Bancarotta fraudolenta: il codice della crisi di impresa non ha inciso sul reato

È inammissibile il ricorso proposto da un imputato condannato per bancarotta fraudolenta con il quale veniva invocata un’ipotetica abolitio criminis per effetto delle modifiche introdotte dal nuovo codice della crisi di impresa alle norme civilistiche poste a fondamento della fattispecie penale.

Lo ha affermato la Suprema Corte con la sentenza n. 4772/20 depositata il 4 febbraio. La vicenda. Il GIP del Tribunale di Roma applicava all’imputato la pena concordate fra le parti per i reati di cui agli artt. 110 c.p., 223, comma 2, n. 1 in relazione all’art. 2621 c.c. e 219 l. fall L’imputato ha proposto ricorso per cassazione invocando, a seguito dell’entrata in vigore degli artt. 389 e 390 d.lgs. n. 14/2019 c.d. codice della crisi d’impresa , l’avvenuta abolitio criminis per mutamento della legge extrapenale posta a fondamento delle norme penali incriminatrici. Il nuovo codice della crisi di impresa. Il Collegio evidenzia in primo luogo che le nuove norme incriminatrici contenute nel codice della crisi d’impresa entreranno in vigore, ai sensi dell’art. 389 del medesimo d.lgs. n. 14/2019, solo decorsi 18 mesi dalla data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e dunque il 15 agosto 2020. Inoltre, le nuove norme appaiono in perfetta continuità normativa con le precedenti norme contenute nel r.d. 16 marzo 1942 n. 267 . Richiamando il testo della disposizione di cui all’art. 223 Bancarotta fraudolenta , comma 2, n. 1, r.d. n. 267/1942, la cui violazione è stata contestata al ricorrente, la Corte dimostra come il tenore letterale della norma sia stato letteralmente riprodotto dall’art. 329 d.lgs. n. 14/2019. Conseguentemente, non vi è alcuna discontinuità del precetto penale né la risposta sanzionatoria risulta diversa . Il ricorrente non ha invece dedotto l’applicabilità della nuova causa di punibilità o attenuante in assenza di danno di speciale tenuità di cui all’art. 25, comma 2, c.d.i. riconducibile all’iniziativa dell’imprenditore prevista appunto dal nuovo contesto normativo. In merito alle modifiche introdotte nelle norme civilistiche che presiedono ai presupposti della liquidazione dell’impresa, solo in parte entrate in vigore ai sensi dell’art. 389, comma 2, la Corte afferma che non si ravvisano elementi concreti – e certo non possono esserlo la diversa distribuzione di compiti e potersi del giudice delegato, del curatore, dei creditori e del soggetto interessato e le diverse scansioni processuali – tali da mutare il presupposto, l’insolvenza dell’impresa, su cui si fondano le norme penali . In conclusione, il ricorso viene dichiarato inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 10 dicembre 2019 – 4 febbraio 2020, n. 4772 Presidente Sabeone – Relatore Stanislao Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata, del 16 maggio 2019, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma ha applicato a M.F. la pena concordata fra le parti nella misura indicata in dispositivo, per i reati contestatigli ai sensi dell’art. 110 c.p., art. 223, comma 2, n. 1, in relazione all’art. 2621 c.c., e L. Fall., art. 219. 2. L’imputato ha proposto ricorso, a mezzo del difensore, deducendo, con l’unico motivo, la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla omessa applicazione del disposto dell’art. 129 c.p.p. in quanto, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 14 del 2019, artt. 389 e 390, di riforma della legge fallimentare, si era verificata l’ipotesi di abolitio criminis , essendo mutata la legge extrapenale posta a fondamento delle norme penali incriminatrici. 3. Il Procuratore generale presso questa Corte, nella persona del sostituto Dott. VIOLA Alfredo Pompeo, ha chiesto venga dichiarata l’inammissibilità del ricorso non essendo già entrata in vigore la normativa invocata. Considerato in diritto Il ricorso presentato nell’interesse dell’imputato è inammissibile, per una pluralità di motivi. 