L’attività di consulenza stragiudiziale non salva il sedicente avvocato dalla condanna

Ai fini della sussistenza del delitto di esercizio abusivo della professione forense, in virtù dell’art. 2, comma 6, l. n. 247/2012, assume rilevanza anche l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato .

La vicenda. Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 46865/19, depositata il 19 novembre, decidendo sul ricorso presentato dalla difesa avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano aveva confermato la condanna dell’imputata per esercizio abusivo della professione di avvocato, falso e truffa aggravata ai danni delle persone offese. Questi infatti avevano delegato l’imputata a trattare con la propria compagnia assicurativa per la liquidazione di un sinistro stradale. La donna, che si spacciava per avvocato senza aver mai conseguito il titolo, aveva anche incassato gli assegni. Con il ricorso per cassazione, la difesa sostiene che per l’attività contestata dall’imputata non è richiesta l’abilitazione professionale, potendo essere svolta da qualsiasi delegato. Viene inoltre dedotta l’insussistenza dei requisiti di continuatività, sistematicità e organizzazione dell’attività integrante l’illecito, requisiti riscontrati invece dai giudici di merito. Esercizio abusivo della professione forense. La doglianza risulta manifestamente infondata. La pronuncia impugnata ha infatti richiamato, quale norma integratrice del precetto penale, la legge sull’ordinamento della professione forense l. n. 247/2012 che, all’art. 2, comma 6, espressamente prevede la competenza degli avvocati in relazione all’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato . Su tale base normativa è stata correttamente evidenziata la lunga durata dell’ assistenza legale” prestata alle persone offese, durata circa 3 anni. Ugualmente sussistente è l’elemento dell’organizzazione, la cui sussistenza discende dalle concrete modalità del rapporto intrattenuto con i clienti”, accompagnandoli alle visite mediche, predisponendo la delega a trattare con la compagni assicuratrice e la falsa procura speciale legittimante l’incasso. Come precisa la Corte l’indice dell’organizzazione deve essere apprezzato sinergicamente con il requisito della continuità o sistematicità, di cui costituisce un predicato concernente una seppur rudimentale strutturazione dell’attività professionale abusiva . La giurisprudenza, e in particolare la sentenza Cani invocata dalla ricorrente SS.UU. n. 11545/11 , valorizza infatti le connotazioni di abitualità che sottendono il concetto stesso di esercizio di una professione, trattandosi di modalità suscettibili di ingenerare affidamento nei terzi rispetto all’espletamento di atti qualificanti, anche se non riservati, mediante l’accreditamento di un apparente legittimo patrocinio . Applicando tali principi al caso di specie e valorizzando le caratteristiche della condotta, la Corte esclude ogni dubbio sulla sussistenza della fattispecie ascritta alla ricorrente. Risultando infondata anche la doglianza relativa alla fattispecie della truffa, la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 26 settembre – 19 novembre 2019, n. 46865 Presidente Cammino – Relatore De Santis Ritenuto in fatto 1.Con l’impugnata sentenza la Corte d’Appello di Milano confermava la decisione del Gip del locale Tribunale in data 18/3/2016, che -in esito a giudizio abbreviato aveva dichiarato l’imputata colpevole dei delitti di esercizio abusivo della professione di avvocato, falso e truffa aggravata ai danni di T.A. e T.M. , condannandola alla pena di anni quattro di reclusione, previo riconoscimento del vincolo della continuazione. 2. Ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’imputata, Avv. Angelo Colucci, deducendo 2.1 la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui all’art. 348 c.p. La difesa, premesso che al capo a si addebita all’imputata di aver speso il titolo di avvocato mai conseguito per farsi delegare dal sig. T.A. a trattare la liquidazione di un sinistro stradale occorsogli in data 24/3/2007 con la compagnia assicurativa Le Generali, incassando successivamente i relativi assegni, lamenta che la Corte territoriale ha confermato il giudizio di responsabilità nonostante l’attività svolta dall’imputata non richieda l’abilitazione professionale e possa essere esercitata da un qualsiasi delegato, motivando la propria decisione con il richiamo giurisprudenziale alle SS.UU. Cani e reputando che l’attività svolta dalla prevenuta, pur non strettamente riservata agli avvocati, presenterebbe i requisiti di continuatività, sistematicità e organizzazione richiesti per l’integrazione dell’illecito. In particolare, la sentenza ha ritenuto la continuatività sulla base della durata dell’assistenza legale prestata al denunziante, in contrasto con le indicazioni della giurisprudenza di legittimità ha omesso la motivazione sul requisito della sistematicità ed ha giustificato l’asserita ricorrenza del requisito dell’organizzazione con riferimenti incongrui alla delega sottoscritta dal T. e alla falsa procura speciale, senza considerare che siffatto elemento non può che connotare l’attività sul piano dei mezzi impiegati nel suo svolgimento e non l’atto compiuto 2.2 la violazione di legge e il vizio della motivazione in relazione alla fattispecie di truffa. Lamenta il difensore che la Corte territoriale nel confermare la responsabilità della ricorrente per il delitto di truffa ha reso una motivazione censurabile affermando, a confutazione dei rilievi difensivi, la non necessaria identità fra la persona indotta in errore e il soggetto che pone in essere l’atto dispositivo, senza considerare che siffatta scissione è ammissibile solo laddove il terzo goda di un potere dispositivo sulla sfera patrimoniale aggredita, nella specie da escludere, dal momento che con tutta evidenza il denunziante T. , soggetto indotto in errore, non aveva alcun potere dispositivo sul patrimonio delle compagnie assicuratrici che hanno effettuato gli esborsi. La difesa reputa, altresì, che in caso di difforme opinione della Corte adita, si profilerebbe un contrasto giurisprudenziale la cui soluzione dovrebbe essere demandata alle Sezioni Unite. Quanto al rigetto dell’eccezione di nullità ex art. 522 c.p.p. sollevata dalla difesa, avendo il primo giudice ritenuto la ravvisabilità nei fatti di due distinte condotte di truffa, l’una ai danni del T. , l’altra delle compagnie assicurative, la difesa segnala come la Corte territoriale, pur convalidando l’assunto del Gip, ne ha tuttavia corretto la motivazione, ritenendo la configurabilità di due episodi truffaldini ai danni rispettivamente delle Assicurazioni Generali di Imperia e di Milano e non del T. e della Compagnia Assicurativa. Per altro verso, la ricorrente sostiene che la qualificazione giuridica del fatto deve ritenersi erronea poiché con riguardo all’incasso del risarcimento erogato dalla Compagnia Generali Assicurazioni di Imperia il T. aveva rilasciato una delega all’imputata, la quale era dunque autorizzata alla riscossione sicché si sarebbe dovuta ravvisare in luogo della truffa la fattispecie di appropriazione indebita. Considerato in diritto 3. Il primo motivo che revoca in dubbio la sussistenza del delitto di esercizio abusivo della professione forense è manifestamente infondato. La difesa dubita della corretta applicazione nella specie dei principi fissati da Sez. U.,n. 11545 del 15/12/2011, Cani, Rv. 251819, secondo cui integra il reato di esercizio abusivo di una professione ex art. 348 c.p. il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011 dep. 2012, Cani, Rv. 251819 Sez. 6, n. 23843 del 15/05/2013, Mappa, Rv. 255673 n. 33464 del 10/05/2018, Melis, Rv. 273788 . 