Cadute le accuse nei confronti del direttore di un quotidiano e di un giornalista. Nessun reato nel ‘pezzo’ in cui il giudice era stato additato come “non garantista” in un determinato processo.
Lecito additare il magistrato come “non garantista”. Esclusa ogni ipotesi di colpevolezza, quindi, per il direttore e il giornalista a seguito della pubblicazione di un ‘pezzo’ su un quotidiano nazionale in cui un GUP veniva accusato di “non essere stato garantista” in uno specifico processo Cassazione, sentenza numero 8447/20, sez. V Penale, depositata oggi . Pezzo. A fare da spartiacque nella vicenda giudiziaria è il pronunciamento della Corte d’Appello. In secondo grado, difatti, viene ribaltato completamente il giudizio espresso dal Tribunale, e di conseguenza vengono ritenute prive di fondamento le accuse nei confronti del direttore di un quotidiano nazionale e di un suo giornalista, finiti sotto processo per un ‘pezzo’ in cui un magistrato era stato additato come “non garantista”. In primo grado era arrivata una condanna per diffamazione. In secondo grado, invece, i giudici escludono l’esistenza del reato, ritenendo il contenuto dello scritto giornalistico «privo di carattere offensivo per la reputazione del magistrato citato, costituitosi parte civile». A contestare la decisione emessa in Appello è ovviamente il magistrato definito «non garantista». Consequenziale il suo ricorso in Cassazione, ricorso finalizzato a dimostrare «la portata offensiva dell’espressione utilizzata» dal giornalista. A questo proposito, il magistrato osserva che l’accusa di «non essere stato garantista» ne lede «il prestigio sociale e professionale, gettando ombre sulla sua preparazione e sulla sua serenità di giudizio. Ciò a prescindere dalla collocazione del riportato giudizio in una rivista specializzata o in una pubblicazione destinata all’informazione di una categoria indifferenziata di lettori». Garantismo. A cancellare definitivamente le accuse mosse al direttore della testata e al giornalista autore del ‘pezzo’ incriminato provvede la Cassazione, confermando la visione tracciata in Appello e centrata sulla semplice osservazione che la frase «non essere stato il magistrato garantista» non esprime – «per il comune cittadino, lettore di un quotidiano di informazione e non di una rivista specializzata» – «un significato dispregiativo, evocativo di negligenza o di un atteggiamento vessatorio, ma allude soltanto al non essersi il magistrato conformato alla presunzione di non colpevolezza». I Giudici del ‘Palazzaccio’ richiamano innanzitutto «l’accezione generale e atecnica del termine ‘garantista’ – avuto riguardo alla platea di destinatari del pezzo giornalistico – che si incentra sul rispetto, da parte di chi venga definito tale tale, delle garanzie costituzionali» e poi evidenziano «l’assenza, nel ‘pezzo’, di qualsivoglia riferimento all’esercizio arbitrario o irregolare da parte del magistrato parte offesa delle proprie funzioni, essendogli stato soltanto attribuito di ‘avere creduto alle panzane dei pentiti’». Tutto ciò permette di stabilire, sempre secondo i Supremi Giudici, che «il giudizio negativo espresso dal giornalista nei confronti del magistrato, con lo stigmatizzarne l’assenza di garantismo nell’occuparsi di un processo, lungi dal risolversi in un attacco alla sfera dell’identità personale e professionale del magistrato, traduce esclusivamente il pensiero del giornalista, espresso in termini continenti, di lecita disapprovazione dell’operato del magistrato stesso, soprattutto quanto alla valutazione dei contributi dichiarativi provenienti dai collaboratori di giustizia». Per chiudere il cerchio, infine, i magistrati della Cassazione ribadiscono che «il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei giudici deve essere riconosciuto nel modo più ampio possibile, costituendo l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale, che viene esercitata nel nome del popolo italiano da soggetti che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono di ampia autonomia ed indipendenza. Ne deriva che il limite della continenza può ritenersi superato soltanto in presenza di espressioni che, in quanto inutilmente umilianti, trasmodino nella gratuita aggressione verbale del magistrato criticato».
