudici di merito di grado differente nell’ambito della procedura finalizzata all’applicazione delle misure di prevenzione quando la sede appropriata per esplicare le difese di questa parte è quella dell’esecuzione, che a sua volta consente uno sviluppo processuale che si snoda potenzialmente in tre gradi distinti sez. 1, n. 3964 del 02/07/1998, Arcuri e altri, rv. 211330 . In ogni caso, sul piano dell’effettività e della concreta vicenda processuale, l’avvenuta costituzione nel grado di appello ha consentito al ricorrente di dispiegare le sue difese anche in punto di fatto, di produrre documenti ed una consulenza tecnica e di conseguire nell’ambito della cognizione piena di merito le valutazioni di un giudice abilitato a prendere conoscenza di ogni aspetto dedotto della vicenda prevenzionale. Nè in ricorso si deduce in dettaglio con argomentazioni specifiche quale pregiudizio in termini di diminuite facoltà di deduzione e di prova avrebbe subito il ricorrente per il fatto di non avere potuto partecipare al primo grado del processo di prevenzione si ricorda poi che la declaratoria d’inammissibilità del ricorso per cassazione proposto avverso il decreto della Corte di appello di Palermo del 15 ottobre 2010 è dipesa dalla carente legittimazione del difensore, non munito di procura speciale, secondo quanto statuito con la sentenza sez. 5, n. 229 del 30/09/2011, dep. 2012, il che ha impedito per fatto imputabile alla parte un riesame della decisione sul piano della legittimità. 3. Il secondo motivo censura, siccome fondata su motivazione apparente, la decisione che ha ritenuto già esaminata e disattesa la tesi difensiva del ricorrente, riproposta con l’istanza di revoca, perché elusiva dei temi dedotti con le nuove evidenze, che avrebbero idoneità a negare i fatti già ritenuti fondativi dell’accoglimento della proposta. Sul presupposto che, a giudizio della Corte di appello, la consulenza tenica espletata su incarico del pubblico ministero avrebbe evidenziato un flusso anomalo di versamenti in conto capitale a favore della società Centralgas s.p.a., non compatibile con le dichiarazioni dei redditi di quanti, compreso il ricorrente, avevano effettuato le rimesse e tale da autorizzare la conclusione che tali immissioni di denaro costituissero lo strumento per il reinvestimento di risorse finanziarie di illecita provenienza, la difesa assume la piena tracciabilità dei versamenti operati dal ricorrente mediante assegni bancari, tratti sui propri conti correnti e negoziati da Centralgas s.p.a. e la ampia disponibilità nel proprio patrimonio di redditi lecitamente percepiti quale proventi di attività agricola e da operazioni di dismissione di investimenti mobiliari ed immobiliari. 3.1 La Corte di appello ha rilevato sul punto l’assenza del carattere di novità degli elementi fattuali indicati da C.I. e compendiati nella consulenza di parte, in quanto già acquisiti e sottoposti a valutazione nella motivazione del decreto della Corte di appello del 15 ottobre 2010, che aveva esteso la disamina anche alla consulenza tecnica depositata nell’interesse dell’odierno istante volta a riscontrare le modalità dei versamenti in conto capitale effettuati nella qualità di socio della Centralgas s.p.a. e delle società controllate, nonche la compatibilità tra le disponibilità economiche dello stesso ed i versamenti effettuati in conto capitale e nei conti bancari personali pag. 5 ordinanza impugnata . 3.2 La difesa addebita ai giudici di appello l’omessa disamina delle nuove acquisizioni offerte, che ribadisce essere tali da consentire di escludere in radice i presupposti applicativi della confisca, in quanto i conferimenti in conto capitale alla società Centralgas s.p.a. sarebbero avvenuti con denaro proveniente dai suoi conti correnti e mediante disponibilità lecitamente conseguite nel periodo 1998-2005. Osserva il Collegio in primo luogo che, a fronte della richiesta di revoca della confisca disposta in riferimento a tutti i beni colpiti dal provvedimento del 15 ottobre 2010, le deduzioni difensive riguardano esclusivamente gli apporti finanziari conferiti alla Centralgas s.p.a. negli anni 1997-2005 per l’equivalente di 351.036,29 Euro, ma non investono le ulteriori operazioni, riguardante le altre società del gruppo, che erano state ritenute simulate soggettivamente ed effettuate con risorse di provenienza illecita, perché acquisite tramite la dedizione del B. ai traffici di stupefacenti, da questi gestiti in accordo e sotto la protezione dell’associazione di stampo mafioso, cui era ritenuto appartenere, rispetto alle quali nulla viene dedotto nel ricorso in esame. Del pari non si dimostra l’effettiva ricorrenza del vizio denunciato, ossia che gli elementi documentali rappresentati non fossero stati già in precedenza conosciuti ed apprezzati dai Giudici di merito e che possedessero l’effettiva capacità di sovvertire il giudizio espresso nei termini in cui è richiesto per la positiva delibazione della richiesta di revoca. 