3.1 La Corte territoriale ha richiamato, quale norma integratrice del precetto penale, la L. 31 dicembre 2012, n. 247 che disciplina l’ordinamento della professione forense e all’art. 2, comma 6, espressamente prevede la competenza degli avvocati in relazione all’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato . Ha, quindi, evidenziato la lunga durata dell’ assistenza legale prestata dalla prevenuta a T.A. , protrattasi per circa tre anni e relativa a due pratiche di risarcimento del danno, l’una concernente le conseguenze pregiudizievoli del sinistro stradale subito dal querelante nel 2007, l’altra, la responsabilità professionale dei medici dell’Ospedale XXXXX che l’avevano avuto in cura ha segnalato che la M. era stata accreditata come avvocata esperta del settore da un’amica di famiglia e che era stata altra cliente della prevenuta, la Signora Sg. , a riferire a T.M. che l’imputata non era iscritta all’Ordine degli Avvocati, sebbene spendesse il relativo titolo, e che nel suo caso aveva illecitamente riscosso e trattenuto il risarcimento a lei destinato. Quanto all’organizzazione, la Corte ha evocato in concreto le modalità del rapporto intrattenuto con i T. , l’accompagnamento dell’infortunato in occasione di alcune visite mediche, la predisposizione di una delega a trattare con la compagnia assicuratrice e di una falsa procura speciale legittimante l’incasso a firma del Notaio M. , circostanze che depongono per un’attività non occasionale ed estemporanea ma oggetto di accurata pianificazione. 3.2 Osserva al riguardo la Corte che l’indice dell’organizzazione deve essere apprezzato sinergicamente con il requisito della continuità o sistematicità, di cui costituisce un predicato concernente una seppur rudimentale strutturazione dell’attività professionale abusiva, non identificabile necessariamente con la disponibilità di uno studio legale ovvero di un apparato strumentale che la sostenga. La sentenza Cani, che la difesa richiama a fondamento dei rilievi in questa sede introdotti, ha evidenziato che il compimento di atti non esclusivi di una professione soggetta a peculiari vincoli d’esercizio e, in particolare, all’iscrizione nel relativo albo non può ritenersi sottratta alla necessità di tutelare il cittadino dal rischio di affidarsi, per determinate esigenze, a soggetti inesperti nell’esercizio della professione o indegni di esercitarla , aggiungendo che quando tali attività siano svolte in modo continuativo e creando tutte le apparenze organizzazione, remunerazione, ecc. del loro compimento da parte di soggetto munito del titolo abilitante, le stesse costituiscono espressione tipica della relativa professione e realizzano quindi i presupposti dell’abusivo esercizio, sanzionato dalla norma penale. La giurisprudenza valorizza, dunque, le connotazioni di abitualità che sottendono il concetto stesso di esercizio di una professione, trattandosi di modalità suscettibili di ingenerare affidamento nei terzi rispetto all’espletamento di atti qualificanti, anche se non riservati, mediante l’accreditamento di un apparente legittimo patrocinio, conforme ai fini di tutela degli interessi del fruitore, presidiati dai presupposti di onorabilità, competenza ed etica professionale propri dello specifico ordinamento. Nella specie, l’abusiva e diffusa spendita dell’inesistente titolo professionale, accompagnata dallo svolgimento di una protratta attività di consulenza e mediazione legale con le controparti fino alla liquidazione dei danni relativi ai due sinistri denunziati, i cui importi sono stati incassati anche in forza di una procura speciale falsa all’uopo formata, danno conto della sussistenza della fattispecie ascritta, essendo stata l’attività illecita sostenuta dall’artificiosa creazione e dal successivo mantenimento di un rapporto fiduciario con i T. , avente le caratteristiche di continuità, onerosità e prestazione di mezzi e asserite competenze tipiche dell’esercizio della professione legale. 