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 4 febbraio – 2 marzo 2020, numero 8447 Presidente Sabeone – Relatore Scordamaglia Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Perugia, con la sentenza impugnata, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, in data 15 settembre 2016, ha assolto Ma. Pi. e La. Walter dai delitti loro rispettivamente ascritti, di diffamazione a mezzo della stampa, il primo, commesso attribuendo, in un articolo apparso sul quotidiano 'L'Avanti', al magistrato Al. Ma. Ci. di non essere stato garantista nei confronti del padre, Gi. Ma., e di omesso controllo sul contenuto del periodico di cui era direttore responsabile, il secondo, perché il fatto addebitato all'articolista non costituiva reato, in quanto privo di carattere offensivo per la reputazione del Dottor Ci., costituitosi parte civile. 2. Ricorre la menzionata parte civile, con tre motivi, per la cassazione della sentenza di assoluzione degli imputati. 2.1. Con il primo motivo denuncia la violazione dell'articolo 595 cod.penumero la Corte territoriale, per un verso, avrebbe omesso di valutare la portata offensiva dell'espressione utilizzata dall'articolista ”II non essere stato il Dottor Ci. garantista nei confronti dell'Onorevole Gi. Ma.” nel più ampio contesto comunicativo nel quale questa era inserita, in cui, sotto il titolo ”Chi di pentiti ferisce”, si era evocata la vicenda che aveva visto per protagonista il padre dell'articolista stesso, rinviato a giudizio dal magistrato esponente sulla base delle “panzane dei pentiti”, e, per altro verso, non avrebbe tenuto conto di quanto l'attribuzione del fatto di non essere stato garantista leda il prestigio sociale e professionale di un magistrato, gettando ombre sulla sua preparazione e serenità di giudizio, a prescindere dalla collocazione del riportato giudizio in una rivista specializzata o in una pubblicazione destinata all'informazione di una categoria indifferenziata di lettori. 2.2. Con il secondo motivo denuncia il vizio di motivazione, stigmatizzata come del tutto mancante, per essere l'affermazione contenuta in sentenza, circa il difetto di carattere diffamatorio dell'attribuzione ad un magistrato del fatto di non essere stato garantista, del tutto assertiva, in quanto frutto dell'omessa valutazione dell'enunciato esaminato nel contesto comunicativo nel quale era inserito. 2.3. Con il terzo motivo denuncia il vizio di motivazione da travisamento della sentenza di primo grado. 3. Con memoria in data 7 gennaio 2020, il difensore dell'imputato ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi il ricorso. Considerato in diritto Il ricorso è infondato. 1. La Corte territoriale, preso atto che il Tribunale aveva ritenuto che dell'articolo a firma di Pi. Ma., dal titolo “Chi di pentiti ferisce”, apparso sul quotidiano 'L'Avanti', nella pagina del 25 giugno 2011, dovesse ritenersi diffamatoria nei confronti della parte civile costituita, Dottor Al. Ma. Ci., soltanto la parte che riportava il giudizio di negazione del garantismo di questi, allorché si era occupato, da Giudice dell'Udienza Preliminare presso il Tribunale di Reggio Calabria, del processo che aveva visto imputato Gi. Ma., ha ribaltato il verdetto di colpevolezza pronunciato dal primo giudice, ritenendo che l'enunciato “non essere stato il magistrato Dottor Ci. Garantista”, per il comune cittadino, lettore di un quotidiano di informazione e non di una rivista specializzata, non esprime un significato dispregiativo, evocativo di negligenza o di un atteggiamento vessatorio, ma allude, latamente, soltanto al non essersi il magistrato conformato alla presunzione di non colpevolezza. 2. La riportata motivazione, pur calato l'evocato enunciato valutativo sul quale verte lo scrutinio nel contesto espressivo dal quale è stato enucleato, come richiesto dalla parte civile ricorrente con il primo motivo di ricorso, è giuridicamente corretta. Considerata, infatti, l'accezione generale e atecnica del termine garantista, quale quella da prendere in considerazione nella fattispecie concreta - avuto riguardo alla platea di destinatari del pezzo giornalistico di cui si discute -, che si incentra sul rispetto, da parte di chi venga definito tale, delle garanzie costituzionali, e rilevata l'assenza, nell'articolo a firma dell'imputato, di qualsivoglia riferimento all'esercizio arbitrario o irregolare da parte del magistrato parte offesa delle proprie funzioni, essendogli stato soltanto attribuito di “avere creduto alle panzane dei pentiti”, va riconosciuto che il giudizio negativo espresso dal giornalista Pi. Ma. nei confronti del Dottor Al. Ma. Ci., con lo stigmatizzarne l'assenza di garantismo nell'occuparsi del processo a carico di Gi. Ma., lungi dal risolversi in un attacco alla sfera dell'identità personale e professionale del magistrato, traduce esclusivamente il pensiero dell'articolista, espresso in termini continenti, di lecita disapprovazione dell'operato del magistrato stesso, soprattutto quanto alla valutazione dei contributi dichiarativi provenienti dai collaboratori di giustizia. Interpretazione, questa, che si colloca sulla scia dell'orientamento secondo il quale ”Il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto nel modo più ampio possibile, costituendo l'unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell'esercizio di una rilevante attività istituzionale, che viene esercitata nel nome del popolo italiano da soggetti che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono di ampia autonomia ed indipendenza ne deriva che il limite della continenza può ritenersi superato soltanto in presenza di espressioni che, in quanto inutilmente umilianti, trasmodino nella gratuita aggressione verbale del soggetto criticato” Sez. 5, numero 19960 del 30/01/2019, Giorgetti, Rv. 276891 Sez. 5, numero 37397 del 24/06/2016, C, Rv. 267866 . Da qui l'infondatezza del motivo. 2. Il secondo e il terzo motivo di ricorso sono inammissibili, vuoi per genericità, non essendo la censura che si dirige sul vizio di motivazione correlata all'effettivo tenore delle argomentazioni poste a sostegno della decisione impugnata Sez. 4, numero 34270 del 03/07/2007, Scicchitano, Rv. 236945 , vuoi per manifesta infondatezza, posto che ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. e , cod.proc.penumero , il vizio di motivazione denunciabile in cassazione è solo quello che si riferisce al travisamento della prova derivante da atti specificamente indicati Sez. 6, numero 5146 del 16/01/2014 -dep. 03/02/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774 , non certo quello che deriva da una non corretta percezione del significato valutativo dell'insieme argomentativo che correda una decisione. 3. Il ricorso va, pertanto, rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.