3.3 Va ribadito che nella interpretazione dell’istituto della revoca della confisca di prevenzione di cui alla L. n. 1423 del 1956 la giurisprudenza di legittimità ne ha consentito l’utilizzo anche p, art. 7, per la rimozione ex tunc della misura seppur irrevocabile ed è costante nell’affermarne il carattere di rimedio straordinario, incompatibile con il mero riesame degli stessi elementi fattuali che hanno portato a disporre la confisca, cosa che, se consentita, lo trasformerebbe in via surrettizia in una ulteriore impugnazione ordinaria, non prevista come tale, suscettibile di condurre senza limitazioni di tempo a rivisitare la decisione, nonostante il mancato mutamento o implemento del quadro fattuale posto a suo fondamento. Al contrario, per poter essere revocato il provvedimento di prevenzione che sia definitivo deve essere affetto da invalidità genetica per difetto dei requisiti applicativi, la cui rimozione è consentita per rendere effettivo il diritto, costituzionalmente garantito, alla riparazione dell’errore giudiziario e la cui dimostrazione può essere fornita soltanto mediante l’acquisizione di una nuova prova o comunque non in precedenza considerata, che apporti elementi di conoscenza tali da mutare radicalmente i termini della valutazione a suo tempo operata, ovvero la deduzione della inconciliabilità di provvedimenti giudiziari, oppure ancora dell’adozione del provvedimento di prevenzione in base ad atti falsi o ad altro reato. La revoca della confisca definitiva di prevenzione, poiché risponde alle medesime esigenze perseguite con la revisione del giudicato penale di condanna e perché strumento di tutela di natura straordinaria, implica che la prova nuova non può limitarsi a rappresentare circostanze favorevoli al deducente, ma deve possedere una forza dimostrativa in grado di destituire di fondamento la ricostruzione fattuale alla base della decisione irrevocabile e di condurre ad una diversa valutazione della vicenda quanto ai profili della pericolosità del proposto, della disponibilità diretta o indiretta del bene in capo al proposto stesso, del valore sproporzionato della cosa al reddito dichiarato o all’attività economica svolta, dell’essere il bene confiscato frutto di attività illecite o di reimpiego di profitti illeciti. Sez. U. n. 57 del 19/12/2006, dep. 2007, Auddino, rv. 234955 . Nell’ambito della riflessione esegetica sull’istituto in esame, questa Corte ha già escluso che ai fini della revoca della misura di prevenzione possa ritenersi ammissibile quale nuova prova una diversa considerazione tecnico scientifica di dati già valutati, poiché la stessa si tradurrebbe in un apprezzamento critico di emergenze oggettive conosciute e delibate nel procedimento di merito, prive della necessaria idoneità a sovvertire il giudizio espresso sez. 6, n. 3943 del 16/01/2016, Bonanno, rv. 267016 sez. 6, n. 53428 del 05/11/2014, Rubino, rv. 261840 sez. 2, n. 41507 del 24/09/2013, Auddino, rv. 257334 sez. 2, n. 4312 del 13/01/2012, Penna e altri, rv. 251811 sez. 1, n. 36224 del 22/09/2010, Famà ed altro, rv. 248296 sez. 2, n. 25577 del 14/05/2009, Lo Iacono, rv. 244152 . 3.4 Considerato alla luce della richiamata lezione interpretativa, il provvedimento impugnato consente di verificare che i giudici di merito hanno puntualmente passato in rassegna tutti i profili di doglianza prospettati dalla difesa, valutandone l’assenza dell’indispensabile carattere della novità, perché inerenti a circostanze già dedotte e vagliate nell’ambito dell’originario procedimento di prevenzione cosicché, in definitiva, il complessivo quadro posto a fondamento della decisione di cui si chiede la revoca, non soltanto non è risultato probatoriamente compromesso, ma neppure logicamente incriminato, rendendo dunque impraticabile il riscontro di qualsiasi ipotesi di errore che, come si è già detto, sta alla base del particolare istituto oggetto dell’odierno ricorso. Inoltre, ciò che trascura la linea difensiva