1. Innanzitutto perché le norme in base alle quali il Tribunale ha pronunciato la sentenza di patteggiamento risultano ancora in vigore posto le nuove norme incriminatrici contenute nel D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 - il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della L. 19 ottobre 2017, n. 155 entreranno in vigore, a norma dell’art. 389 del medesimo decreto, solo decorsi diciotto mesi dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 14 febbraio 2019, e, quindi il 15 agosto 2020. In secondo luogo, perché le nuove norme appaiono in perfetta continuità normativa con le precedenti norme contenute del R.D. 16 marzo 1942, n. 267. Al prevenuto, in particolare, è stata ascritta la violazione, in concorso con gli altri amministratori, dell’art. 223, comma 2, n. 1, del R.D., in relazione all’art. 2621 c.c., avendo riportato, nei bilanci di esercizio della fallita dichiarata tale con sentenza del 3 ottobre 2013 s.r.l. omissis del 2009, 2010 e 2011, fatti non corrispondenti al vero, occultando perdite tali da annullare il patrimonio netto e così cagionando il dissesto della stessa. La fattispecie astratta ascritta al prevenuto è pertanto la seguente Art. 223. Fatti di bancarotta fraudolenta. 1. Si applicano le pene stabilite nell’art. 216 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel suddetto articolo. 2. Si applica alle persone suddette la pena prevista dalla L. Fall., art. 216, comma 1, se 1 hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli artt. 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 c.c. Non diversamente, ed anzi riproducendo la lettera della precedente norma, nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 14 febbraio 2019, sotto l’identica rubrica Fatti di bancarotta fraudolenta , l’art. 329 prevede che 1. Si applicano le pene stabilite nell’art. 322 nei casi di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale commessi dall’imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale , e, quindi, non più fallito agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società in liquidazione giudiziale, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel suddetto articolo. 2. Si applicano alle persone suddette la pena prevista dall’art. 322, comma 1, se a hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli artt. 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 c.c Non vi è pertanto alcuna discontinuità del precetto penale nè la risposta sanzionatoria risulta diversa che subentrerà all’attuale disciplina. Nè, nell’odierna fattispecie, si è fatta questione circa l’applicabilità della, questa sì nuova, causa di non punibilità o, in alternativa qualora non ricorra il danno di speciale tenuità , circostanza attenuante, previste dall’art. 25, comma 2, del Codice della crisi d’impresa, e peraltro riconducibili ad una iniziativa dell’imprenditore prevista solo dalle nuove norme. 2. Quanto alle modifiche introdotte nelle norme civilistiche che presiedono ai presupposti della liquidazione dell’impresa ed alla procedura da seguire, solo in minima parte già entrate in vigore in applicazione dell’art. 389, comma 2 del decreto , sostituendo anche al fallimento la liquidazione della stessa non si ravvisano elementi concreti - e certo non possono esserlo la diversa distribuzione di compiti e poteri del giudice delegato, del curatore, dei creditori e del soggetto interessato e le diverse scansioni processuali - tali da mutare il presupposto, l’ insolvenza dell’impresa , su cui si fondano le norme penali, che, difatti, sono rimaste immutate, tranne nell’aggiornamento del lessico dei nuovi presupposti di applicabilità. 3. Il ricorso è, pertanto come si è detto inammissibile anche perché l’art. 448 c.p.p., comma 2 bis, lo consente contro la sentenza di patteggiamento solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione fra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto ed alla illegalità della pena o della misura di sicurezza . L’inammissibilità deve essere dichiarata de plano ai sensi dell’art. 610 c.p.p., comma 5 bis, e comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, versando il medesimo in colpa, anche della somma di Euro 4.000 a favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 4.000 a favore della Cassa delle Ammende.