4. Quanto alla fattispecie di truffa, questa Corte ha chiarito, con insegnamento cui deve darsi continuità, che l’integrazione del reato non implica la necessaria identità fra la persona indotta in errore e la persona offesa, e cioè titolare dell’interesse patrimoniale leso, ben potendo la condotta fraudolenta essere indirizzata ad un soggetto diverso dal titolare del patrimonio, sempre che sussista il rapporto causale tra induzione in errore e gli elementi del profitto e del danno Sez. 2, n. 10085 del 21/02/2008 dep. 05/03/2008, Minci, Rv. 239508 n. 2281 del 06/10/2015,dep. 2016, PM in proc. Della Monica e altro, Rv. 265773 n. 39958 del 19/07/2018, Ferrigno, Rv. 273820 . L’isolato, difforme, precedente citato dalla difesa, secondo cui è necessaria la identità soggettiva tra il soggetto che, indotto in errore dall’autore del reato, compie l’atto di disposizione patrimoniale e il soggetto passivo del danno, acquisendo rilievo l’atto di disposizione patrimoniale del terzo ingannato solo nel caso in cui questi abbia la gestione degli interessi patrimoniali del titolare e la possibilità di compiere atti aventi efficacia nella sfera patrimoniale aggredita Sez. 5, n. 18968 del 18/01/2017, F, Rv. 271060 , è relativo ad una vicenda che vedeva il ricorrente imputato per furto aggravato dal mezzo fraudolento e costituisce affermazione resa nell’ambito della diagnosi differenziale tra il reato giudicato e quello di truffa in assenza di un’analisi ermeneutica suscettibile di inficiare gli approdi dell’orientamento dominante. Infatti, secondo lo schema normativo nella truffa all’induzione in errore deve conseguire l’ingiusto profitto con altrui danno e nell’indispensabile rapporto eziologico tra la condotta strumentale e l’evento non è giuridicamente necessitata la coincidenza dell’indotto in errore con il soggetto passivo del danno che pure, nella specie, ricorre. Infatti, il T. , avendo affidato alla M. la cura dei propri interessi, conferendole apposita delega per trattare il risarcimento del danno a seguito dei sinistri di cui era rimasto vittima nel 2007, per effetto dell’accreditamento dell’imputata come avvocato, subiva il danno costituito dalla mancata percezione delle somme a tale titolo liquidate dalla Compagnia assicuratrice e lucrate dalla ricorrente. Le Compagnie assicuratrici che procedettero all’erogazione degli importi oggetto di transazione hanno, dunque, compiuto atti dispositivi che non risultano frutto dell’induzione in errore operata dalla M. , attesa l’effettiva esistenza dei contenziosi risarcitori per i danni subiti dal T. , agendo in veste di obbligati al risarcimento per conto del responsabile del sinistro stradale e dell’Istituto Ospedaliero . L’errore nella ricostruzione difensiva è determinato dall’omessa considerazione che l’oggetto della condotta truffaldina è costituito dalla gestione, ottenuta fraudolentemente dalla prevenuta, dei diritti risarcitori del T. nei confronti dei soggetti obbligati e coperti da assicurazione per i sinistri causati, la cui liquidazione, lungi dal confluire nel patrimonio dell’offeso,veniva volta a profitto personale da parte della ricorrente. La contestazione formulata in rubrica è,dunque, corretta al pari della ritenuta continuazione in relazione alle due distinte pratiche risarcitorie. Palesemente destituito di pregio risulta anche l’ulteriore rilievo in punto di qualificazione giuridica giacché, come già chiarito, l’induzione in errore cade nella fase di affidamento dell’incarico professionale alla M. che evidentemente fin dall’inizio intendeva agire in rem propriam al fine di appropriarsi degli importi liquidati. Questa Corte ha, infatti, in più occasioni precisato che sussiste il delitto di truffa e non quello di appropriazione indebita quando l’artificio e il raggiro risultino necessari alla appropriazione Sez. 2, n. 35798 del 18/06/2013, Actis, Rv. 257340 Sez. 2, n. 51060 del 11/11/2016, Losito, Rv. 269234 . 5. Alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della proponente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria precisata in dispositivo in ragione dei profili di colpa ravvisabili nella sua determinazione. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.