è che la misura ablativa è stata imposta ai sensi della L. n. 575 del 1965, art. 3-quinquies, in riferimento a beni ritenuti frutto di attività illecite o di cui costituiscono il reimpiego, nonché la sua finalità specifica sulla scorta della affermata operatività di CENTRALGAS s.p.a. e delle altre società collegate in base a flussi finanziari di origine indimostrata, secondo quanto rilevato dall’amministratore giudiziario e dai consulenti del pubblico ministero e ritenuto non smentito efficacemente dalle osservazioni critiche dei consulenti tecnici di parte, che, per quanto già detto, non possono rappresentare un utile elemento valutabile per conseguire la revoca della confisca definitiva di prevenzione. Al riguardo è dato leggere nel decreto della Corte di appello del 15 ottobre 2010 pagg. 103 e ss. che era dimostrata in punto di fatto l’immissione nella CENTRALGAS s.p.a. di rilevanti capitali di provenienza illecita da parte del B. , nonché l’agevolazione offerta a questi nell’occultamento e nel reinvestimento di tali capitali dalla società stessa e dagli altri soci ed amministratori, sicché non poteva costituire un ostacolo legale all’imposizione della confisca la circostanza che questa colpisse beni non legati direttamente all’attività agevolata, ma derivati da altre iniziative illecite, anche non espressamente mafiose, condotte dalle società agevolanti. In tal senso è stato richiamato il principio di diritto, affermato da sez. 1, n. 1112 del 08/02/1999, Proc. gen. in proc. Galuppo ed altri, rv. 212790, per il quale In materia di misure di prevenzione nei confronti di indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose, la confisca dei beni che, nel corso del procedimento conclusosi con l’applicazione della misura a carico del proposto, siano stati ritenuti pertinenti ad attività oggettivamente agevolative di quelle mafiose, ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 3 quater, va disposta non sulla base dei criteri riconducibili alla disciplina dettata dall’art. 2 ter di detta legge, ma facendo riferimento ai distinti parametri dello schema procedimentale disegnato dagli artt. 3 quater e 3 quinquies e quindi verificando soltanto, sulla base di univoci e pregnanti elementi indiziari, che trattisi di beni costituenti frutto o reimpiego del frutto di attività illecite, sì da potersi dire realizzata una obiettiva commistione di interessi tra attività d’impresa e attività mafiosa situazione, questa, nella quale gli effetti del provvedimento ablatorio legittimamente si riflettono sui beni di un imprenditore il quale, pur non sospettato nè indiziato di appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso, tuttavia, per il ruolo oggettivamente agevolatore dell’attività economica da lui esercitata rispetto agli interessi di detta associazione, sia da considerare, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 487 del 1995, certamente non estraneo nel quadro della complessiva gestione del patrimonio mafioso . I medesimi principi sono stati ripresi anche in successive pronunce per sez. 5, n. 17988 del 30/01/2009, Baratta e altri, rv. 244802 la confisca di prevenzione di un complesso aziendale non può essere disposta, in ragione del carattere unitario del bene che ne è oggetto, con limitazione alle componenti di provenienza illecita, specie nel caso in cui l’intera attività di impresa sia stata agevolata dalla cointeressenze con organizzazioni criminali di tipo mafioso analogamente, secondo sez. 2, n. 9774 del 11/02/2015, D’Agui e altri, rv. 262622, in tema di misure di prevenzione patrimoniali, la confisca disposta ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter, di una impresa costituita in forma societaria, della quale sia stato accertato il carattere mafioso per il fatto di avere stabilmente operato avvalendosi della forza di intimidazione di un’associazione mafiosa e in cointeressenza con essa, si estende a tutto il patrimonio aziendale e a tutto il capitale sociale, comprese le quote sociali di terzi, nonostante l’origine lecita dei fondi impiegati per la sottoscrizione delle quote, laddove sia accertata la disponibilità sostanziale della impresa da parte del proposto e laddove l’attività economica posta in essere risulti condotta sin dall’inizio con mezzi illeciti in termini conformi sez. 5, n. 32017 dell’8/03/2019, Roma, rv. 277099 . Rispetto a tali considerazioni, perfettamente in linea col disposto normativo e con l’interpretazione giurisprudenziale maggioritaria, la deduzione della liceità dei mezzi finanziari con i quali il ricorrente aveva potuto operare gli aumenti di capitale in CENTRALGAS s.p.a., oltre a costituire profilo di doglianza già apprezzato e disatteso, non assume un rilievo dirimente, perché non contrasta l’impostazione giuridica del provvedimento e i dati fattuali di matrice indiziaria sul coinvolgimento degli interessi del B. e dei suoi accoliti e sull’agevolazione alla loro attività criminosa, offerta dalla società stessa e dalle sue collegate. 4. Infine, non hanno pregio nemmeno le deduzioni contenute nel terzo motivo di ricorso, che lamentano la violazione del principio di legalità e di proporzionalità, che avrebbe inficiato il decreto applicativo della confisca, perché imposta indiscriminatamente su beni illeciti e su altri di origine lecita e comunque su tutto il patrimonio del ricorrente. Premesso che la doglianza soffre di generica formulazione perché non consente di individuare quali beni, nella deduzione difensiva, apparterrebbero alle due distinte categorie, nè di verificare in quali termini sia stato sacrificato l’intero asse patrimoniale del deducente, tema sul quale nulla è dato leggere in ricorso, in ogni caso essa è priva di fondamento giuridico sol che si consideri che la confisca di cui si chiede la revoca è stata disposta ai sensi della L. n. 575 del 1965, art. 3-quinquies, istituto finalizzato a contrastare fenomeni di asservimento o di contiguità dell’impresa rispetto all’attività ed agli interessi di sodalizio mafioso, che non rientrano nell’ambito applicativo della misura disciplinata dall’art. 2-ter della stessa legge. Ciò che viene colpito è la relazione di contiguità tra l’impresa societaria e l’attività di organismi mafiosi al fine di contrastare la penetrazione di questi ultimi nel territorio e nel tessuto economico e di sottrarre al terzo gestore dell’impresa agevolatrice il frutto della commistione di interessi tra la propria attività lecita e quella criminosa altrui, sicché possono essere oggetto di ablazione anche le partecipazioni e/o i beni sociali derivati dall’investimento da parte dei soci di risorse finanziarie di origine legale quando vi siano elementi sufficienti per ritenerle immesse o acquisite in una realtà imprenditoriale che veda partecipe o comunque coinvolto un soggetto dedito ad attività criminosa qualificata, che ne resta in tal modo agevolata e protetta. In altri termini, com’è chiaramente evincibile dai decreti emessi nel giudizio prevenzionale di cognizione, il provvedimento ablativo anche nei confronti di C.I. è stato imposto sul presupposto che la gestione e l’attività imprenditoriale riconducibile alle società ivi indicate avessero agevolato l’operato criminoso del B. , nonché dei suoi sodali costui era, infatti, sottoposto a misura di prevenzione ai sensi del citato art. 2-ter ed a procedimento penale per partecipazione ad associazione finalizzata al narcotraffico, operante sotto l’egida mafiosa, e gli era stato consentito attraverso lo schermo rappresentato dall’attività di impresa di operare il riciclaggio dei proventi delle sue iniziative delittuose anche mediante ulteriore attività illecita nel campo del falso e dell’evasione fiscale. Nè al riguardo possono condividersi le censure difensive sulla carenza di motivazione del decreto applicativo della confisca per non avere individuato gli elementi oggettivi e soggettivi dei pertinenti reati, ritenendo sufficiente l’affermazione della loro illiceità pag. 12 ricorso , che prospettano vizi afferenti l’impianto giustificativo del provvedimento, non già la sua illegittimità per contrasto con disposizioni di legge e si rivelano del tutto eccentriche rispetto all’ambito dei motivi deducibili con l’istanza di revoca, che avrebbero dovuto essere fatti valere con un rituale ricorso per cassazione avverso il decreto stesso. 5. Non è pertinente nemmeno il richiamo ai principi formulati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 24 del 2019, dal momento che essi riguardano soltanto i presupposti per individuare la tipologia di pericolosità generica dettata dall’art. 4, comma 1, lett. c , nella parte in cui consente la sottoposizione a misure di prevenzione dei soggetti indicati all’art. 1, lett. a , ossia di coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi, previsione di cui si è rilevata l’illegittimità costituzionale e rilevante nei limiti in cui la stessa forma di pericolosità sia il presupposto l’applicazione della misura di prevenzione reale. Tanto non si è verificato nel caso di B.F.P. , nei confronti del quale è stata ravvisata, senza contestazioni mosse in questa sede di revoca, la diversa forma di pericolosità doppiamente qualificata, in quanto appartenente ad associazione dedita al narcotraffico ed al contesto mafioso, secondo una nozione giuridica non coinvolta nel giudizio di incostituzionalità, quindi di immutata validità secondo l’attuale assetto normativo. 6. In ricorso si assume, infine, che la confisca imposta al ricorrente sarebbe in contrasto con l’art. 7 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, con l’art. 1, protocollo 1 e art. 4, protocollo 7, CEDU, nonché con la Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2014/42/CE del 3 aprile 2014. 6.1 La deduzione soffre di generica formulazione quanto alla lamentata violazione dell’art. 7 CEDU, che non viene illustrata nei suoi contenuti e non può quindi essere apprezzata per contro, non può prescindersi dalla considerazione che la confisca di cui si è chiesta la revoca è stata disposta in perfetta aderenza al disposto della L. n. 575 del 1965, art. 3-quinquies, quindi nel rispetto del principio di stretta legalità. Inoltre, nel sistema convenzionale secondo la sua formulazione testuale l’art. 7 è riferito soltanto ai reati ed alle pene, settore cui non appartiene quello delle misure di prevenzione, come pacificamente riconosciuto anche dalla giurisprudenza della Corte EDU a ragione della diversa finalità perseguita, la prevenzione dei reati nei confronti di soggetti socialmente pericolosi e non la repressione della loro commissione, e dei differenti presupposti applicativi Commissione, 15/05/1991, Marandino c. Italia Corte EDU, 22/02/1994, Raimondo c. Italia 15/06/1999, Prisco c. Italia 17/05/2011, Capitani e Campanella c. Italia . Anche il richiamo all’art. 4 del Protocollo n. 7, secondo il quale 1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato , risulta generico e non pertinente al caso specifico, in cui non viene in rilievo la violazione del divieto di bis in idem. 6.2 Il parametro convenzionale di riferimento per la specifica materia è piuttosto costituito dall’art. 1 del Protocollo addizionale della Convenzione, a norma del quale Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende . Ebbene, nel caso specifico l’ingerenza ablativa dell’autorità pubblica nel diritto di proprietà del privato è stata disposta in conformità e nel rispetto dei poteri conferiti all’autorità giudiziaria nazionale da espressa e chiara disposizione di legge e per il fine pubblico del contrasto alla criminalità organizzata ed alla sua capacità di penetrazione nel settore economico. Presenta dunque una precisa base normativa e non contrasta col principio di proporzionalità tra misura e fine proposto, tenuto conto della dimensione concreta della vicenda che ha giustificato l’ablazione e della affermata strumentalizzazione dell’attività di impresa per realizzare il reimpiego di proventi di origine criminosa, compiuto dal B. nella consapevolezza e con l’assenso degli altri soci e degli amministratori, secondo quanto chiaramente espresso nel decreto applicativo. Non è quindi comprensibile come sia possibile restringere l’ambito di applicazione della confisca in esame alla quota ideale del bene, rapportata al maggior valore assunto per effetto del reimpiego dei profitti illeciti, e valutata al momento della confisca pag. 10 ricorso , nè è chiaro se ciò riguardi le partecipazioni societarie o i beni strumentali nel patrimonio delle società in ogni caso quanto preteso esula completamente dal perimetro di proponibilità dell’istituto della revoca, essendo affidato a deduzioni prive del requisito della novità sul piano degli accertamenti fattuali, quindi da far valere nella più appropriata sede di cognizione. Del resto in situazioni analoghe di confisca di prevenzione, disposta in pregiudizio di terzi diversi dal proposto, la Corte EDU ha escluso di poter ravvisare la violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale CEDU anche in relazione al profilo della proporzionalità, posto che l’ingerenza controversa, ossia la confisca dei beni basata sulla L. 1965, art. 2 ter, tende a prevenire un uso illegittimo e pericoloso per la società di beni di cui non sia stata dimostrata la provenienza legittima. Essa ritiene quindi che l’ingerenza che ne risulta persegua uno scopo che corrisponde all’interesse generale Corte Edu 17/05/2011 Capitani e Campanella c. Italia, che richiama i propri precedenti 22/04/1994, Raimondo c. Italia 15/06/1999, Prisco c. Italia 04/09/2001, Riela c. Italia 05/07/2001 Arcuri c. Italia in termini conformi anche Corte EDU, 06/07/2011, Pozzi c. Italia 27/07/2011, Paleari c. Italia . Nè la sentenza richiamata in ricorso, 05/01/2010 Bongiorno c. Italia, contiene l’affermazione di principi diversi da quelli esposti, avendo la Corte sovranazionale confermato che la confisca controversa rientra nell’ambito di una politica di prevenzione della criminalità e ritiene che, nell’attuazione di tale politica, il legislatore debba avere un ampio margine di manovra per pronunciarsi sia sull’esistenza di un problema di interesse pubblico che richiede una normativa che sulla scelta delle modalità applicative di quest’ultima . La deduzione difensiva pare richiamarsi al più recente orientamento, emerso nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo il quale, poiché la pericolosità sociale nel periodo della sua manifestazione costituisce misura dell’ablazione Sez. U., n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, Spinelli ed altro, rv. 262605 , anche in riferimento alla confisca prevista dalla L. n. 575 del 1965 è necessario individuare il collegamento temporale tra pericolosità ed acquisizione dei beni e procedere alla scissione tra la componente lecita dell’impresa e del suo patrimonio e l’apporto sopravvenuto, offerto con capitali di origine criminosa. In particolare sez. 6, n. 31634 del 17/05/2017, Lamberti e altro, rv. 270711 ha affermato che la confisca integrale di un complesso aziendale può essere disposta solo nel caso di assoluta o prevalente natura illecita delle risorse impiegate per l’acquisto dei beni e la formazione del capitale, dovendosi altrimenti distinguere gli apporti leciti da quelli illeciti e sottoporre ad ablazione solo quelle parti o quote di valore e di patrimonio riferibili ai secondi. Tale conclusione è giustificata a ragione del fatto che l’impresa non può considerarsi un bene da valutare necessariamente in termini inscindibili, come sarebbe dimostrato dalla suddivisione in quote del capitale e che l’ipotesi della strumentalizzazione dell’impresa di origine lecita al perseguimento di esigenze del sodalizio criminale mafioso consente di applicare il diverso istituto della confisca penale ai sensi dell’art. 416-bis c.p., comma 7. La descritta evoluzione dell’interpretazione giurisprudenziale non può però fornire fondamento giuridico alla pretesa di revoca di una decisione definitiva in materia prevenzionale, posto che la decisione giudiziaria successiva e resa in una diversa fattispecie concreta ha funzione dichiarativa, ha un valore soltanto persuasivo per la fondatezza del ragionamento giuridico che presuppone, ma non è vincolante al di fuori dell’ipotesi dell’annullamento con rinvio ai sensi dell’art. 623 c.p.p., ed è priva della forza di imposizione della disposizione di legge deputata a regolare la specifica materia. Secondo quanto già affermato da questa Corte in relazione all’istituto della revisione sotto l’aspetto del contrasto tra giudicati ex multis sez. 4, n. 46885 del 7/11/2019, Lapadula, rv. 277902 sez. 5, n. 633 del 6/12/2017, Boschetti, rv. 271928 sez. 1, n. 8419 del 14/10/2016, dep. 2017, Mortola, rv. 269757 sez. 5, n. 19586 del 31/3/2010, Bonina, rv. 247513 sez. 4, n. 8135 del 25/10/2001, Pisano, rv. 221098 sez. 5, n. 8462 del 9/07/1997, Garrone, rv. 208608 , istituto cui, per quanto già detto, la revoca della misura di prevenzione è affine, la rescissione del giudizio irrevocabile è ammessa soltanto quando gli elementi di novità attengano alla ricostruzione del fatto e non alla sua valutazione giuridica in dipendenza da una difforme interpretazione della norma penale, peraltro formatasi successivamente, ma non tradottasi in un mutamento di disciplina legale sez. 1, n. 35756 del 19/05/2019, Arona, non massimata . Va dunque formulato il seguente principio di diritto La revoca ex tunc della misura di prevenzione della confisca già definitiva non è consentita a fronte della deduzione della affermazione, in epoca successiva alla decisione da rescindere, di difforme interpretazione della norma penale applicata, poiché la prova nuova rilevante a tale fine è soltanto quella idonea a modificare il quadro probatorio che ha condotto alla ricostruzione del fatto e non quella riguardante la sua valutazione giuridica . 6.3 A conclusioni diverse non può pervenirsi in forza della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2014/42/CE del 3 aprile 2014, con la quale sono state dettate prescrizioni per la regolamentazione nell’Unione Europea del congelamento e della confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato e che ha ricevuto attuazione con il D.Lgs. 29 ottobre 2016, n. 202, contenente modifiche all’art. 240 c.p. ed alla L. n. 356 del 1992, art. 12-sexies. La Direttiva, con il dichiarato scopo programmatico di modificare e ad ampliare le disposizioni delle decisioni quadro 2001/500/GAI e 2005/212/GAP, ha in realtà un contenuto molto limitato perché stabilisce norme minime. Essa non impedisce agli Stati membri di attribuire poteri più estesi nel proprio diritto nazionale punto 22 del considerando e non ha contraddetto la disciplina delle misure di contrasto alle organizzazioni di stampo mafioso, già esistente nell’ordinamento italiano, nè la lettura che la giurisprudenza nazionale vi ha offerto. Invero, dopo avere previsto all’art. 4 la confisca, sia conseguente a condanna penale, che in assenza di tale presupposto, all’art. 6 ha dettato disposizioni sulla confisca nei confronti di terzi di proventi da reato o di altri beni di valore corrispondente a detti proventi, facendo salva la buona fede dei terzi e la possibilità di far valere le loro difese davanti ad un giudice imparziale. La normativa italiana sulle misure di prevenzione, considerata anche in riferimento alle forme di tutela riconosciute a favore dei terzi, è dunque molto più articolata e non si pone in termini dissonanti rispetto alla disciplina dettata dal legislatore Europeo, che riconosce espressamente la possibilità di una regolamentazione più incisiva e rigorosa nell’ambito dei singoli ordinamenti nazionali. Infine, non si ravvisa un profilo di contrasto nemmeno in relazione a quanto specificato al punto 11 delle premesse della Direttiva, laddove si è chiarito l’attuale concetto di proventi da reato al fine di includervi i proventi diretti delle attività criminali e tutti i vantaggi indiretti, compresi il reinvestimento o la trasformazione successivi di proventi diretti. Pertanto, i proventi possono comprendere qualsiasi bene, anche trasformato o convertito, in tutto o in parte, in un altro bene, ovvero confuso con beni acquisiti da fonte legittima, fino al valore stimato dei proventi confusi. Possono inoltre comprendere introiti o altri vantaggi derivanti dai proventi da reato o da beni nei quali i proventi da reato sono stati trasformati o convertiti o da beni con i quali i proventi da reato sono stati confusi . Proprio la nozione ampia di provento di reato, proposta dalla Direttiva, come inclusiva anche dei beni o valori nei quali lo stesso sia stato reinvestito, appare rispettata dalla normativa interna ed anche nel caso in esame, nel quale, per quanto deducibile dal decreto della Corte di appello di Palermo del 15/10/2010, la confisca ha riguardato imprese societarie utilizzate nel riciclaggio di denaro ricavato da attività criminosa nel settore del narcotraffico, ossia lo strumento attraverso il quale tali risorse sono state immesse nel circuito economico legale. Può quindi formularsi il seguente principio di diritto L’istituto della confisca disciplinato dalla L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 3-quinquies, laddove consente di sottrarre alla disponibilità del proposto e dei terzi beni che si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, non si pone in contrasto con la Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2014/42/CE del 3 aprile 2014, con la quale, a fini di armonizzazione delle legislazioni nazionali, è stata introdotta soltanto una disciplina minima della confisca che riconosce ai singoli Stati membri la possibilità di prevedere strumenti più estesi ed incisivi sul fronte del contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata . In conclusione, sebbene il provvedimento impugnato non si sia fatto carico di confutare le argomentazioni in punto di diritto che sorreggono l’ultimo motivo di ricorso, la loro infondatezza non ne pregiudica la legittimità e non consente di disporne l’invocato annullamento. Per le considerazioni svolte, il ricorso va respinto con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Si dà atto che il presente provvedimento, redatto dal Consigliere BONI Monica, è sottoscritto dal solo Presidente del Collegio per impedimento alla firma dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a .